In Succession, Harry sarebbe, dei Roy, l’inutile e incazzoso Kendall (quello che strepita, ma poi in fondo vuole restare attaccato al kilt di papà: e infatti il duchino, nella vita vera, dice “La mia porta è sempre aperta, è lui che adesso deve fare il primo passo”) oppure l’inutile ma in fin dei conti furbo Connor (quello che solo apparentemente cambia strada, si dà alla politica, sposa una moglie attricetta, ma rimane un ribelle coi soldi di papà)? L’unica differenza è che Connor è il primogenito (incapace di farlo; o forse, per l’appunto, più furbo proprio perché vuole evitare tutte le rogne che il ruolo del primogenito comporta), mentre Kendall è davvero lo “spare”, il figlio più piccolo segnato fin dalla nascita, la ruota di scorta, quello che non sarebbe destinato a seguire le orme del padre. (Lo so: quella di Succession non è una monarchia, ma, voglio dire… avete visto Succession?)
In The White Lotus, Harry sarebbe il ventenne (prima stagione) costretto dalla madre simil-Gwyneth “goop” Paltrow a dormire sulla brandina in uno sgabuzzino della loro suite hawaiana mentre il resto della prole c’ha il lettone tutto per sé, oppure l’universitario (seconda stagione) che vuole interrompere la linea di seduzione, più che di successione, incarnata dalle generazioni precedenti, cioè il padre e il nonno che ancora sbavano dietro alle signorine, mentre lui si è emancipato, è andato a studiare nella wokissima California, vuole da una donna un rapporto sincero e paritario – ma poi si fa fregare dalla prima puttanella che incontra. (Lo so: nel primo caso la madre è viva, ma vogliamo davvero affermare che Diana non è stata la prima lifestyle influencer della storia?)
Oppure Harry è Mercoledì Addams, o è quello che per tutti è sempre stato “the bad guy” e allora lo diventa per davvero, o è Lillo costretto a fuggire da Posaman, cioè dalla public persona che tutti si aspettano da lui e di cui lui invece si vuole sbarazzare?
Oggi per Mondadori esce Spare – Il minore, l’autobiografia del piccolo principe che nessuno leggerà (seh, vabbè). E non tanto perché in giro abbiamo già letto tutto: il fratellaccio William che lo spinge sulla ciotola del cane (ciotola del cane evidentemente di Swarovski, visto che gli resta conficcata nella schiena: solo noi andiamo da Arcaplanet e compriamo ciotole di metallo?); il costume da nazista suggerito dai bastardi senza gloria William e Kate (Quentin, fossi in te li scritturerei per C’era una volta a… Windsor); il rum e la cocaina, zan zan; eccetera eccetera.
Non la leggerà nessuno perché tutti abbiamo già visto questa storia, e continueremo a vederla. Harry (e Meghan) è lo “shakerando” vivente di tutto quello che vediamo, sentiamo, scrolliamo da anni. È lo storytelling algoritmico di oggi: il privilege col senso di colpa, la ribellione che resta sempre presso sé stessi, e poi le frasette facilmente memizzabili, reelizzabili, le mossette con la consorte coreografate come un balletto burtoniano da riprodurre su TikTok. E infatti Harry ha capito che il contratto milionario con Netflix, e tutto quello che nell’immaginario pubblico ne deriva, vale più di mille, ossidatissime corone.
Tutti in questi giorni scrivono “Basta, Harry: ci hai rotto il cazzo”, ma proprio lì sta il genio del meno genio (i meno geni: lui e moglie) della Terra. Nell’aver capito che oggi solo di sovraesposizione si vive. Quello che frigna perché la sua (royal) family fa uscire le notizie sui propri membri in combutta coi tabloid è quello che sta teaserando il suo memoir da settimane, tra docuserie più comandate dei video sfondo scrivania di Berlusconi, stralci d’interviste future e frasi bollenti opportunamente leakate.
Non so se siamo dentro Succession, The White Lotus o Lillo. Harry a pezzi è diventato una serie lui stesso, il contenuto (pardon) che l’algoritmo ha deciso di suggerirci sempre e comunque. Di sicuro non è The Crown: lì anche dietro le immaginatissime quinte i dettagli son più reali che qua. Lì le ciotole sono di semplicissimo metallo.