C’è questa cosa di cui si sta discutendo da mesi, ed è uno degli argomenti più vecchi del mondo: si chiama il privilegio. Quello di ricoprire un certo ruolo senza (pare) alcuna fatica; quello di avere un certo merito senza (si direbbe) alcuna qualità; quello di essere il “figlio di” (proprio quel) tizio e (proprio quella) tizia, senza aver corrotto il divino per entrare nell’utero giusto; quello, in pratica, di nascere con la camicia.
La faccenda tutta hollywoodiana dei cosiddetti nepo baby – in altri termini: coloro che beneficiano del nepotismo; in altri termini ancora: quelli che una volta erano chiamati “figli d’arte” – non è altro che l’ennesima storiella che il popolo più o meno (soprattutto meno) âgé dei social rivendica come scoperta del secolo. E a un anno da quando ha avuto inizio lo scandalo sul nepotismo di Hollywood, anche l’esempio di come nella nostra ossessiva ricerca di un qualunque appiglio a dimostrazione di quanto poco valgano gli altri (in questo caso: i figli dei famosi) si rifletta soprattutto l’evidente impoverimento dei nostri interessi; della nostra stessa cultura di uomini e donne occidentali. Ma andiamo con ordine, ché prima di giungere a certe conclusioni bisogna capire chi sono i nepo(tism) baby, da dove tutto ha avuto inizio, e perché negli Stati Uniti non si parla (ancora adesso) d’altro.
Partiamo da una premessa. Quella del privilegio di venire al mondo in una famiglia che ha uno, o magari tutti e due i piedi, in un qualche settore, e di beneficiare della porta lasciata (apposta) aperta dalle scarpe di chi già gira dall’altra parte scalzo, è ciò che chiamiamo “nepotismo”. Esiste da sempre e in qualunque ambito lavorativo, e manco a dirlo noi italiani potremmo insegnarlo alla frequentatissima “Università della Vita”, dato che nostro figlio, quel cugino, la cognata, e pure la sorella della cognata oggi sono impiegati grazie al nostro magistrale lavoro di favoreggiamento. Ma per gli americani, no: il nepotismo non esiste. O per meglio dire, esiste (certo che esiste, lo sanno bene), ma non può vincere in una cultura fondata sulla parabola del self-made man e sulla meritocrazia quale imperativo. Fatto sta che mentre noi nelle nostre pause caffè sosteniamo con nonchalance e proverbiale invidia che se tizia è lì, è perché c’è di mezzo lo zio (o l’ha data, un evergreen), loro nelle loro pause si limitano a parlare d’altro e, se proprio, a fare spallucce, perché chi è dov’è, non c’è dubbio: se l’è meritato. Della serie: il confronto italo-americano non era solo una questione di espresso in tazza piccola versus latte macchiato in bicchierone Starbucks.
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Se si coglie questo aspetto della cultura americana e lo si somma alla risonanza che può avere oggi anche la minima idiozia postata sui social, non è difficile capire come la presa di coscienza del nepotismo dilagante a Hollywood sia finito per rimbalzare tanto sull’opinione pubblica americana, quanto sull’interesse dei media globali; e, di conseguenza, su noi tutti. Ma c’è altresì da ammettere che se si considera la genesi e l’evoluzione (ancora in atto) dello scandalo dei nepo baby, la questione diventa anche così ottusamente emblematica della realtà sociale che stiamo vivendo da raggiungere il tragicomico.
A far esplodere la polemica pare sia stato infatti il tweet di una ragazza, tale Meriem Derradji, che nel febbraio 2022 aveva cinguettato la propria delusione per aver scoperto che l’attrice Maude Apatow (vedi alla voce: Euphoria) è figlia dell’attrice Leslie Mann e del regista Judd Apatow, e pertanto ben ammanicata nel giro. Sia chiaro: Meriem Derradji non è altro che una Gen Z qualunque iscritta a Twitter, rea solo di aver definito Maude Apatow una “nepotism baby” mentre rifletteva seduta sul water (confrontare altri tweet di @MeriemIsTired per conferma). Eppure, il colpo va inspiegabilmente a segno e – complice forse la consueta voglia di digitare la propria indignazione per nulla di nuovo, o forse la cornice casalinga dell’inconsapevole Meriem – la shitstorm verso i figli d’arte di Hollywood ha inizio. Nel giro di poco, il termine nepo baby entra nel vocabolario comune; nei trend topic di Twitter; nelle domande che i giornalisti rivolgono ai diretti interessati non appena ne hanno (ghiotta) occasione. A quel punto, i nepo baby non possono far altro che prendere posizione e iniziare a dire la loro.
Lo scorso ottobre Maya Hawke (figlia di Uma Thurman ed Ethan Hawke), risponde a Rolling Stone USA dicendo che «tu puoi avere garantite delle chance, ma le chance non sono infinite; così devi continuare a lavorare e fare un buon lavoro»; mentre Leni Klum (figlia della top model Heidi e di Flavio Briatore) si dimostra realistica quando ammette a People che essere una nepo baby «è un dato di fatto», a cui si aggiunge tuttavia «lo stesso amore per la stessa cosa» (leggi: la moda) della madre. Fino a che una delle nepo baby più in vista di Hollywood, Lily-Rose Depp (vedi alla voce: Vanessa Paradis e Johnny Depp), lo scorso novembre rilascia un’intervista per Elle in cui dice che «è strano [per me] ridurre qualcuno all’idea che sia lì solo per un motivo generazionale. Semplicemente non ha alcun senso»; e il tutto mentre la modella bresciana Vittoria Ceretti già digita un messaggio al vetriolo in risposta (pare) alla Depp nelle sue storie Instagram, il cui senso si può riassumere in un gigantesco: «Ma fammi il piacere». Perché è chiaro che non è una colpa essere figlio di qualcuno con una posizione di rilievo in un qualunque settore, ma si può anche evitare di giocare la carta del “noi incamiciati siamo come voi vestiti di stracci”, versando lacrime di coccodrillo «sul divano di papino nella villa a Malibu» (semi-cit.).
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Ma altro che dichiarazioni e scontri tra nepo e non-nepo baby: il vero colpo grosso al Nepo-Universo di Hollywood è quello del 19 dicembre del New York Magazine, che, in un dettagliatissimo dossier a firma del senior writer Nate Jones, passa in rassegna tutti (ma proprio tutti) i bambini nati sotto la giusta stella, “over-analizzando” le linee di sangue (e dei conseguenti ingaggi).
Ci sono i nepo baby figli di attori, come la Maya Hawke di cui sopra e Dakota Johnson (figlia di Don Johnson e Melanie Griffith, e con tanto di ex patrigno-star: Antonio Banderas); quelli figli di chi è ben ammanicato nel giro, come Zoë Kravitz (vedi alla voce: Lisa Bonet e Lenny Kravitz) e Lily Collins (figlia di quel Phil dei Genesis che tutti conosciamo). Poi quelli che hanno avuto la fortuna non solo di nascere dai genitori giusti, ma anche di ereditarne la stessa faccia, com’è successo per Kaia Gerber, che sembra la copia della madre Cindy Crawford; quelli che sono stati messi sul set perché dietro la macchina da presa c’era il papà (vedi il caso di Maggie e Jack Gyllenhaal) o magari lo zio (vi dice qualcosa il nome di Timothée Chalamet?). E così via, in infografiche piene di foto, nomi, freccette, categorizzazioni in base al tipo di aggancio nel settore. Il risultato è un lavoro certosino – e a dire il vero anche un po’ stronzo – che però ha l’onestà di evidenziare come molti nepo baby vengano da scuole prestigiose come la Crossroads o la Harvard-Westlake. Mossa che ha tutta l’aria di essere un filo paracula.
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Accurato o eccessivo, divertente o meschino: ognuno ha visto l’articolo di Nate Jones come lo voleva vedere. In ogni caso, le risposte dei diretti interessati non si sono fatte attendere. Una fra tutte quella dell’attrice Jamie Lee Curtis, che, a pochi giorni dall’uscita della bomba mediatica del New York Magazine, ha condiviso su Instagram una foto che la ritrae con i genitori (gli attori Janet Leigh e Tony Curtis) scrivendo che «il dibattito sui nepo baby è progettato solo per sminuire, denigrare e ferire». Perché se è lecito dire che ci sono molti vantaggi nell’essere “figlia di”, è d’altra parte ingiusto bollare a priori come senza talento quella stessa persona, e solo per la famiglia da cui proviene; perché, dice Curtis, «ho imparato che è semplicemente ingiusto». Concludendo il tutto con l’ammissione social di quanto lei sia fiera del proprio lignaggio (altro che Game of Thrones).
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Dal canto suo, in un’intervista all’Independent, Kate Hudson ha tagliato corto, dicendo che tutta questa faccenda del nepotismo di Hollywood «non le importa»; che è nel sangue della propria famiglia (figli di Kate a sua volta inclusi) essere degli storyteller; che «la gente può chiamare [la questione] come vuole, ma questo non cambierà le cose». Ed è meglio non le si chieda altro, ché il rischio è che Kate ci molli pure un ceffone. Altro approccio quello di Hailey Bieber, che invece se n’è stata zitta (un po’ come sempre) e ha lasciato che a parlare fosse, qualche giorno fa, la sua t-shirt bianca, dove la scritta minimal “nepo baby” rivendica il proprio orgoglio per essere la figlia dell’attore Stephen Baldwin, nonché nipote del (forse più) famoso Alec. Ovviamente la foto di Bieber-Baldwin è rimbalzata di social in social, di tabloid in tabloid, complice anche il commento su Instagram di Gwyneth Paltrow («Potrei aver bisogno di alcune di queste»), a dimostrazione del fatto che tira più la maglietta di una nepo influencer (possiamo definirla così?) delle parole di un intero carro di nepo baby.
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Ma anche a dimostrazione finale dell’inesaurito e (pare) inesauribile interesse per i “figli di”, da parte di noialtri. E non tanto perché ci importa davvero discutere di ciò che conosciamo da sempre (leggi: i benefici che comporta nascere nella famiglia giusta); di quanto sia brutto e cattivo e ingiusto e immorale il favoreggiamento di un parente in questo e quello; di come, d’altra parte, sia assolutamente comprensibile che il figlio di un attore, di un regista, di una modella, di una producer, di una qualunque persona che faccia uno dei lavori più difficilmente accessibili (e belli) al mondo voglia fare lo stesso, sfruttando pertanto l’aggancio di chi l’ha messo al mondo (o quasi).
Ma forse perché quello dei cosiddetti nepo baby è solo l’ennesimo caso-non-caso che attecchisce nel terreno fertile della nostra cultura occidentale, dove ormai si è coltivato quel che c’era di importante da coltivare, e che quindi ci porta a ritenere che un tweet scritto da una venticinquenne mentre era sul water sia degno di avere uno spazio di tutto rispetto nella zona più irrorata del campo. E, per dirla fuori di metafora: l’ultimo esempio di come tutti noi, più vicini o meno a certe dinamiche sociali, ci sentiamo oggi toccati dalle questioni più trite del mondo perché di fatto non abbiamo (e non vogliamo) nient’altro di cui (pre)occuparci. Tanto da prendere come capri espiatori quelli tra noi più in vista, pur di avere qualcosa di cui parlare. Tanto da non renderci conto che oggi ci stiamo facendo il fegato amaro sui nepo baby di Hollywood, quando noi anonimi nati col culo nel burro, con la nostra crescente supponenza mista a vanità, siamo da sempre e per sempre esattamente quella cosa lì: i privilegiati nella corsia preferenziale. Ma nel mondo.