Il taboo è assoluto, codificato nelle maglie stesse del nostro DNA culturale. La distinzione è inappellabile: da una parte il crimine, dall’altra il resto del mondo. Grazie al sostegno di una morale liquida e prismatica, cooptata dal cattolicesimo più opaco e di maniera, chiunque commette un crimine viene nei fatti efficacemente iscritto in un ordine diverso di grandezza sociale. C’è un prima e c’è un dopo, nel gioco delle parti della società.
Nel mezzo, rimane solo l’incapacità di elaborare qualcosa di diverso dalla colpa e dal perdono. L’individuo che ha commesso un reato, specie se il reato è debitamente spettacolare, finisce per essere costretto in un ruolo, arruolato in un’enclave a parte, ben distinta dal resto della comunità. Il marchio resta appiccicato addosso anche fuori dal carcere e influenza la vita quotidiana di queste persone molto a lungo. Fine pena mai.
Il discorso vale soprattutto se le persone chiamate in causa non sono debitamente munite di capitali, patrimoni e relazioni di un certo livello, ovvio. Ed è a maggior ragione paradossale considerando che «il crimine si considera come una parte funzionale del sistema della libera impresa, cioè un aspetto di quel continuum di cui l’altro capo è rappresentato dall’attività legale». (Augusto Balloni, Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza Vol. III – N. 3, Vol. IV – N. 1 – Settembre 2009–Aprile 2010). In altri termini, tra la criminalità organizzata e i reati dei colletti bianchi ci siamo noi.
Si tratta di un errore di valutazione multiplo, una miopia ipocrita elargita a piene mani. La costruzione sociale dell’insicurezza infinita. Tanto più che nel dibattito pubblico i preamboli e il contesto finiscono per non contare mai nulla. Secondo la vox populi, la pena non è mai commisurata al delitto compiuto. L’unica cosa importante è la possibilità di partecipare all’indignazione in comune, di sentirsi superiori alle scelte delle altre persone per poi magari godere della condanna inflitta e dell’equilibrio ristabilito. Pura Schadenfreude, piacere derivato dalla sofferenza altrui. Giustizia è stata fatta.
De Andrè lo chiarisce con magnifica empatia nella chiusa de La città vecchia, “Se tu penserai e giudicherai / Da buon borghese / Li condannerai a cinquemila anni / Più le spese / Ma se capirai se li cercherai / Fino in fondo / Se non sono gigli son pur sempre figli / Vittime di questo mondo“. L’ecosistema criminale in realtà è proprio un’infinita scala di grigi che raramente conduce all’assolutismo del bianco e del nero, e i giudizi moralistici servono a poco, a nulla, se non a intorbidire e aggravare le criticità già esistenti.
Di parere non troppo dissimile è anche Pouria Khojastehpay, il fondatore e artefice di 550BC, una straordinaria casa editrice fotografica che sfoggia i modi e il pensiero di un progetto DIY o di una piccolissima impresa, la cui statura è però quella di una macchina antropologica terminale. I suoi libri non sono altro che un’immersione sistematica – e spesso in primissima persona – nel sottobosco della criminalità organizzata mondiale.
In 550BC scovi immagini scattate in carcere dai Bloods e i Crips losangelini grazie agli smartphone contrabbandati, un catalogo di prodotti e veicoli utilizzati per rapinare gli sportelli automatici, selfie di giovanissimi sicari nelle favelas brasiliane, foto incendiarie degli ultras e dei campi d’addestramento del cartello di Sinaloa, “feste” in prigione, gang in Honduras, gli animali “domestici” dei narcos e una chicca come Playboys di Robert Yager. Dopo averle viste, rintracciarne l’origine diventa una necessità inappellabile.
550BC sembra sia il frutto della tua passione che un progetto strutturato sull’idea del crimine. Ma cos’è per te il crimine, perché esiste?
Ho conosciuto persone che hanno scelto la strada del crimine. È così e basta. Non le giudico per le decisioni che hanno preso o per le loro scelte di vita. Per molti giovani migranti che si sentono alienati, far parte della criminalità organizzata significa disporre di una piattaforma dove non si sentono rifiutati o considerati semplicemente come un problema. Lì non sono più vittime, ma [diventano] aggressori. Ed è per questo che il sottobosco criminale, con le sue regole specifiche, ha così tanto seguito. I soldi facili, l’adrenalina e il cameratismo sono ovviamente altri fattori essenziali. Personalmente, io non sono né un estraneo né distaccato da quel mondo, e tuttavia non ne ho mai fatto parte.
Quando hai deciso di avviare il progetto?
Credo di aver lanciato l’account pressappoco durante il 2016. Era un archivio di scansioni provenienti da libri della mia collezione e metteva in risalto reportage fotografici, foto inviate da giornalisti e membri di gang o detenuti dotati di smartphone contrabbandati all’interno della prigione. Si è poi sviluppato in modo organico diventando una casa editrice nel 2018. Il nome si riferisce al re persiano Ciro il Grande, il padre fondatore dell’Iran e dell’impero achemenide. Io sono nato nella stessa provincia e regione. Ma non ha alcun legame con i temi di cui mi occupo. È solo uno pseudonimo rimasto appiccicato e diventato poi il nome dell’azienda. Molti ne parlano solo come “550.”
Il tuo primo libro è stato Crime Wave Tehran, qual è la sua storia?
Collezionavo libri fotografici su gang, zone di conflitto e sull’Iran, ma non ce n’era nessuno dedicato al crimine organizzato iraniano. Il soggetto stesso era piuttosto taboo, quindi ho deciso di provvedere io. Avevo qualche fonte in Iran risalente a quando avevo appena aperto l’account di 550BC e l’ho utilizzata. Il pezzo forte del libro riguarda Vahid Morad, “L’Aquila dell’Iran”, che è stato ucciso in carcere quando il libro era in procinto di uscire.
Pensi che il tuo approccio sia cambiato in tutti questi anni?
No, il mio lavoro è sempre lo stesso, lavoro direttamente con i miei soggetti e/o utilizzo le mie varie fonti per raccontare una storia. L’unica differenza è che mi sto espandendo e ora lavoro anche con qualche fotogiornalista. Per il resto, ciò che non è legato al mondo e alla categoria del crimine organizzato non rientra nei miei interessi o è rilevante per 550BC.
Qual è il motivo, o lo scopo, che anima il tuo lavoro?
Quello di offrire uno spaccato di mondi altrimenti inaccessibili, lavorando direttamente con i soggetti protagonisti e lasciando che siano loro a scattare le proprie foto. Far sì che si sentano parte del discorso. È un metodo che non prevede filtri o ritocchi e che permette ai miei contatti di aprirsi maggiormente come non farebbero altrimenti. Persone stanche della narrazione impostata da altri (inclusi i fotografi) e che desiderano averne una propria. Questo tipo di storytelling in prima persona, realizzato dal soggetto ritratto che vive la propria vita, è ciò a cui punto e che voglio continuare a realizzare.
Tuo padre ha combattuto nella guerra tra Iraq e Iran negli anni Ottanta, entrambi i tuoi genitori hanno vissuto la rivoluzione islamica iraniana del ’79, tu sei cresciuto in parte in strutture di accoglienza per rifugiati insieme a persone provenienti da Paesi in cui c’erano conflitti armati, come l’ex-Jugoslavia, la Somalia o l’Afghanistan. Ciò ha influito sui tuoi libri e il tuo modo di vedere il mondo?
Senza alcun dubbio. Le storie di guerra di mio padre mi hanno decisamente influenzato, così come per esempio mi ha influenzato il modo in cui spiegava la sua preferenza per l’AK-47 con il calcio ripiegabile rispetto a un fucile Heckler & Koch G3. Ho dimestichezza con alcune armi da fuoco sin da quando ero piccolo e lui mi mostrava le sue foto di quel periodo. In più, i miei genitori hanno vissuto entrambi la storia iraniana prima e dopo la rivoluzione; quel trauma li ha segnati per la vita. Il fatto di essere figlio di rifugiati politici, e di essere un rifugiato a mia volta, ha poi influito su di me e sulle persone come me. Finiamo per conoscere la nostra storia sin da quando siamo piccoli e in questo modo abbiamo una comprensione maggiore di cosa sia il conflitto, chi siano le vittime, gli aggressori e via dicendo.
Il tuo lavoro sembra avere una solida attitudine antropologica e un approccio etnografico.
È un aspetto che non avevo notato finché non è stato menzionato da un professore di antropologia dell’Università di Antwerp. Ha comprato una copia di Favela Máfia e l’ha definito “criminologia visuale.” Poi io stesso ho cominciato a notare le tematiche antropologiche contenute nei miei lavori. In ogni libro finisco per studiare l’aspetto esteriore, il comportamento, le motivazioni e le radici culturali dei soggetti ritratti.
Esistono altri progetti con uno spirito simile al tuo?
Qualche influenza creativa che vale la pena citare consiste in Teen Angels, una rivista indipendente californiana che si focalizzava culla cultura chicana e riceveva foto e sketch dalle prigioni e dai membri della gang. Segnalo anche il documentario belga Grote Jongens Uit De Cite (2011), che parla della nuova generazione criminale proveniente dalle periferie parigine e specializzata in traffico d’armi e di droga, nei furti della macchine di lusso e nelle rapine a mano armata di obiettivi d’alto livello. Poi anche il film Gang Tapes (2001, Adam Ripp), girato interamente in “prima persona”, con sguardo in soggettiva, è nello stile 550BC.
Nella fotografia, nella scrittura, il cinema e via dicendo, chi ha analizzato e descritto al meglio il mondo del crimine?
I libri di Roberto Saviano. Il film Un profeta di Jacques Audiard. Ho poi da poco finito di leggere HEAT 2 di Michael Mann e l’ho apprezzato molto. Il lavoro di Robert Yager incentrato sulla Playboys 13 Gang è stato la mia introduzione al mondo delle fotografie dedicate alle gang, e di recente ho avuto l’onore di lavorare e pubblicare proprio il suo primo libro. Anche il mio amico, compagno di ricerca e co-autore di Sicario Warfare, ovvero Eduardo Giralt Brun, sa quel che fa.
Uno dei tuoi ultimi libri è Por Aquí Todo Bien, di Federico Vespignani. Dopo Sakir Khader, si tratta di un altro fotografo professionista. Perché questa scelta?
Federico mi ha proposto la sua serie fotografica. Non è un tipo di contenuto con cui lavoro di solito, ma ho ritenuto che le sue foto raffinate, ricercate e suggestive costituissero qualcosa di nuovo e rivitalizzante per 550BC. In più, ha un rapporto piuttosto stretto con i soggetti ritratti, un elemento per me fondamentale. Divide il pane, per così dire, con il capitolo honduregno della gang Barrio 18 e per questo ne abbiamo pubblicato il lavoro.
C’è mai stato uno scatto che ti ha spinto a dubitare della necessità della sua pubblicazione?
Sì, le fotografie dei corpi assassinati. Ho cercato di evitarle non solo per i contenuti estremi, ma anche per la privacy e il rispetto dei famigliari dei defunti. Tuttavia, in qualche caso è necessario mostrare proprio con che brutalità la vita possa finire. Alcune persone ce la fanno, molte altre no e finiscono in una bara di legno o di cemento, morte o in prigione.
In questo ambito fotografico, esiste una morale?
I miei contatti mi danno moltissima libertà ma esistono dei limiti. Visto che sviluppo dei legami con queste persone, tendo a rispettare alcuni paletti. Non ho responsabilità nei confronti della legge o del sistema legale, e non sto cercando di offrire soluzioni per combattere il mondo criminale. Mi limito a mostrarlo per quello che è. Si spingono fino a qui le mie riflessioni sulla morale, se si lavora in questo campo e genere.
Sei nato in Iran ma vivi nei Paesi Bassi. Cosa ne pensi della situazione nel tuo Paese nativo?
La mia gente è stanca di essere derubata e sabotata dal regime della Repubblica Islamica, che non ha alcun rispetto per le donne, i diritti dei cittadini e l’eredità culturale iraniana. È difficile spiegare la situazione attuale senza considerare appieno il contesto sociale, storico, politico ed economico del Paese. Ci sono molti e diversi fattori che hanno contribuito all’attuale congiuntura ed è difficile parlarne in una singola risposta o pensare a soluzioni realistiche. Per ora, sono fiducioso che il coraggioso popolo iraniano non abbia intenzione di indietreggiare dalla lotta per ciò che merita e che gli spetta.