Intervista semiseria a Domenico Montixi, tra Lucio Fulci e Peter Jackson | Rolling Stone Italia
Conglomerandocene
LOW BUDGET & NOSTALGIA

Intervista semiseria a Domenico Montixi, tra Lucio Fulci e Peter Jackson

Lontanissimo dalle malizie, dalla goliardia e dall’ansia d’appartenenza di tanti suoi vicini di banco con la maglietta di Tarantino, Domenico Montixi è un regista duro e puro, una proverbiale boccata d’ossigeno fra i registi che rivisitano le estetiche da b-movie degli anni ’70

Intervista semiseria a Domenico Montixi, tra Lucio Fulci e Peter Jackson

Ha trionfato nella sezione Corti Italiani al Trieste Science + Fiction ed è stato selezionato al San Sebastian Horror Film Festival e allo Shock Stock Festival che si terrà in Canada a marzo. Inoltre si è fregiato di una proiezione losangelina per la rassegna Cinematic Void sotto l’egida dell’American Cinematheque. Questo è il percorso fino ad oggi de L’Isola dei Resuscitati Morti, l’ultimo corto di Domenico Montixi, videomaker dalla grossa barba e gli occhiali da sole accigliati che seguo fin dagli esordi e che trovo una proverbiale boccata d’ossigeno fra i registi che rivisitano le estetiche da b-movie degli anni ’70.

Quello che mi cattura nei suoi lavori è un aspetto che ho paura di dire a voce alta, perché molti lo stroncherebbero solo per questo. Ma sia, lo dico: una nostalgia vera e terragna, una voglia di ricreare filologicamente una stanza visivo-sonora vecchia cinquant’anni e prendervi dimora, chiudendo da dentro con tre mandate e con un bel canaccio sieropositivo a fare la guardia. Nessuna tentazione per la contemporaneità, nessun dialogo aperto, non ce ne frega niente dei giovani e dei loro gusti da mezze calzette. “Ah, ma noi vogliamo un artista che ci parli dei tempi in cui vive! Del jobs act di Renzi!”. Certo, più di così credo sia impossibile. Dice molto più un’operazione nostalgica, radicale e testarda come questa che qualsiasi pezzo di questi benedettissimi Sfera Ebbasta del nostro disincanto.

Lontanissimo dalle malizie, dalla goliardia e dall’ansia d’appartenenza di tanti suoi vicini di banco con la maglietta di Tarantino, Domenico Montixi è un duro e puro, un entusiasta che però non si dà scuse, un perfezionista che cerca di sviluppare progetti ambiziosi con budget limitati. E sarebbe bello vederlo presto con un lungometraggio tutto suo e prodotto come Dio comanda da Galliano Juso.

Ho avuto modo d’incontrare Domenico Montixi in una camera iperbarica e farci due chiacchiere. Eccole.

Come nasce L’Isola dei Resuscitati Morti? E perché questo corto di puro genere e non uno dove sensibilizzare su queste benedette persone LGBTQ e il manspreading nei pulmini?
Al manspreading penso in continuazione e nei pulmini fortunatamente è difficile praticarlo perché i sedili sono stretti. Ma tornando alla tua prima domanda: L’Isola dei Resuscitati Morti ha dietro una storia travagliata e bizzarra. Tempo fa un regista romano mi ha commissionato un corto da inserire in un documentario sul filone degli zombi movie italiani, prodotto da un produttore austriaco, Alex Wank, cultore di exploitation e proprietario di una label che si occupa anche di rieditare film di genere italiani in versione restaurata, la Cineploit. Il documentario avrebbe dovuto presentare interviste ai vari attori, registi, musicisti e sceneggiatori protagonisti di questo specifico filone, inframezzate dalle scene di quello che doveva risultare una sorta di film perduto con gli stilemi di quel cinema, e per il quale avevo carta bianca e un piccolo budget. Da subito ho pensato che non avrei voluto semplicemente girare delle scene scollegate tra di loro, ma qualcosa che montato insieme senza le interviste avesse un arco narrativo e funzionasse a prescindere. Col senno di poi è stata una fortuna, perchè dopo aver finito il corto è venuto fuori che il materiale per il documentario era insufficiente per volume e qualità, dunque Alex ed io abbiamo deciso di portare avanti il cortometraggio.

So che l’avete girato con un budget modesto, ma dal risultato pare tutt’altro, anche perché mi pare un corto produttivamente complesso. C’è per caso un finanziatore nell’ombra, come per Haber e Cavina durante la partita a poker de La Rivincita di Natale?
Vorrei dirti che dietro c’è uno sceicco pazzo qatariota che pur avendo mezzi illimitati, per godere delle nostre sventure ci ha imposto un budget limitato. La verità è che il principale produttore è Alex Wank, e parzialmente io. Il budget è stato modesto non perché Alex volesse farci sadicamente soffrire, ma perché originariamente pensato per un lavoro molto più semplice di quello che ho realizzato. Però, dato che le originarie ambizioni per il documentario erano alte, ho cercato di realizzare il miglior lavoro possibile anche al di sopra del budget che avevo, cercando di limitarmi il meno possibile da un punto di vista creativo, e con l’apporto fondamentale di tante persone che hanno creduto al mio progetto almeno quanto ci credevo io, con uguale perseveranza e passione. E io devo essere forse un po’ masochista, perché questa modalità di lavoro la trovo stimolante, cercare di adattare un’idea alla sua realizzazione pratica, che spesso significa avere neanche la metà dei soldi per realizzarla come vorrei e fare in modo che non si evinca dal risultato.

Questo presuppone la certezza che non tutto vada come previsto inizialmente? Io non sopravviverei all’ansia.
Il concetto ben si riassume in una cosa che disse Sergio Leone: fare un film è commettere meno errori possibile. Che da un lato sembra quasi una sbruffonata da texano ma invece, ne parlavo qualche giorno fa con il regista Bonifacio Angius che me l’ha riportata, è abbastanza significativa, perché si applica non solo al cinema, ma qualsiasi mestiere, e alla vita, e soprattutto ad analizzarla è una filosofia di vita che prevede la fallibilità, presuppone che gli errori si facciano, che sia nella nostra natura, non è una frase da duro, è una frase che svela le nostre fragilità.

Ecco, penso al fatto che voi filmaker quello che avete girato non potete più correggerlo, cosa che invece noi scrittori possiamo fare. Pur amando il cinema ben più della letteratura non vi invidio per niente. Un perfezionista come te, come fa i conti con questo aspetto?
Impari a pazientare. Si parte sempre con l’idea di replicare esattamente quello che si ha in testa, poi si fanno i conti con la realtà e con il fatto che è oltretutto un lavoro collettivo che deve passare per la testa e per le mani di tante altre persone. Non è solo una questione di budget, è anche, ad esempio, come riesci a far recepire agli altri la tua idea. Io non ho fretta, preferisco fare poco ma farlo solo quando sono convinto di poterlo fare come vorrei, con un certo grado di approssimazione, e di avere attorno le persone giuste – poche ma buone – con cui portarlo avanti.

Ma una volta finito, avendone la possibilità, ci rimetteresti mano? Per me è un sollievo poter modificare il testo ad ogni ristampa (da un po’ lo faccio mettere nel contratto).
Una volta finito raramente vado a sfruculiare quella che era l’idea di partenza per notare quante cose in realtà sono diverse da come le si era pensate, anche perché molto spesso capita che vengano anche meglio di come le si erano pensate, non solo il contrario. L’importante è esserne soddisfatti al momento in cui si mette la parola fine, ed essere pronti a voltare pagina e concentrarsi su qualcos’altro. Solitamente mi capita che quando sono soddisfatto di qualcosa lo sono anche gli altri di conseguenza, quindi questo mi aiuta a chiudere. Mentre tu lo vivi come un sollievo, per me l’idea di riaprire un vecchio progetto è un incubo, mi ricorda soltanto le fasi di peggior fatica e frustrazione e patemi piuttosto che i momenti belli.

Come ho detto nell’introduzione, il feeling di quest’opera mi pare molto diverso da tante operazioni insincere e ruffiane dei cosiddetti fanatici del trash. C’ho preso?
Guarda, me lo stra-auguro e mi fa piacere che lo spirito ti risulti differente. Quello che spero di essere riuscito a fare è trovare una mia cifra, per cui il tono dei miei lavori viva in sottile equilibrio tra le opere originali a cui faccio riferimento e questo tipo di operazioni da risatina sotto ai baffi, che a mio avviso celano a fatica una certa sufficienza. Io cerco, nei limiti del possibile, con grande rispetto, di fare le cose come le facevano nei film di riferimento, tenendo conto di ogni aspetto, nei pregi e nei supposti difetti, e tutto c’era in quelle opere meno che questo concetto di ironia postmoderna. Loro cercavano di realizzare film migliori possibili, o alle volte semplicemente di farli meno peggiori possibili, tenendo conto delle esigenze produttive, e inserendo quelli che erano di volta in volta gli ingredienti di tendenza dell’exploitation cercando di renderli più armonici possibili rispetto alla trama, ma anche, in molti casi, andando ben oltre il puro mestiere e regalandoci momenti di lirismo assoluto di cui ti posso fare un esempio tra mille citando il finale di quel capolavoro che è L’aldilà – e tu vivrai nel terrore di Lucio Fulci. Ecco, Io parto da questo presupposto, di mio ci metto l’ironia di fondo, l’esasperazione e la sottolineatura di alcuni aspetti e archetipi, l’attenzione filologica ai riferimenti, alle modalità concettuali e pratiche di realizzazione, e per quanto mi è possibile anche questi momenti “alti”, quando posso, quando riesco, quando è il caso. Infine il cuore, senza il cuore non si va da nessuna parte.

Fra le suggestioni del tuo corto ho ritrovato il miglior Peter Jackson, quello di Bad Taste, ma anche il John De Bello della saga dei Pomodori Assassini.
Sono dei paragoni che mi lusingano! Il Jackson dei primi film è il più libero e dirompente, anche secondo me è il miglior Jackson, e De Bello è una mitragliatrice con la tourette carica di trovate incredibili. Quello che mi pare possa esserci in comune tra me, lui e De Bello è forse una tendenza a deragliare improvvisamente quando si presenta la possibilità di fare qualcosa di deflagrante e non previsto nei piani. I miei riferimenti comunque sono i più disparati, sono un appassionato di cinema e non ho un genere di eccellenza, tra i miei preferiti ti potrei dire Fulci, Carpenter, Verhoeven, Raimi, Bava, Spielberg, Leone, Tarantino, Polanski, P.T. Anderson ma il mio riferimento di volta in volta dipende da ciò che necessita per la tipologia di storia che voglio raccontare.

Quindi hai sempre un riferimento come base?
Sì, di partenza sì. In automatico, sento la necessità di partire da qualcosa, di uno spunto. Non so come funzioni per gli altri ma per me è fondamentale.

E per questo corto in particolare quali erano i riferimenti?
Sono i più disparati tra i registi del filone zombi movies italiani, diciamo che ho preso i due estremi, il meglio, il Fulci di Zombi 2, lo zombi movie italiano perfetto, e un film folle, sgangherato, cialtrone e divertentissimo come Virus di Bruno Mattei, passando per tutto quello che sta nel mezzo. Mi sembrava il modo più onesto di rappresentare quel tipo di cinema e spero di aver bilanciato bene gli ingredienti. ma non ho voluto fare del citazionismo, credo non ci sia una sola citazione esplicita nel corto (se c’è è involontaria), volevo che fosse più una questione di tono e attitudine.

Avevi già diretto un corto di genere, produttivamente più semplice ma comunque ambizioso, ovvero No Redemption… with Don Mitraglia. Come fu quella lavorazione?
Fu una lavorazione faticosissima, ma lo dico con il senno di poi. Allora la affrontai con grande entusiasmo e totale spericolatezza, e soprattutto non avendo molta esperienza alle spalle avevo la folle idea di poter fare quasi tutto da solo sul set. Sbagliatissimo, ci misi il doppio di quello che avrei dovuto.

E potremo sentir mai risuonare la risata satanica del protagonista?
Io per Don Mitraglia ho sempre nel cassetto l’idea per un film, mi piacerebbe farlo tornare ma mi chiedo se non abbia fatto il suo tempo. Per quanto il mio intento non fosse quello di fare una satira sulla religione, ma qualcosa che fosse il giusto contenitore per una storia in stile grindhouse, all’epoca c’era Ratzinger, un Papa oggettivamente perfetto come villain, austero, inflessibile, elegante e con dei trascorsi poco chiari, uno a cui mancava il gatto bianco da carezzare in grembo. Con questo Francesco che sembra una sorpresa delle merendine Mr Day, che pare apertissimo alla modernità e invece poi è oscurantista come giustamente si conviene al suo ruolo, bisognerebbe fare un tipo di operazione molto più sottile e differente, e non so se questo personaggio si presterebbe ancora bene.

E i progetti per il futuro? Non ti nascondo che, da tuo fan, aspetto il videoclip di Eleanor Rigby del tuo alter ego, il crooner Billy Alcantara.
Vedi, io pensavo che su Rolling Stone ci sarei finito, in copertina, nei panni di Billy Alcantara, e invece come sono strani i sentieri della vita…Billy sta a me come Tony Clifton stava a Andy Kaufman (per citare un comico a te molto caro…), quindi non so quando uscirà il suo nuovo pezzo, ma mi piace pensare che possa accadere anche dopo la mia morte, e che mi sopravviva interpretato da qualcun altro.

Quindi su cosa ti preme lavorare ora?
Relativamente ai miei progetti più impellenti, diciamo che sto lavorando su più fronti, quello principale è il tentativo di trovare una co-produzione per un lungometraggio tratto da L’isola dei Resuscitati Morti, un film di cui il corto è un pitch perfetto, perché avrebbe le stesse atmosfere, lo stesso tono, la stessa attitudine e una storia rielaborata e ampliata. Solitamente non sono per operazioni di questo tipo a prescindere, ma credo ne varrebbe la pena e ci sarebbe molto di più da raccontare che in 20 minuti, che è la durata del corto. E vorrei dimostrare, così come è stato per il corto, che avrebbe in questo senso anche il valore di prova generale, come sia possibile realizzare un film di questo tipo con un budget che riesca a stare sotto i 100mila euro, più o meno un decimo, o almeno la metà di quello che abitualmente è il budget di un progetto come questo.

E sugli altri fronti? Immagino che la ricerca di fondi per un lungometraggio si possa tirare molto per le lunghe, hai in mente qualche altro progetto più gestibile da portare avanti nel frattempo?
Sì, sto ragionando su un cortometraggio che vorrei realizzare entro il prossimo autunno, un’idea sulla quale ragiono da anni ma solo da qualche mese sono riuscito a focalizzare meglio. Nelle intenzioni sarà una via di mezzo tra Taxi Driver e Fracchia la Belva umana, ma con gli stilemi, gli archetipi e l’impianto visivo del poliziottesco anni ’70. Anche in questo caso, sto cercando una co-produzione e per il momento sto coinvolgendo delle persone che credo sarebbero perfette per questo progetto. Per ora ho un titolo, provvisorio: “Il cittadino si imbestialisce” e il protagonista sarei io.

Chiusura classica ma sempre elegante: un film, un disco e romanzo di genere poco conosciuti e che consigli ai lettori di Rolling Stone.
Partiamo dal film: consiglio Wake in Fright di Ted Kotcheff, una discesa all’inferno e un’esperienza sensoriale estremamente coinvolgente. L’album: SP73 di Hareton Salvanini, musica magica e malinconica. E un fumetto, una miniserie di un autore secondo me molto sottovalutato, Fortified School di Shinichi Hiromoto. E ora te la faccio io una domanda: guarderai/ascolterai/leggerai almeno una delle cose che ho consigliato…?

Ehm…PARALLAX QUAZAR 4014 4016 4020 CORMORANIUM CORMORANIUM CORMORANIUM CORMORANIUM CORMORANIUM CORMORANIUM

Altre notizie su:  Conglomerandocene