Marracash: «Il denaro è la prima fonte di disuguaglianza, ma non ne parla nessuno» | Rolling Stone Italia
Ritorno "Di classe"

Marracash: «Il denaro è la prima fonte di disuguaglianza, ma non ne parla nessuno»

Grazie a Lavazza abbiamo intervistato l'ultimo intellettuale del rap italiano per chiedergli di immaginare il Paese che vorrebbe. La fanta–Italia di Marra è un posto bellissimo: si lavora di meno, le proteste dei giovani vengono prese sul serio e le grafichette su Instagram hanno la giusta importanza, cioè nulla

Marracash: «Il denaro è la prima fonte di disuguaglianza, ma non ne parla nessuno»

Marracash

Foto: Lavazza

Lo abbiamo ripetuto a più riprese: Marracash è differente.

Parla pochissimo, ha una presenza social pressoché inesistente, è perfettamente capace di scomparire – per settimane, mesi, addirittura anni – senza dare nessuna notizia di sé e di ripresentarsi sulla scena in grandissimo stile, posizionando su un mercato discografico asfittico e dominato dalle canzonette due dischi talmente profondi da apparire irreali, il primo (Persona) che parla dell’inferno della nostra mente, il secondo (Noi, loro, gli altri) in cui il malessere individuale diventa sistemico, trasformandosi in un disagio collettivo da esorcizzare comunitariamente.

Siamo tornati a parlare con lui grazie al progetto “L’Italia che vorrei” di Lavazza Qualità Rossa: la casa torinese ha chiesto a tre artisti (Elodie, Levante e, per l’appunto, Marra) di descrivere il Paese che vorrebbero attraverso una parola. Marracash ha scelto “equa”, un ritornello costante nella discografia del rapper di Barona. La fanta–Italia di Marra è un posto bellissimo: si lavora di meno, le proteste dei giovani vengono prese sul serio e le grafichette su Instagram hanno il giusto peso (ossia nessuno).

Tutte le foto per gentile concessione di Lavazza

Trovo che la parola che hai scelto sia perfetta: l’equità è un ritornello che ritorna prepotentemente nella tua poetica. A partire dal tuo primo tormentone – Badabum Cha Cha – fino al tuo ultimo disco, gli squilibri di potere rappresentano un filo conduttore costante. Prima dell’intervista ho riascoltato Cosplayer, dove parli apertamente di proteste monetizzabili: la pensi ancora così? Siamo talmente presi a lottare per il nostro singolo gruppo identitario da avere dimenticato la visione d’insieme?
Sì, perché non ho ancora trovato nessuno disposto a mettere apertamente in discussione il denaro, che alla fine della fiera è la più grande fonte di disuguaglianza, quella che compendia tutte le altre. Fa un po’ sorridere che ci siano questi paradossi, no? Non voglio assolutamente sminuire né banalizzare le altre battaglie, per carità: si lotta per delle cose che hanno il loro peso nella vita quotidiana delle persone. Ma è come se il problema più grande, la fonte primaria degli squilibri di potere che ci affliggono, rimanga sempre e comunque sullo sfondo.

Insomma, fuori dal microcosmo delle grafichette su Instagram c’è tutto un mondo, quello vero.
Esatto, un mondo in cui quel grande problema continua a esistere: mentre veniamo distratti dal rumore di fondo, il divario tra chi sta bene e chi non ha niente si fa sempre più ampio. Ci stiamo attivando per risolvere tante asimmetrie, ma di quella più importante in assoluto non parla quasi nessuno. Il mio timore è che questo bubbone, prima o poi, possa scoppiare. Nel frattempo, la forbice non fa altro che allargarsi.

Eppure, almeno nella cerchia ristrettissima dell’arte, questa identità collettiva è tornata a farsi sentire.
Sì, pensiamo anche a film come Parasite e Snowpiercer, ma anche produzioni più leggere come Squid Game: hanno tutte in comune una prepotente riproposizione del discorso di classe. Da quel punto di vista, per fortuna, il tema sta tornando molto in auge.

Mi sembra che in Italia a ribadire questa visione d’insieme siano soprattutto le seconde generazioni di rapper, da Baby Gang a Simba La Rue, seppure con le modalità che conosciamo. Nelle loro canzoni non c’è spazio per rivendicazioni selettive, partono da un livello molto più basso, essenziale. Sembrano dirci: «Ok, l’ascensore sociale è rotto, ma mettetevi in testa che noi vogliamo arrivare ai primi piani comunque».
È vero, ma se non ripari l’ascensore arrivare ai primi piani è dura. In linea generale sono d’accordo: a livello di testi e attitudine sembrano avercela molto presente, questa identità collettiva. Penso che sia normale: nelle periferie è sempre esistito un senso di appartenenza diverso, più ingombrante. Questa visione d’insieme, poi, è un tratto distintivo della musica che facciamo, un classico del rap: cambio la mia vita per cambiare la vita di chi mi sta vicino. Nel loro caso, poi, entrano in gioco diversi strati di appartenenza: quello dell’essere senza famiglia, quello dell’essere immigrati, quello dell’essere poveri, quello dell’essere emarginati. Non so se si tratti di una coscienza di classe in senso stretto, però. Parliamo di artisti molto giovani e che, com’è normale che sia, devono ancora mettere un po’ a fuoco questa cosa.

Anche il riscaldamento globale è legato a doppio filo al tema dell’equità, soprattutto da un punto di vista generazionale: i giovani tentano di comunicare una crisi a chi li ha preceduti, una crisi che stanno già pagando a caro prezzo e che pagheranno in futuro. Il vandalismo dell’arte degli attivisti di Ultima Generazione tenta di rendere questa rivendicazione urgentissima, eppure il dibattito pubblico si concentra sulle modalità – la vernice sul Van Gogh, il blocco delle strade – e non sul grande problema di fondo. Perché?
Tu fai queste domande in cui c’è già la risposta (ride di gusto, nda), sono d’accordo con tutto ciò che hai detto. Secondo me il fatto che i giovani siano così arrabbiati, che abbiano preso coscienza di una crisi e di un futuro sempre più buio, è un fattore positivo, una cosa sanissima. Sono disposti a mettersi in gioco, a lottare e ad affrontare tutti i risvolti che potrebbero scaturire dalle loro azioni di protesta o disobbedienza. Sapere di poter contare su giovani disposti ad essere puniti pur di combattere per una causa che reputano giusta è un grande segnale di speranza.

In un’intervista a Repubblica di qualche giorno fa hai detto che sei stanco, che hai bisogno di prenderti una pausa.
Sì, sono in burnout, voglio staccare la spina per un po’.

Hai parlato anche di quite quitting e della necessità di ritrovare del tempo da consacrare a qualcosa di diverso dalla produttività. Un Paese più equo è anche un Paese in cui si lavora di meno?
Bella domanda. Un Paese dove si lavora di meno e si lavora in maniera un po’ più sana, forse. Ad esempio, quest’anno si è fatto un gran parlare di grandi dimissioni: un numero spaventoso di persone ha lasciato il proprio posto di lavoro perché non ce la faceva più. È un sentimento che ho riscontrato anche parlando con tanta gente che conosco, soprattutto professionisti che lavorano nella musica. Mi sono reso conto che sempre più persone sono consumate dagli stessi dubbi di cui parlo nella mia canzone. La domanda è sempre la stessa: vale la pena sacrificare tutto (famiglia, salute, affetti) sull’altare della carriera?

Non saprei: ne vale la pena?
Per me no, bisogna scacciare via una volta per tutte lo spauracchio del burnout e capire che la nostra missione non è soltanto quella di produrre a ogni costo. In settimana ho letto delle dimissioni di Jacinda Ardern, la prima ministra neozelandese: nel discorso con cui ha comunicato le sue volontà ha parlato apertamente di salute mentale e stanchezza. Ha avuto il coraggio di mostrarsi fragile, ha ammesso di non godere delle giuste condizioni per governare bene e ha scelto di farsi da parte. La trovo una cosa molto, molto intelligente, no? Basta con questa cosa dell’iperproduttività a ogni costo, siamo anche altro.

Da come parli, ormai mi sembri una specie di Mark Fisher nostrano.
Non sei la prima persona che me lo dice (ride, nda), evidentemente trattiamo le stesse cose, seppure con stili e mezzi differenti. La verità, però, è che non ho ancora letto nulla di suo: recupererò.

Anche secondo Guè, ormai, fai parte a pieno titolo dell’intellighenzia: in un’intervista di qualche giorno fa ha detto che sei l’unico rapper che gli intellettuali possono ascoltare senza vergognarsi di dirlo in giro. Ti rivedi in questa definizione?
Sì? Boh? Non lo so (ride, nda). Non mi sono mai posto questo problema, credo che anche un bel disco di genere possa piacere a un intellettuale, o almeno me lo auguro. Spero che anche gli intellettuali, veri o presunti, sappiano ritagliarsi dei momenti di svago.