Gli U2 pubblicheranno a marzo un nuovo album che in verità è tutto tranne che nuovo. Songs of Surrender esce sulla scia dell’autobiografia di Bono Surrender: 40 canzoni, una storia e vede la band alle prese col rifacimento di 40 canzoni del proprio repertorio. «Nuovi ritmi, nuove tonalità e in alcuni casi nuovi accordi e nuovi testi. È venuto fuori che una grande canzone è qualcosa d’indistruttibile».
Trattandosi di un gruppo che dopo 40 anni riesce ancora a essere divisivo, le reazioni sui social siano state diversissime, dalla felicità («Bellissimo!», «Non smettono mai di stupirmi») allo scetticismo («Si sono arresi ad essere irrilevanti», «Loro rivisitano le canzoni, io rivisito la mia antipatia per gli U2»). Ognuno giudicherà per sé quando il disco uscirà il 17 marzo (giorno di San Patrizio), ma una cosa pare chiara: l’idea che un artista rifaccia i propri vecchi pezzi e album, considerata un tempo faccenda inutile o sospetta, è oggi legittimata. E ciò comporta alcune implicazioni d’importanza non secondaria per musicisti e fan.
Progetti del genere esistono da decenni. La storia del pop è strapiena di gente che ha dato una rilucidata alle proprie vecchie canzoni, spesso per ragioni economiche. Quando pionieri come Chuck Berry o gli Everly Brothers, per citare un paio d’esempi, hanno cambiato etichetta discografica all’inizio delle rispettive carriere, hanno reinciso i loro pezzi più noti per un greatest hits. Sfortunatamente, operazioni del genere hanno spesso generato raccolte senz’anima che soddisfacevano soltanto i nuovi capi.
Il trend è sembrato cadere in disuso per molto tempo fino a quando, a partire dagli anni ’90, artisti e band hanno capito che potevano guadagnare di più concedendo l’utilizzo delle proprie canzoni per cinema e tv se ne incidevano dei remake fedeli, nota per nota, da pubblicare per conto proprio o tramite una nuova etichetta (facendo sì che le loro ex case discografiche non ricavassero denaro). È il caso dei Wang Chung che hanno rifatto Everybody Have Fun Tonight, dell’album di auto-cover degli Squeeze intitolato ironicamente Spot the Difference, dei Def Leppard che hanno realizzato delle «versioni contraffatte» delle loro hit, come le ha definite il cantante Joe Elliott, per guadagnare di più sui pezzi dati in licenza. Come riporta MetalRules.com, il numero di remake integrali di dischi metal e hard rock basterebbe a riempire la sezione di un negozio di dischi.
Un altro elemento da tenere in considerazione quando si parla del rifacimento di vecchi pezzi è l’insoddisfazione dell’artista nei confronti della versione originale. Lucinda Williams ha riregistrato nel 2017 il suo Sweet Old World del 1992 ribattezzandolo This Sweet Old World, con nuovi arrangiamenti e qualche testo ritoccato, proprio come stanno per fare gli U2. Allo stesso modo, Natalie Merchant qualche anno fa ha pubblicato un remake del suo debutto solista post-10,000 Maniacs Tigerlily non essendo mai stata del tutto soddisfatta degli arrangiamenti originali e in ragione del fatto che nel frattempo la sua voce era maturata. Si tratta di progetti concepiti come gesti di classe, non semplici fughe nel passato.
Nessuno però ha sdoganato la decisione di reincidere la propria vecchia musica come Taylor Swift. Quando ha annunciato l’idea di riregistrare i primi album, l’ha presentata come una decisione legata a questioni di business. Scooter Braun aveva venduto i suoi master e Swift voleva avere delle registrazioni all’altezza delle vecchie che non solo le portassero ulteriori guadagni, ma indebolissero le originali nel mercato del licensing. Come volevasi dimostrare, la primissima preview di Love Story (Taylor’s Version) è finita in uno spot pubblicitario.
Le prime due Taylor’s Version (di Fearless e Red) sono stati ben accolte da fan e media. E questo in parte per la popolarità di Swift e in parte per la storia che ci sta dietro. Però, all’improvviso, l’idea di reincidere vecchi brani è divenuta accettabile come mai prima. Un tempo quando artisti anche rispettati come Williams, Merchant e Paul Simon (che in In the Blue Light del 2018 ha rifatto alcuni pezzi minori della sua discografia solista) rivisitavano il loro passato, le operazioni erano percepite come interessanti, ma marginali.
Ora un altro gruppo di altissimo profilo fa la stessa mossa. Fino a ora, gli U2 hanno pubblicato solo un brano completo tratto da Songs of Surrender, una rilettura di Pride (In the Name of Love) in cui il fervore e l’enfasi dell’originale lasciano il posto a un chamber pop delicato che non avrebbe sfigurato in un episodio degli anni ’90 di MTV Unplugged. Bono canta su un registro più basso e ricorda più il David Bowie dell’ultimo periodo che non il Bono a cui siamo abituati.
Come la versione del 2023 di Pride tenta di dimostrare, una delle motivazioni che stanno dietro alle reincisioni è che si può cercare di migliorare il materiale vintage grazie alle esperienze accumulate. Le vecchie canzoni possono diventare più profonde riflettendo esperienze di vita a volte difficili. E talvolta funziona. Quando George Jones e il produttore Billy Sherrill hanno riregistrato un po’ di vecchie hit di Jones per la compilation del 1977 All-Time Greatest Hits Vol. 1, alcune delle ballad più lente parevano maggiormente sentite, rispecchiando il difficile percorso di vita di Jones fino a quel momento. Pochi anni fa, St. Vincent ha reinciso Masseduction ribattezzandolo MassEducation e ha funzionato: i nuovi arrangiamenti, incentrati soprattutto sulla voce e sul pianoforte, sono meno manieristici rispetto agli originali e risaltano per via della bellezza del songwriting.
C’è un rischio però: le voci di alcuni artisti non sono neanche lontanamente potenti come quand’erano giovani e il confronto può diventare crudele. Ma tutto ciò non pare rallentare il trend delle reincisioni. Dopo Swift e U2, è solo questione di tempo prima che altri giganti, d’ogni genere e generazione, decidano di rivisitare il proprio passato, ben consci del fatto che una mossa di questo tipo comporta meno rischi (e probabilmente maggiore soddisfazione economica) di quanto non accadesse in passato.
E magari i fan accetteranno di buon grado operazioni del genere. Dopo tutto, rispetto alle generazioni precedenti, tendono ad essere meno critici nei confronti dei loro eroi e i fedelissimi del classic rock sono già abituati a vedere i rocker andare in tour a 70 o 80 anni. Come si usa dire, il passato non è più quello di una volta. Potrebbe diventare un concetto valido anche per la musica pop.
Tradotto da Rolling Stone US.