Le pareti sono tappezzate ovunque da foto di personaggi del cinema, italiano e internazionale, ma c’è chi tra loro si è meritato un posto di rilievo con numerose immagini che lo ritraggono unite a collage proprio all’ingresso. È lui a fare gli onori di casa a chi entra e dare l’arrivederci a chi esce, sempre insieme all’artista che lo ha scoperto giovanissimo e con il quale instaurò un sodalizio lungo 12 anni e che generò nove film, uno più bello e significativo dell’altro. E se anche voi doveste capitare da Meo Pinelli, storico ristorante e american bar nel cuore di Cinecittà, provate a guardavi intorno e potreste scorgere i sui inconfondibili ricci, che oggi porta in testa come una nuvoletta bianca, e quel sorriso contagioso rimasto intatto negli anni. Magari proprio mentre si intrattiene al tavolo con qualche cliente, come capitato a me, e intanto che chiacchiera allunga una crosta di pane nel sugo del loro piatto, come usava una volta quando «se avevi una minestra la dividevi in tre». Ninetto Davoli, 74 anni, è rimasto quello di sempre, che stregò Pier Paolo Pasolini – e viceversa – sulla collinetta dell’Acqua Santa e che ora mi trovo di fronte con la stessa verve romanesca: «In questo posto ci ho portato Abel Ferrara e Willem Dafoe. Guarda la foto, li mortacci loro!».
In (quasi) tutte celebrazioni per i 100 anni di PPP, nel 2022, spiccava la sua assenza: Ninetto ha accettato di essere ospite soltanto al Parma Film Festival – Invenzioni dal vero. Dell’attore-non attore preferito dallo scrittore e regista, l’amico inseparabile che all’occorrenza dava «pizze in faccia» a chi lo attaccava, il compagno di mille scorribande, a Roma e in giro per il mondo, con cui il poeta riscoprì la genuinità e l’assenza di pregiudizi perduti in adolescenza e che il mondo culturale e borghese, utile a promuovere il suo lavoro, non sapeva restituirgli. Con noi Ninetto ha accettato di parlare, ripercorrendo quell’epoca di difficoltà, ma anche di grande creatività, senza risparmiarsi su nulla: neppure su quella che ha sempre definito «una serata sbagliata». E cioè le tragiche e in parte misteriose ore che portarono alla morte di Pasolini il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. E ha risposto anche a chi lo accusa di non aver detto la verità e di nascondere un segreto che potrebbe riaprire le indagini. Non solo, ci ha rivelato una frase che Pasolini gli disse a cena prima di morire e ancora lo tormenta: “Ninè, arrivando qui a piedi non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente…”.
Che infanzia ha avuto Ninetto Davoli?
Sono nato in un paesino della Calabria, San Pietro a Maida in provincia di Catanzaro, da una famiglia semplice che andava avanti a fatica. Eravamo in sei. Mio padre e i miei fratelli sono venuti a Roma per cercare fortuna e dopo un anno anch’io sono arrivato con mia sorella. Avevo circa quattro anni. Siamo finiti a Borghetto Prenestino, dove sono cresciuto.
Com’era allora?
Mi sembrava di essere dentro una tribù, un villaggio africano. Eravamo dei selvaggi che abitavano in casette di legno costruite alla meno peggio con qualche mattone per renderle più stabili.
Eri un “ragazzo di vita”?
Ma nooo, non lo ero. Lì mi sono formato e a 16 anni, come succedeva spesso, andavo in giro con gli amici per le borgate. Un giorno arriviamo dove i romani fanno i picnic, all’Acqua Santa. A un certo punto su una montagnola vediamo della gente tutta assieme e andiamo a guardare. Sai chi c’era?
Pier Paolo Pasolini.
Bravooo! Che girava La ricotta. C’è mancato poco che ci mandassero via, perché eravamo ragazzini e rompevamo i coglioni, come si fa a quell’età. Guarda caso mio fratello costruiva le scenografie del cinema (e anche per quel set) e quando mi vide quasi ci sgridò: “Ma che stai a fa’?”. Ma poi aggiunse: “Vieni che ti presento il regista”. Io manco sapevo chi fosse.
Qual è stato il primo impatto?
Ci presentò così: “A Pasolì, questo è mio fratello Ninetto. A Ninè, questo è Pasolini”. Pier Paolo mi guardò e mi fece subito una carezza in testa, c’avevo tutti i riccetti. Lo guardai intimidito pensando: “Che vuole questo?”. Ma in quell’uomo ho trovato una certa sensazione di sicurezza. Quando mai qualcuno mi aveva detto “Ciao ricciolì”? Nessuno. Mai una carezza in testa a casa mia. I miei genitori erano spicci: “A Nì, è pronta la cena”. E c’era solo una cosa, non si sceglieva. “O te la magni oppure nun magni“. Non erano cattivi, eravamo poverissimi. Così con Pasolini è scattato subito qualcosa di speciale.
Infatti ti chiamò poco dopo per una piccola parte nel Vangelo secondo Matteo.
Nel 1963. Quando me lo propose, sinceramente, gli dissi: “Ma lassa perde, quale cinema?”. Facevo il falegname, lucidavo e restauravo i mobili. Ero imbarazzato di fronte alla telecamera. Però lui mi tranquillizzò, non avrei dovuto dire battute. E così accettai.
Che esperienza ricordi?
Ho scoperto dei modi che mi hanno affascinato: “Anvedi come mi trattano”. Il responsabile della produzione veniva da me per chiedermi: “Ninetto cosa vuoi mangiare? Un primo, un secondo, il dolce…”. Pure er dolce??! Per me era una sorpresa. Poi tornavo a casa la sera e i miei ripetevano: “O la magni o non la magni, fa’ come vuoi”. Non vedevo l’ora di tornare sul set.
Il grande salto arriva poco dopo in Uccellacci uccellini al fianco del grande Totò.
Un anno dopo mi chiamò per quello. Stavolta però dovevo parlare… non volevo ancora, non mi ricordavo quello che avevo mangiato il giorno prima. A un certo punto disse: “Guarda Ninetto che ti pagano”. Me pagano? E che me danno? “Circa 6-700mila Lire”. Allora era una cifra grossa. A casa mio padre per mangiare un mese in sei spendeva cinquemila Lire.
Impossibile rifiutare.
Gli ho detto subito: “Che devo fa’?”. Ma il bello è che ero al fianco di Totò. Andavo già a vederlo al cinema e mi piaceva moltissimo. E in quel momento mi chiedevo come facessero a pagarmi per lavorare con lui. Assurdo. Così abbiamo iniziato a incontrarci per capire qual era il mio ruolo.
C’è un momento particolarmente spassoso che hai raccontato, cioè la cena a casa di Totò prima dell’inizio delle riprese dove dimostra le sue due anime: quella nobile e quella comica.
Sì, Pier Paolo organizzò la cena per farci prendere confidenza. Venne a prendermi in borgata. Il mio meglio del meglio come vestiti erano un jeans e una maglietta, non avevo altro. Salgo in macchina e mi porta ai Parioli. Non c’ero mai stato. Lì abitava Totò. C’era un portone enorme di legno, più grande di tutta casa mia. Suoniamo e saliamo in ascensore, ma io non l’avevo mai provato. “A che serve, Pà?”. “A salire ai vari piani, Ninè”, mi spiega Pasolini. Dentro c’era persino un divanetto di velluto. “Le persone di un certo livello lo usano, è una questione di stile”. E uno spigne il tasto e si rimette a sede? “Ninetto, magari non lo usa nessuno, ma è bello anche solo averlo in ascensore”.
E il primo impatto con Totò?
Un disastro! Pier Paolo si mette a posto la cravatta, io c’avevo solo i ricci che tanto a posto non ci stavano. E chi ci apre la porta? Totò… che indossava una vestaglia rosso cardinale con due pom-pom. Quando l’ho visto ho cominciato a ridere a crepapelle… e Pier Paolo in imbarazzò che mi dava di gomito: “Eddai Ninetto…”. Mentre Totò fu molto carino: “Non preoccuparti Pier Paolo, è un ragazzo…”. Messo un piede dentro la porta mi sembrò di entrare in un sogno.
Come mai?
Ci misero a sedere in una tavola imbandita, ma sto in paradiso? Non hai idea di cosa c’era sopra: candelabri, fiori, tovaglie ricamate, coltelli, forchette, cucchiai vari, e anche piatti uno sopra l’altro e diversi bicchieri. Al che ho detto a Pier Paolo: “Ma qui in quanti dovemo magnà?”. A me serviva un piatto e una forchetta, il resto lo strappavamo con le mani. Ho fatto fatica a mangiare, la gag dell’oliva che ti scappa ovunque a me è successa davvero, la carne stavo per prenderla con le mani quando Pier Paolo mi ha fermato e me l’ha tagliata. Non ero proprio capace.
La serata com’è proseguita?
Finita la cena, Totò e Franca Faldini, la sua compagna, ci hanno portato in salotto a prendere il caffè. Abbiamo parlato del film e quando abbiamo concluso ci hanno accompagnato alla porta. Dopo qualche tempo ho saputo dalla stessa Faldini che, quando siamo usciti, Totò appena chiusa la porta si è messo a correre come un pazzo, che per poco cascava, è andato allo sgabuzzino a prendere una bomboletta di DDT e l’ha spruzzata dove stavo seduto io. Una scena bellissima, prova a immaginarla… pensava che avessi i pidocchi, chissà. Sembra uno dei suoi film.
Com’è stato lavorare con un attore del genere?
All’inizio ero un po’ in imbarazzo, ma dopo una settimana era talmente semplice come persona che mi sembrava mio padre. Sentivo che mi affiancava con tenerezza, quasi mi difendeva. Mi sono sentito catturato dalla sua umanità e questo mi ha dato molto sicurezza. Da lì mi sono sbloccato.
C’è qualcosa che ti ha detto che ti ha particolarmente colpito?
Stavamo girando a Viterbo e faceva un freddo da morire. Vado nella sua roulotte per provare le battute e a un certo punto mi dice: “Ninetto, senti che freddo che fa? Ma tu immagina adesso di tirar fuori dal forno una ciriola calda (un panino, nda), di metterci sopra uno strato di burro e due alicette. Mmm, sai che te magni…”. Questo era Totò! Con lui sul set ridevo naturalmente, non serviva sforzarsi, e Pier Paolo teneva tutto in diretta, non tagliava niente.
Hai partecipato a nove film di Pasolini, uno più importante dell’altro.
Ci siamo molto divertiti. Ma la cosa bella è che era lui il primo appassionato. Quando non scriveva faceva un film, per lui era un altro modo di esprimersi. Erano i suoi “libri visivi”. Andavamo anche a fare i sopralluoghi, a cercare i personaggi, come tutti quelli del Decameron, dei Racconti di Canterbury e delle Mille e una notte.
Preferiva non avere tutti attori professionisti?
Attori-non attori, come me. Infatti io ho sempre rappresentato me stesso, come Franco Citti, come Ettore Garofolo. Sai come sceglievamo gli altri attori?
Sono curioso.
Quando Pier Paolo vedeva qualcuno di interessante mandava me a parlargli e lui rimaneva a cinque-dieci metri indietro. Dicevo: “Scusate, dove sta piazza…”. Quello parlava e Pier Paolo se lo guardava, creava un obiettivo con le dita per simulare primo piano e campo largo. Se gli piaceva veniva lì, sennò mi faceva segno di andare. Pensa in Inghilterra io che parlo con quelli…
Libri, film, editoriali e tantissimo altro. Come faceva a realizzare tutto?
Non si stancava mai, aveva questa vitalità che lo animava e una costanza incredibile. E al cinema non era un regista che si faceva servire. Prendeva lui telecamera, cavalletto, le borse, non chiedeva che gli portassero nulla. Era sempre il primo. A volte spariva e poi ci urlava da lontano, magari da sopra una montagna: “Ninettooo, corri!”. Non stava mai fermo. Ma sai che ha fatto una volta?
Dimmi.
Prima dei Racconti di Canterbury, Pier Paolo ha visto una faccia che gli piaceva, ha impugnato di scatto la telecamera e ha iniziato a girare. L’operatore lo guarda e lo avvisa: “Aho, nun c’è la pellicola”. E lui: “Non fa niente…”. Se l’è visto lui e basta, non ha registrato tanta era la foga. Quando ha girato Accattone non sapeva come si girava un film, che obiettivo mettere, infatti chiedeva tutto ai tecnici. Ma non si fermava di fronte a nulla. Sapeva quello che voleva e alla fine ci arrivava. Amava molto i piani stretti e i primi piani.
Il Decameron fu considerato pornografico.
Scoppiò un casino. Quello è uno dei primi film dove si vedevano uomini e donne con delle nudità. È stato bloccato, denunciato, censurato.
Come vivevate con Pasolini tutte quelle accuse, denunce e restrizioni?
Ero talmente attaccato a lui come persona e lo vedevo indifeso che mi incazzavo io per lui. Pier Paolo era uno di parola, mentre io ero di fatto. Se uno gli rompeva il cazzo non è che andavo a chiedergli il perché, mi buttavo direttamente a dargli una pizza in faccia. Mi dava fastidio che lui non reagisse anche fisicamente. Se pensi che nella sua vita ha avuto 32 denunce, tutte assurde.
Come quella per l’accusa di aver compiuto una rapina brandendo una pistola con pallottole d’oro?
Sì, bastava che respirasse e lo denunciavano. Poi sempre assolto, perché non c’era niente di fatto.
Ti è mai capitato di venire alle mani per difenderlo?
Porca miseria, altroché. Sui giornali mi hanno descritto come il “gorilla” di Pasolini. Ero aggressivo, invece Pier Paolo mi diceva di stare calmo. Ma non accettavo che subisse quelle infamie, per cui certe volte non se ne poteva fare a meno. Avrei voluto andare a prenderli tutti sotto casa uno a uno quelli che lo attaccavano. Solo perché era Pasolini le cause andavano avanti anche se erano incredibili. Ma c’ho avuto dei battibecchi anche con lui su queste cose…
Quando?
Quando scrisse quell’articolo in difesa dei poliziotti. Andai subito da lui: “A Pà, ma come se fa a dare ragione a quelli?”. Trattavano in modo feroce gli studenti e io ero incazzato con loro. Per me erano dei fiji de ‘na mignotta. Lui mi placò e disse: “Ma hai capito chi sono? I figli dei più poveri…”. A quel punto non potevo che dargli ragione. Lui vedeva oltre a tutti gli altri, che invece c’avevano le bende sugli occhi. Però i poliziotti non si comportavano bene.
Raccontami un episodio.
Una volta all’Università di Roma siamo andati ad accompagnarlo per una conferenza e, appena arrivato, gli hanno tirato un barattolo di vernice addosso. Pier Paolo è subito corso appresso al ragazzo in fuga, ma non è riuscito a prenderlo perché è entrato in un garage dove c’era un’altra uscita. Noi di solito prendevamo questi ragazzi che lo attaccavano, che erano fascisti, e li davamo alla polizia, che li rilasciava subito. Mio fratello ha preso una sportellata da una macchina, abbiamo dovuto portarlo in ospedale. Nonostante questo, scrisse quell’articolo sui poliziotti.
Facciamo un salto in avanti di molti anni, al 2014, quando hai partecipato al film Pasolini del regista americano Abel Ferrara. Com’è stato lavorare con lui?
Abel è una persona, oltre che un regista, molto particolare. Un giorno mi arriva una telefonata tutta sbiascicata: “Io Abel, parlare te, Ninetto tu e io, film Pasolini”. Non si capiva niente. Mi passa il suo assistente e dice che vorrebbe realizzare quella pellicola e gli piacerebbe incontrarmi a Roma. Solo che poi è sparito per più di un anno. Dopo qualche tempo sono andato al MoMA di New York per una rassegna su Pier Paolo e abbiamo ristabilito un contatto.
In che modo?
Intanto è stata una giornata bellissima, sono uscito sul palco, vestito bene, di fronte a tantissime persone, e c’è stata un’ovazione. Io continuavo a dire “Thank you very much, thank you, thank you“. Sai chi mi sentivo?
Chi ti sentivi?
Stocazzo! (Scoppiamo tutti in una risata irrefrenabile, nda)
L’importante è sempre non prendersi sul serio, giusto?
Ma no, dài. Bisogna divertirsi!
Dove eravamo rimasti?
Al MoMA di New York, tra fotografie, autografi, il party a casa di un giornalista pieno di vip, mecojoni! In mezzo a loro c’era anche Willem Dafoe con la sua compagna, che è italiana. E lui mi disse che avremmo dovuto lavorare insieme al progetto di Abel Ferrara. Così gli chiedo dove era finito il regista, e lui mi spiega che “sta recuperando”, solo che “dove lo sta facendo si trova così bene che non vuole più venire via”.
Ci ha raccontato lui stesso il rehab in una comunità a Caserta. E poi?
Trascorre ancora un po’ di tempo, mi richiama Abel e di nuovo non si capisce niente. Mi passa il solito assistente, ci diamo appuntamento proprio qui da Meo Pinelli e poi andiamo a casa mia. Come entra vede una chitarra e si mette a suonare. Poi parliamo un po’, Abel voleva raccontare le ultime ventiquattr’ore della vita di Pier Paolo perciò mi aveva proposto di partecipare. Ma io non volevo farlo.
Perché?
Voleva che interpretassi la parte che avrebbe dovuto fare Eduardo De Filippo del film mancato Magi randagi. Ma come faccio a interpretare Eduardo? Io faccio me stesso. Insomma, alla fine gli ho dato dei suggerimenti, qualcosa ha seguito e qualcosa no…
Non ti ha convinto fino in fondo, quel film?
Certe situazioni non mi hanno trovato d’accordo. Se mi chiedi se mi è piaciuto, ti rispondo: non tanto. Perché io quelle storie le ho vissute e come sono state rappresentate non rispecchiano la verità. Forse sarà l’occhio mio che le ha viste e non può giudicarle con distacco. E poi ha messo Riccardo Scamarcio a interpretare me… anche lui è venuto a mangiare qui per conoscermi e capire come avere i miei atteggiamenti. Gli ho detto: “Riccà, tu non puoi essere me, come io non posso essere te”. L’unica cosa che gli ho consigliato è di esprimere se stesso, che è meglio. Io non ho pensato per nulla a Eduardo durante le riprese. Ho raccontato una storia a mio modo. In conclusione, ci sono cose che non mi quadrano. E Abel Ferrara lo sa. Però ammiro che abbia voluto girare un film su Pier Paolo, perché lo ammirava. Diciamo che l’ha visto con i suoi occhi di americano…
Ho notato che, nei tuoi interventi pubblici, c’è una cosa che ti dà fastidio: chi vuole far passare la tesi che Pasolini in fondo si sia cercato la propria morte.
No, non l’ho mai concepita. Perché era una persona vitale, non è possibile che nel tempo stesso pensasse a cercarsi la morte. Mi sembra una stupidaggine. Avevamo tanti altri progetti futuri.
Tu come vivevi la sua doppia vita, di giorno intellettuale e di notte con i “ragazzi di vita”?
Sapevo tutto di Pier Paolo e sono sempre stato dell’idea che uno nella vita fa quello che vuole e nessuno può permettersi di giudicarlo. Anche a me ne hanno appioppate di cose che avrei fatto con Pier Paolo, ma a me che me ne frega? Niente, perché so io il rapporto che avevamo. La sua seconda vita, se vuoi chiamarla così, è di una persona che aveva i suoi piaceri, i suoi gusti e le sue voglie.
Ti è mai capitato di metterlo in guardia su certi ambienti?
Sì sì sì, assolutamente. Lo avvertivo spesso di stare in campana.
E lui cosa rispondeva?
Di non preoccuparmi. Era sicuro di se stesso. Non avvertiva il senso del pericolo. Capiva le intenzioni degli altri, quello che volevano da lui, ma purtroppo quella è stata una serata sbagliata… io l’avrei saputo se ci fosse stato qualcosa di strano, sapevo tutto di quello che gli bazzicava intorno. Pensa che quella sera alla trattoria del Pommidoro eravamo io, mia moglie e i miei due figli piccoli, abbiamo cenato con Pier Paolo e parlato di una sceneggiatura. Quando ci siamo salutati mia moglie, me lo ricorderò sempre, mi disse: “A Nì, ma perché nun lo accompagni a Pier Paolo?”. Mi è venuto naturale rispondergli: “A Patrì, ma vuole andare per cazzi suoi…”.
Conoscevi i “ragazzi di vita” che frequentava?
No no, non avevo rapporti con quelli.
Pochi mesi fa il regista David Grieco ti ha indirizzato una lettera pubblica in cui ti invita a parlare, come se avessi nascosto qualcosa: “Su quella notte così buia, aspettiamo tutti da anni un tuo raggio di sole. Vedi di darti un mossa che si è fatto tardi”. Come gli rispondi?
Ma non è vero niente. David Grieco l’ho visto quando ha girato il film su Pier Paolo, La macchinazione con Massimo Ranieri. Diceva che gli raccontavano cose incredibili, ma chi sono quelle persone? Sono tutte parole… anche perché cosa c’è di nuovo nel suo film? Niente!
Dice che Sergio Citti prima di morire gli avrebbe fatto delle rivelazioni.
Ma figurati! Quando è successa la morte di Pier Paolo a Sergio l’ho chiamato io. Non sapeva niente. Cosa poteva sapere?
E allora perché, a quasi cinquant’anni di distanza, ti chiede ancora di dire la verità?
Lo fa tanto per parlare. Sono tutte stupidaggini. David Grieco non sa un cazzo!
Lui sostiene che tu saresti stato avvisato della morte di Pasolini persino prima dei carabinieri.
A me mi ha chiamato la cugina, Graziella. Poi sono andato io dai carabinieri. Come facevo a sapere prima di tutti? La gente parla parla parla, solo che non conosce. Io per i 100 anni di Pier Paolo non ho partecipato a nulla, anche se mi hanno chiamato tutti non ho accettato. Ho le mie ragioni. Non per essere strumentalizzato, non ci riesce nessuno. Perché quello che potrei dire non serve a niente.
Quindi non c’è nulla di fondamentale per risolvere il mistero intorno alla morte di Pasolini che conosci e non hai ancora detto?
Ho detto tutto quello che dovevo dire. Se poi gli altri vogliono aggiungere che è stato a causa di qualcosa, io lo escludo proprio. È stata una serata sbagliata. Adesso tirano fuori le pellicole rubate, persino la Banda della Magliana. Ma che cazzo dicono? Ma che non lo avrei saputo io?
Eri amico anche di Sergio Citti, con cui hai girato diversi film anche dopo la morte di Pasolini.
Sergio è stata la conoscenza più importante all’inizio per Pier Paolo, fondamentale quando è arrivato a Roma. Gli ha fatto capire tutto ciò che sono le periferie romane. È stato lui a fargli scoprire i segreti, lo ha instradato, poi anche insieme a me, per fargli comprendere i modi di dire, gli atteggiamenti. Con noi si divertiva un sacco, non abbiamo fatto tutti quei film insieme per caso, o no?
Nonostante tutto, la popolarità non sembra averti cambiato.
Macché, a me nun me cambi. Così come sono con te, sono con tutti. Pier Paolo. Pier Paolo non era un allegrone. Ha avuto una infanzia con sofferenze, ha patito i pregiudizi a Casarsa, le incomprensioni con i genitori, la morte del fratello. Una vita non piacevole, che gli è molto pesata. Allora l’evasione qui a Roma è stata una liberazione per lui. È entrato in un mondo dove poteva esprimersi in pieno e dove non si sentiva giudicato. Ha rappresentato una sorta di terapia.
C’è qualcosa che ti ripeteva spesso?
Sono stati 12 anni tutti fantastici, un gioire continuo. Ma siccome io dico sempre quello che penso, spesso lui mi diceva: “Vedi te se un giorno non trovi qualcuno che te mena“. “Perché?”, chiedevo. “Perché dici tutto quello che ti passa per la testa”.
Fra le tante pellicole a cui hai preso parte ce n’è una che ti ha ridato una enorme visibilità, nonostante avessi una piccola parte: Romanzo criminale.
Guarda, ho fatto un film tanti anni fa che si chiama L’anno prossimo vado a letto alle dieci, dove interpreto un criminale pazzo scatenato che compie gesti efferati. Proprio un trucido. Io non sono così, ma il regista Angelo Orlando era così sicuro di quel ruolo che ho accettato. Ecco, dopo quella pellicola mi chiamano spesso per fare il cattivo.
Come Gerardo il Barbaro in Romanzo criminale.
È stata una bella serie, in fondo si sono attenuti alla storia. E poi è stata vista tantissimo. Ho fatto solo un episodio nella sesta puntata e non sai che successo. C’erano i ragazzini che mi chiamavano per strada: “Ahò, Gerardo er barbaro!”. Li prendevo e gli chiedevo: avete visto solo quello tra i miei film? E loro: “Perché ne hai fatti altri di film?”. Per dire che diffusione ha avuto.
Ti piace la Roma del 2023?
No, ma non per la città. Per la gente che è cambiata, come ci mise in guardia prima di tutti Pier Paolo. Siamo ormai catturati dal consumismo che ci ha portato all’estremo. In due parole: le persone sono piene di cose superflue e hanno dimenticato il necessario. Vuol dire diventare avidi. Non c’è dialogo, umanità, ognuno di noi ha il suo orticello e del resto non gliene frega niente. Non come prima, che se avevi una minestra la si divideva in tre. Non è più così, purtroppo. Ecco cosa posso aggiungere di ciò che mi disse Pier Paolo quella maledetta sera.
Che cosa?
Mentre eravamo nella trattoria se ne uscì con questa frase: “Sai Ninè, mentre camminavo per venire qui tenevo la testa abbassata perché non avevo il coraggio di guardare in faccia la gente”. Capito? Se tieni conto che sono passati 46 anni…