A 42 anni e dopo quasi sei anni di doppio mandato, la premier neozelandese Jacinda Ardern ha deciso di rassegnare le sue dimissioni sia da prima ministra della Nuova Zelanda che da segretaria del Partito Laburista. La sua decisione, totalmente inaspettata, ha spiazzato tutti: «Il mio mandato come primo ministro si concluderà entro e non oltre il 7 febbraio», ha dichiarato durante il primo incontro di partito del nuovo anno.
Sono molte le sfide che la premier ha dovuto affrontare in questi anni, uscendone però sempre a testa alta. La più impegnativa è stata sicuramente quella della strage di Christchurch del marzo 2019, definita il più grande omicidio di massa della storia del Paese, che ha causato la morte di cinquantuno persone. La reazione di Ardern fu ferma e immediata: in pochi mesi fece approvare una legge che vietava la vendita e l’utilizzo di armi semiautomatiche. Anche quando riferì al Parlamento, subito dopo la strage, Ardern si rifiutò di pronunciare il nome dell’attentatore, un suprematista australiano di estrema destra, per non offrirgli maggiore notorietà. Nel dicembre dello stesso anno fu inoltre molto apprezzata per l’empatia mostrata ai soccorritori e alle vittime, dopo la grande eruzione del vulcano di White Island, che provocò ventidue morti e numerosi feriti.
Poi è arrivata la pandemia di Covid-19: anche in quel caso la prima ministra mise in atto una strategia vincente di lockdown ‘duro’ e severe misure restrittive, inizialmente molto elogiate, che hanno permesso di evitare al Paese le grande ondate che si sono registrate nel corso di questi anni in diverse parti del mondo. Quando, però, molti Paesi hanno iniziato a riaprire i confini e ad allentare le restrizioni, la ferrea politica di contrasto alla pandemia di Ardern iniziò a essere contestata con delle proteste, anche violente. Da quel momento la luna di miele tra la premier neozelandese e il suo Paese ha iniziato a incrinarsi, facendo scendere il consenso dei cittadini nei confronti del suo operato dal 58 al 34%, restando comunque la figura politica più apprezzata di tutte.
È stato grazie a lei se il Partito Laburista è riuscito a vincere, con un ampio margine, le elezioni dell’ottobre 2020 e a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Parlamento che è passato alla storia come il più inclusivo di sempre, con la più alta percentuale di donne mai eletta, il 48%, e molti membri non bianchi o LGBTQ+. I due mandati di Ardern sono stati caratterizzati da politiche di stampo fortemente progressista in tema di diritti sociali e civili: dall’aumento del congedo genitoriale e dei giorni di malattia per i lavoratori all’innalzamento del 30% del salario minimo fino alla legalizzazione dell’eutanasia, grazie all’indizione di un referendum sul tema.
Il suo è stato un percorso segnato dall’eccezionalità: a soli 37 anni, è stata la più giovane donna al mondo a essere mai diventata capo di governo. Iconiche sono rimaste le foto che la ritraggono mentre accudisce la figlia durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Era la prima volta che un capo di governo partecipava all’Assemblea generale assieme al figlio appena nato. È stata anche la prima ministra della storia della Nuova Zelanda ad aver partecipato a una parata del Pride. E adesso, anche la più giovane a dimettersi.
«Non me ne vado perché è stato difficile – ha spiegato durante il suo ultimo discorso pubblico –, se fosse così, probabilmente avrei lasciato il lavoro dopo due mesi. Lascio perché un ruolo così privilegiato comporta responsabilità. La responsabilità di sapere quando sei la persona giusta a guidare e anche quando non lo sei. So quanto impegno richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza energie per rendergli giustizia», ha detto.
Professionale, empatica, progressista, Ardern è stata una dei leader più apprezzati nel Paese e nel mondo. Ora può diventare anche un esempio per tutte quelle persone che soffrono di burnout a causa del lavoro e che faticano a trovare un equilibrio tra vita professionale e vita privata. Ardern ha indicato una via d’uscita: quella delle Grandi Dimissioni, fenomeno di portata globale che in questi ultimi anni sta rivoluzionando profondamente il mondo del lavoro. Solo in Italia, nei primi sei mesi del 2022 oltre 1 milione di persone ha rinunciato al posto fisso. Un dato in crescita del 30% rispetto a quattro anni fa, che testimonia un cambio di mentalità dei lavoratori e, in generale, del significato che il lavoro assume nelle nostre vite: non più il perno centrale, attorno al quale ruota tutta l’esistenza, ma solo un elemento fra i tanti che compongono l’intero mosaico.
«Sono un essere umano. I politici sono umani», ha ribadito Ardern nel suo discorso. «Ho dato tutta me stessa per essere primo ministro, ma mi è anche costato molto. Non posso e non devo fare questo lavoro se non ho il pieno di energie, oltre ad un po’ di riserva per quelle sfide impreviste che inevitabilmente si presentano», ha aggiunto. Con le sue parole, la premier ha sollevato una questione in realtà centrale nel mondo del lavoro contemporaneo: quella della salute mentale. Parlando apertamente di mancanza di energie e – implicitamente – di burnout, Ardern si è mostrata fragile, umana, uguale a tutti e tutte noi.
In realtà, la prima ministra neozelandese non è l’unica a dover fare i conti con l’esaurimento nervoso. Secondo diversi studi statunitensi, ma anche italiani, infatti, sono proprio le donne ad essere maggiormente colpite dallo stress causato dal troppo lavoro: il 42% dichiara di essere arrivata o quasi allo stato di burnout, contro il 35% degli uomini. Una condizione che, secondo una ricerca della Harvard Business Review, è strettamente correlata alle disuguaglianze di genere presenti sul luogo di lavoro. Le donne, infatti, sono spesso costrette a lavorare più del dovuto per superare i pregiudizi sessisti che le riguardano o ad accettare ruoli inferiori, nonostante le competenze acquisite, portandole a una situazione di maggiore stress e frustrazione.
«Spero di lasciare i neozelandesi con la convinzione che puoi essere gentile, ma allo stesso tempo forte, empatica, ma decisa, ottimista ma determinato… Che puoi essere il tipo di leader a cui aspiri, uno che sa quando è il momento di andare», ha concluso la premier. Parole potenti che possono cambiare radicalmente il nostro modo di concepire il lavoro, anche quando si ricoprono incarichi di grande responsabilità.