Certo, loro ce la mettono tutta a confonderti le idee. O meglio, a convincerti che loro sono, sono stati e sempre saranno al cento per cento quel giochetto da classifica efficacissimo e bi-dimensionale, quello e solo quello: il gruppo insomma della canzoni cantabili, ballabili e divertentose da sfoderare ad ogni occasione. Quello ti comunicano. E quello vedi. Come negarlo. Ma bisognerebbe raccontare che in realtà, quando sono esplosi con Elephunk e col singolo Where Is the Love? (ricordiamo come ieri il momento in cui l’abbiamo sentito per la prima volta: «Ma che ha Will? Che è ‘sta roba? Ma s’è rincoglionito?») nel 2003, i Black Eyed Peas erano non giovani scoppiettanti esordienti di belle speranza ma un gruppo sull’orlo della crisi di nervi e soprattutto dello scioglimento definitivo per sfiducia, per esaustione, consunzione. Visto che esistevano già da undici anni: già. Undici. Dal 1992. E sembravano il classico progetto con un meraviglioso futuro dietro le spalle, pronto a gettare la spugna. Undici anni di grandi aspettative e moderati, mogi ripiegamenti e fallimenti rispetto ad esse.
Per la stragrande maggioranza del pianeta i Black Eyed Peas sono quella cosa lì: il gruppo urban pop felicione esploso improvvisamente e letteralmente dal nulla, in quegli anni allegri, quelli appunti di Elephunk, anni poi doppiati e stirati all’infinito da una serie mostruosa di hit; ma la storia è piuttosto diversa. Accidenti se è diversa. Una storia su cui loro stessi peraltro non si sono fatti problemi a stendere pesanti strati di maquillage, quasi come se ne vergognassero, un maquillage steso praticamente in tempo reale: quanti sanno, o si ricordano, che l’inno-party Let’s Get It Started aveva originariamente delle strofe molto meno politically correct (a partire dal titolo: che era Let’s Get Retarded. E tra «facciamo partire il party!» e «oh, facciamo i coglionazzi strafatti!» c’è insomma un abisso, come toni)? Ecco. Per dire. Appena entrati nel giro del grande pop, sono stati i primi a censurare se stessi, per togliere ogni possibile spigolo.
Il momento della svolta ha le sembianze di una biondina. No, non Fergie, come starete già pensando. Ok, l’arrivo di Stacy “Fergie” Ferguson al posto di Kim Hill ha dato la giusta iconicità alla formazione dei B.E.P., va bene; ma in realtà ciò che ha salvato la band dalla scomparsa o comunque dalla irrilevanza è stata Reese Witherspoon. O meglio, un filmetto con Reese Witherspoon: La rivincita delle bionde, anno 2001. Commedia americana che puntava abbastanza pure sulla colonna sonora, alternativa-ma-non-troppo (dentro per dire c’era anche la Lisa Loeb che si era fatta conoscere con la Stay inclusa in Giovani, carini e disoccupati), e in questa colonna sonora c’era anche un brano dei Black Eyed Peas, Magic, col featuring di Terry Dexter. Era un po’ un raschiare il fondo del barile delle edizioni, in realtà.
Riavvolgiamo fino in fondo il nastro. Messi sotto contratto prima dalla Ruthless records del truce, trucissimo Eazy-E (uno degli N.W.A., per intenderci), quando ancora si facevano chiamare Atban Klann, nemmeno il tempo a chiedersi «e che diavolo ci fanno questi backpacker pulitini in una etichetta fondata da quel pendaglio da forca di Eazy-E?» che, come ahinoi prevedibile, Eazy-E stesso muore – era il periodo che i rapper schiattavano come mosche per morte violenta, Tupac, Biggie, eccetera, a lui invece toccò l’AIDS – e scomparso lui, le prima vittima del successivo repulisti nella Ruthless sono Will.I.Am e Apl.De.Ap col loro hip hop stiloso, educato, intelligente.
Poco male: a raccoglierli arriva una label ancora più prestigiosa, la Interscope di Jimmy Iovine. Will e Apl intanto aggiungono un breaker/MC alla formazione per fare ancora più colore & gioia, Taboo, ed arrivano due dischi, Behind the Front (1998) e Bridging the Gap (2000). Dischi bellissimi. Ma bellissimi per chi? Beh: per la solita, minoritaria manica di stronzi – i cosiddetti backpacker infatti – che hanno un approccio colto all’hip hop, ne amano insomma sì l’immediatezza ma non vogliono che essa sia solo cafona e sfrontata, quanto pure assai conscious e ben articolata. Il rap per universitari e per la piccola borghesia intellettuale di giga-appassionati di nicchia, ecco. Dal punto di vista commerciale, un segmento eternamente asfittico: l’unico che davvero partirà da lì per costruire un impero è Kanye, e sta lì infatti la sua vera grandezza, non nelle puttanate che ha detto e fatto dopo essere diventato famoso planetariamente, rendendo progressivamente sempre più stralunati e fuori fuoco sia la sua musica che il suo rap, checché ne dicano i suoi tanti adoratori a priori.
Ma non divaghiamo. Nonostante i moderati sforzi della Interscope, entrambi i dischi sono un sostanziale buco nell’acqua. Grandi elogi della critica specializzata, soprattutto quella europea, vendite complessivamente irrilevanti. Occhio, nominiamo la critica specializzata europea non a caso: perché una delle label-bandiera di quegli anni per l’hip hop e la black colte e raffinate e sofisticate e drammaticamente minoritarie, l’inglese BBE, chiederà a Will.I.Am, da sempre il vero leader dei Black Eyed Peas, di sfornare due album solisti. Il primo è Lost Change, 2001, colonna sonora di un film circolato solo su internet; il secondo Must B 21, 2003. Registrato proprio nei ritagli di tempo attorno alla lavorazione di Elephunk. E promosso subito dopo di esso.
Infatti nel presentare il suo disco solista Will ci teneva a raccontare che era un lavoro a suo modo importante, e a cui voleva molto bene: «Niente ritornelli facili, niente limiti alla durate dei pezzi, niente brani costruiti con un occhio ai voleri delle radio. Non rinnego il successo che stiamo avendo con Elephunk come Black Eyed Peas, sia chiaro: è che sono convinto che la musica possa avere molte sfaccettature, e la mia intenzione è di esplorarne il maggior numero possibile», ci spiegava lui in prima persona, parliamo ormai di un quasi vent’anni fa. Sempre in quella conversazione, c’era comunque un mettere le mani avanti: «Sì, lo so che il mainstream è spesso una brutta cosa…». Ma? «Ma, quando vedi ad esempio il talento, l’etica del lavoro e la professionalità di uno come Justin Timberlake, non puoi che restare ammirato». Justin Timberlake che infatti in Elephunk c’era finito, peraltro senza nemmeno essere sfruttato più di tanto per fini promozionali, proprio in Where Is the Love?.
Ma dicevamo: Reese Withersopoon. Il filmetto. Perché Justin Timberlake ed Elephunk arrivano esattamente grazie a loro. Torniamo in medias res: con ‘sto Bridging the Gap che si conferma bello, bellissimo ma completamente snobbato dal pubblico, la Interscope quasi per disperazione prova ad alzare qualche dollaro residuale dai Black Eyed Peas – dati ormai per causa persa – almeno infilandoli in qualche operazione discografica della grande conglomerata A&M, che era a capo di tutto il carrozzone societario in cui la Interscope stessa ricadeva. Tipo, facendoli entrare nella colonna sonora de La rivincita delle bionde: sia mai che se il film va bene gratti due lire di diritti e di edizioni.
È lì, trattando su ‘sta committenza e lavorandoci sopra, che Will avrà un incontro con un pezzo grosso della A&M, anzi, il pezzo grosso in quel momento, l’allora presidente Ron Fair: «Will, ma perché voi Black Eyed Peas non venite da noi in A&M, invece di stare sulla Interscope?». Come andò la conversazione lo raccontò nei dettagli lo stesso Fair ad MTV, parlando dei retroscena dietro al successo mondiale di Where Is the Love?: «Gli dissi “Will, io vi voglio con me in A&M, ma dovete diventare un po’ più pop, sai? Molto, molto più pop”. E lui: “Ma no, non esiste. Abbiamo una credibilità da difendere, non vogliamo perderla”. Al che gli risposi: “Credibilità verso chi? Verso cosa? Verso una nicchia di ascoltatori che si sente tanto figa ma poi, quando si tratta di sostenere la musica che ascolta, pensa solo a scaricarla gratis su Napster?”. Colpii nel segno».
Un anno più tardi Taboo, il socio di Will.I.Am e Apl.De.Ap nella band, commenterà questa svolta parlando col Washingtont Post: «Se proprio devi essere un venduto, meglio esserlo di fronte a decine di migliaia di persone in un’arena che esserlo perché ti sei ritrovato a smazzare i tuoi CD dal portabagagli della tua macchina parcheggiata all’angolo della strada».
Il resto, è storia. Il resto è il gigantesco meccanismo del pop che si innesta sui Black Eyed Peas e ce li consegna esattamente così come li conosciamo oggi, mettendo una tombale coltre su tutto quello che c’era prima, e su tutte quelle che erano le intenzioni e le direttrici originarie del progetto.
Non tutto è scintillante, però. La band in questi quasi vent’anni si prende lunghi momenti di pausa, si scioglie e si rimette assieme; Fergie progressivamente è fuori dal progetto. Una Fergie con cui già anni fa capitava di avere delle conversazioni di un certo tipo, che ti facevano capire come non tutto fosse perfetto. Ecco uno stralcio della chiacchierata che ci facemmo con lei, in occasione dell’uscita del suo primo disco solita The Dutchess, anno 2006, parlando della traccia Losing My Ground: «Non è stato certo facile scrivere quella canzone, che parla nello specifico dei miei problemi di dipendenza dalle droghe, dalla metanfetamina. Ma dovevo farlo, sì. Il primo disco di Fergie deve dare un’immagine di Fergie? Bene, benissimo: e l’immagine allora deve essere vera, non solo zuccherosa. Deve parlare anche dei momenti bui. E quello di cui racconto nel pezzo lo è stato, accidenti se lo è stato. Ero messa veramente male. Ero arrivata ad un punto in cui dovevo semplicemente scegliere se cominciare a curarmi, o fare la tossica a tempo pieno. Per fortuna ho scelto la prima, anche se ci sono stati molti passaggi umilianti: tirarsi fuori significava pagare tutti i debiti contratti (e per farlo ho dovuto chiedere ai miei genitori i soldi che avevano depositato anni fa su un conto per permettermi di andare al college), tornare a vivere da mia madre, perdere tutti gli amici, ma gli amici quando sei una tossicodipendente sono solo quelli che hanno gli stessi tuoi problemi e gli stessi tuoi vizi, e confessare infine i miei problemi. Un bel bagno di umiltà, per non dire di umiliazione. Ma è andata, dai».
Di tanto in tanto riemerge nei Black Eyed Peas post Elephunk, con o senza Fergie, qualche piccolo refolo di coscienza sociale e di mondo reale, di narrativa insomma un minimo problematica; ma ormai attorno a loro si è chiuso un meccanismo identitario troppo grande per essere combattuto, oppure in cui loro si trovano troppo comodi e non hanno quindi voglia di combattere. Quale sia la verità fra queste due ipotesi, lo sanno solo loro. Nel frattempo resta quasi unicamente un sodalizio artistico che offre una versione stilizzata e semplificata di se stesso, focalizzata sempre nel massimizzare le supposte buone vibrazioni e una versione stilosa e sufficientemente urban della pop-dance più commerciale.
Funziona? Funziona. Cioè: forse funzionava, se funzioni anche nel 2023 non si sa. Perché nel loro ultimo lavoro da poco uscito, Elevation, sono talmente ossessivi e monotematici nella loro rincorsa del pezzo-da-party-con-testo-da-party che, ecco, hanno preso una serie di pernacchie in giro non da poco; e nel frattempo, al di là delle prese in giro della solita critica snob e altezzosa, nessun pezzo è riuscito finora a spiccare il volo. La sensazione netta è quella di un disco fatto col pilota automatico, senz’anima, disperatamente attaccato al mestiere e alla formula che meglio funziona come risultato commerciale ma senza crederci più davvero, senza metterci un briciolo di passione e creazione. L’approdo a Sanremo potrebbe quindi essere giusto una incerta tappa nel mesto viaggio che accompagna l’approssimarsi dei B.E.P. al cimitero degli elefanti.
Solo che noi abbiamo in casa dei dischi che provano che Will.I.Am la musica bella e cazzuta ed orgogliosamente indipendente la sa fare, accidenti se la fare. Hip hop di alto livello, tanto reciso ed onesto quanto creativo ed immaginifico. Quindi la speranza resta. Ma ormai, sono passati vent’anni. Non sono pochi.