Quando Bob Dylan ha distrutto il mito del rock come musica giovanile
Lo davano per morto. Lui ha fatto un disco «sentito, pericoloso, enorme» che racchiudeva «decenni d'esperienze e racconti di vita». Viaggio nel box set 'Fragments' e nel nuovo mix di 'Time Out of Mind', un album che amavano tutti tranne uno: Bob Dylan
Foto: Mark Seliger
Quand’è uscito Time Out of Mind, fan e critici hanno deciso che era la cosa migliore fatta da Bob Dylan da decenni. Pubblicato il 30 settembre 1997, prodotto da Daniel Lanois, ha vinto il Grammy come album dell’anno e ha inaugurato un periodo di rinnovata vitalità per Dylan, mettendo a tacere per sempre chi dubitava della sua capacità di ricatturare la magia degli anni d’oro. Una sola persona non pareva soddisfatta dell’album: Bob Dylan.
«È stato frustrante, non sono riuscito a metterci nessuna delle canzoni più veloci che avrei voluto», ha detto a Rolling Stone nel 2001. «Ero così frustrato, in studio, da non riuscire a dare profondità alle canzoni. Avrei potuto farlo se solo avessi avuto più forza di volontà. Ma se non ce l’hai, come me all’epoca, devi farti guidare dagli eventi. Ho la sensazione che i ritmi siano tutti uguali. Somigliava tutto alle cose swampy e voodoo in cui Lanois è bravissimo. Avrei voluto dargli più ritmo».
Un quarto di secolo dopo, Dylan ha pubblicato oggi una versione remixata di Time Out of Mind che riduce al minimo le vibrazioni “paludose” che lo infastidivano in favore di un sound più naturale. È il pezzo forte di Fragments – Time Out of Mind Sessions 1996-1997, il volume numero 17 della sua Bootleg Series, un box da cinque dischi che contiene molte versioni non definitive di pezzi, take alternative, outtake in studio e versioni dal vivo degli 11 brani originali.
«Ciò che volevamo fare era trovare una maniera differente di guardare Time Out of Mind, di contestualizzarlo», dice una fonte vicina all’entourage di Dylan. «Volevamo anche che avesse un sound più naturale».
Per arrivarci, hanno ingaggiato Michael Brauer, ingegnere del suono che da due decenni lavora sul catalogo dylaniano, occupandosi di diversi box recenti della Bootleg Series e delle uscite in Super Audio CD della discografia di Dylan. «Mi hanno detto di farlo suonare di più come un disco cantautorale», spiega Brauer a Rolling Stone. «Ho risposto che l’avrei fatto, ma che non potevo reinventare l’album, che non volevo stravolgerlo. Perché Time Out of Mind è uno dei miei dischi preferiti di Dylan. In pratica, è una raccolta di canzoni su un uomo a pezzi. C’è della speranza, ma poi svanisce. Non avevo mai sentito un disco così, prima, e l’ho ascoltato tantissimo».
Per Daniel Lanois, l’esperienza legata a Time Out of Mind è iniziata nel 1996, quando ha incontrato Dylan nella stanza di un albergo newyorchese per parlare di un eventuale nuovo disco. Avevano lavorato assieme al fortunato Oh Mercy del 1989 e Dylan aveva appena scritto una serie di nuovi testi, dopo anni di blocco creativo. «Non avevo sentito nemmeno una nota o una melodia, ma avevo una sensazione fortissima», ha scritto Lanois nell’autobiografia Soul Mining: A Musical Life. «Ero sbalordito dalla forza dei testi. Bob aveva scritto utilizzando un punto di vista che pochi adottano. Nelle pagine che avevo davanti erano racchiusi decenni di esperienze e racconti di vita. Il mito secondo cui il rock’n’roll è cosa per giovani stava per essere polverizzato dagli occhi azzurri d’acciaio di quell’uomo».
Lanois ha aiutato Dylan a trasformare quei brani in un album. Come riferimento, gli sono stati dati vecchi dischi di Charley Patton, Little Walter e Arthur Alexander. Ha capito che Dylan sperava, in qualche modo, di ricreare l’atmosfera inquietante e minimalista di quelle vecchie incisioni country e blues. Hanno iniziato a lavorare in un cinema messicano in disuso chiamato Teatro, a Oxnard, California. È lì che l’essenza di canzoni come Not Dark Yet e Tryin’ to Get to Heaven è stata fissata su nastro per la prima volta.
«Ero talmente elettrizzato che non riuscivo a dormire», scrive Lanois. «Bob aveva scritto dei testi fortissimi e sentivo che eravamo sul punto di realizzare qualcosa di grandioso. Avevamo trovato un modo di ricreare il sound dei vecchi dischi americani e la mia mente ha cominciato ad andare a briglia sciolta. Poteva essere l’album più grande di tutti i tempi. Bob a livello di testi era al top. E io, dal canto mio, vedevo all’orizzonte il potenziale per ottenere un nuovo suono. Così m’è venuta l’ossessione di realizzare un disco sentito, pericoloso, enorme».
Dopo qualche settimana, però, Dylan ha deciso che voleva spostarsi ai Criteria Studios di Miami, Florida. Lanois ha accettato a malincuore, incontrando qualche difficoltà nel trovare i musicisti giusti. «Non avevo la stessa band di adesso», ha detto Dylan nel 2001. «Ogni tanto facevo delle audizioni per assemblare un gruppo, ma sentivo che non potevo fidarmi di quelle persone una volta messe in studio di fronte a degli inediti. Così abbiamo iniziato a utilizzare dei musicisti scelti da Lanois e un paio che avevo in mente io. Ho messo insieme gente che sapeva suonare e aveva l’atteggiamento giusto, appassionato, per quelle canzoni».
Alla fine hanno utilizzato quattro batteristi (Brian Blade, Jim Keltner, David Kemper, Winston Watson), cinque chitarristi (Bucky Baxter, Bob Britt, Cindy Cashdollar, Duke Robillard, Lanois) e due tastieristi (Jim Dickinson, Augie Meyers). Il basso l’ha suonato Tony Garnier, mentre Tony Mangurian s’è occupato delle percussioni.
In diverse take Lanois ha chiesto ai musicisti di suonare tutti assieme. «Ne usciva un’ora, un’ora e mezza di caos», ha ricordato Dickinson parlando col biografo di Dylan Clinton Heylin, «e poi arrivavano otto, dieci minuti di lucidità e bellezza. E quei dieci minuti li fissavamo. Ma lui non voleva che le cose fossero troppo definito. Gli piaceva sentirsi libero. Se ci avvicinavamo troppo a qualcosa che poteva sembrare un arrangiamento, cambiava radicalmente tonalità e tempo».
Da questo caos è nata lentamente la versione finale di Time Out of Mind. Più avanti, nel corso del mixaggio, Dylan è stato colpito da istoplasmosi, una malattia cardiaca che gli è risultata quasi fatale. «Pensavo di raggiungere Elvis», ha detto alla stampa. Quando hanno ascoltato i testi tetri e catastrofici del disco (“Ogni giorno la tua memoria si assottiglia”, “non è ancora buio ma ci siamo quasi”, “sulla mia testa non ci sono che nuvole di sangue”, “la pietà di Dio deve essere vicina”), molti critici hanno pensato che, invece di dar voce a un personaggio, Dylan stesse cantando della sua stanchezza di vivere e del suo quasi-incontro con la morte. Greg Kot di Rolling Stone scrisse che «Time Out of Mind mostra Dylan ai margini della cultura, di fronte alla sua età che avanza e alla prospettiva di ammalarsi (qualche mese fa è stato ricoverato per una malattia cardiaca) e di scivolare nell’irrilevanza».
Eppure Dylan aveva solo 56 anni (oggi Eddie Vedder ne ha 58, se vogliamo fare un confronto) e quando ha scritto e inciso l’album godeva di buona salute. «I critici hanno parlato di un Dylan che rifletteva sulla propria mortalità principalmente perché ha sei, sette anni più della maggior parte delle persone che scrivono di musica», spiega la nostra fonte vicina all’entourage di Dylan. «Ma lui aveva davanti a sé ancora molti anni e un sacco di musica».
Michael Brauer s’è dovuto misurare con ogni sorta di sfida, lavorando ai progetti con Bob Dylan. Quando ha iniziato a occuparsi della versione SACD di Blonde on Blonde, ha scoperto che il master originale era sparito da decenni. «Avevano la versione multitraccia a quattro piste», spiega, «ma il mixaggio definitivo vero e proprio era andato perduto. La prima versione su CD era stata mixata da un ingegnere del suono, un dipendente della Columbia, senza tenere conto del mixaggio originale. Ma stavolta volevano che il mixaggio fosse fedele alla prima versione. Dovevo fare un lavoro perfetto».
Il master di Street Legal c’era, ma il mixaggio originale era un disastro e a Brauer è stato chiesto di sistemarlo. «In alcuni casi era troppo sbilanciato sul lato sinistro. Magari, mi dicevo, è perché c’è della sporcizia sulla bobina che non mi esce nulla dalla cassa destra? O sono io che ho del cerume in un orecchio? Poi ho capito che era così il mixaggio originale».
Time Out of Mind ha rappresentato una sfida di tutt’altra entità. Il compito di Brauer è stato prendere un album universalmente apprezzato, vincitore di un Grammy e prodotto da un’icona per reinterpretarlo in modo nuovo. Ha aderito al progetto senza sapere granché della genesi del disco ed è quindi rimasto sbalordito, esaminando le tracce, quand’ha scoperto che 12 musicisti avevano suonato insieme, creando una cacofonia pazzesca. Era stato Lanois a decidere, in fase di mixaggio, quali parti tenere e quali eliminare.
«Di norma prendo le tracce e le mixo: tutti gli elementi sono già lì, non devo pensare a riarrangiare i brani», dice Brauer. «In questo caso specifico ho dovuto esaminare ogni singolo frammento, strumento per strumento, e decidere cosa mi piaceva e cosa no. Una volta fatto, ho riascoltato il mixaggio originale per capire ciò che Lanois aveva tenuto e cosa aveva fatto, per controllare se la mia versione corrispondeva alla sua. È stato un procedimento lunghissimo».
Ogni volta che arrivava a una versione soddisfacente, la inviava al management di Dylan e al produttore Steve Berkowitz. «A volte Steve mi diceva di semplificare, di levare più roba. Ci sono stati scambi di opinioni e un sacco di modifiche».
Nel disco originale, Lanois aveva fatto passare la voce di Dylan in un ampli da chitarra Gretsch Gadabout per creare un effetto spettrale. «C’era sempre un mix del segnale puro del microfono e di quello processato dall’amplificatore», spiega Bauer. «La percentuale poteva essere 50 e 50 oppure 40 e 60, a seconda della canzone. C’erano anche riverberi e delay».
Brauer voleva riportare alla luce il più possibile la voce originale di Dylan, pur restando fedele al sound peculiare di Time Out of Mind. I master con la voce di Dylan erano stati incisi separatamente da Lanois ed erano stati conservati. «Così ho potuto decidere se e quanto mantenere la voce naturale o processata ed è stata un’ottima cosa», spiega Bauer. «Altrimenti non avrei avuto spazio di manovra per i momenti in cui era richiesta una voce più naturale, che non fosse modificata dal suono dell’ampli».
Continua: «Volevo far emergere la storia di ogni brano, così che ci si potesse concentrare su quel che diceva Dylan. Nel disco originale la voce è bella in evidenza, con la band che resta sullo sfondo. Volevo che il gruppo lo avvolgesse maggiormente».
In certe canzoni, come il pezzo di chiusura di 16 minuti Highlands, Brauer è intervenuto seguendo l’andamento del brano. «A volte tiravo su l’organo», dice, «altre volte non ci sono più la chitarra, il basso o la batteria. Volevo mantenere un flusso e un interesse costante in ogni pezzo. Ho seguito l’istinto, regolandomi in base a ciò che piaceva a Berkowitz». Un buon esempio è Cold Irons Bound: «Il basso e la batteria ora sono molto più in evidenza. Ci sono piccoli cambiamenti, ma anche grandi quando servono a dare rilievo alla storia che Bob racconta. Anche Not Dark Yet suona piuttosto diversa».
Molti anni fa, Brauer ha lavorato con Lanois a un altro progetto, ma stavolta i due non hanno comunicato. «Mi piace pensare che gli piaccia com’è venuto. Ho cercato di essere rispettoso del suo lavoro e di non far sparire l’emozione che si percepiva. Mai pensato “lo posso fare meglio io”, mica puoi migliorare qualcosa di così iconico. Al massimo puoi provare a renderlo diverso».
Il nuovo mix di Brauer di Time Out of Mind costituisce il primo disco di Fragments. Il box set contiene anche outtake e versioni alternative dei brani registrati al Teatro e ai Criteria Studios fra l’agosto del 1996 e il gennaio del 1997. C’è una rilettura della ballata tradizionale scozzese The Water Is Wide, che una ventina d’anni prima Dylan cantava regolarmente con Baez nella Rolling Thunder Revue. Si continua con le outtake Dreamin’ of You e Red River Shore e versioni primordiali di canzoni note come Love Sick, Dirt Road Blues e Cold Irons Bound, spesso con testi e melodie differenti. “Ti senti mai come se il tuo cervello fosse imbullonato al muro?”, canta Dyan in una strofa ritrovata di Can’t Wait. “Tutte le viti si stanno stringendo e tu sei tagliato fuori da tutto / Non so / Forse non è così tardi per te / Ma io / Non so per quanto ancora potrò attendere”.
Ci sono cinque versioni differenti di Mississippi che mostrano alla perfezione quanto Dylan abbia tribolato sulla canzone prima di eliminarla dall’album e darla a Sheryl Crow per il suo The Globe Sessions. «Allora non capivo perché non la volesse mettere nel disco», racconta la nostra fonte. «Ora, riascoltando l’album nella sua interezza, capisco che Mississippi lì dentro sarebbe fuori luogo. So che ne hanno incise molte take, così com’era accaduto con Dignity per Oh Mercy», aggiunge, menzionando un altro grande brano depennato da una tracklist di Dylan.
I pezzi sono presentati in ordine cronologico, così da mostrare come le versioni definitive hanno preso forma nel corso dei mesi. Il quarto disco contiene registrazioni live di tutte le 11 canzoni, prese da concerti tenuti fra il 1998 e il 2001. Alcune sono incisioni dal banco mixer, molte sono realizzate dai fan e circolavano da anni in versione bootleg.
«È o non è la Bootleg Series?», dice la nostra fonte ridacchiando. «Sspesso una registrazione fatta dal pubblico suona meglio di una fatta dal mixer. La gente andava ai concerti e ne usciva con ottime registrazioni. Magari qualcuno era alla destra del palco, un altro a sinistra. Nascondevano i registratori sotto al berretto».
Il produttore Greg Geller ha avuto il compito di ascoltare una montagna di nastri registrati dal pubblico e di scovare le versioni migliori. «Magari ti piace la performance di una sera in particolare, ma non c’è una registrazione decente», spiega la nostra fonte. «Una volta identificata l’esecuzione, andiamo in cerca della fonte migliore e se la troviamo la usiamo».
I fan hardcore di Dylan ameranno ascoltare registrazioni grezze di quel tour insieme alle outtake registrate in studio, anche se per alcuni l’idea di un nuovo mix di Time Out of Mind è un sacrilegio. «La versione originale del disco è probabilmente quella perfetta», ammette la fonte. «Ma se ascolti una canzone per tante volte, cosa che abbiamo fatto tutti nel caso di quest’album, finisci per annoiarti un po’. E allora abbiamo voluto offrire un nuovo modo di ascoltarlo».
Brauer ha capito di avercela fatta quando ha fatto sentire il nuovo mix a un amico fanatico di Dylan. «Era raggiante», racconta. «Era felicissimo di avere colto cose che non aveva mai sentito prima. Ha capito come tutte quelle storie erano legate. In un certo senso, rappresenta i fan del disco. La cosa m’ha inorgoglito. Mi sono detto: bene, vuol dire che ho rispettato l’originale. L’ho reso diverso, ma l’ho fatto bene».
Da Rolling Stone US.