Alberto Piccinini: Scusa se non mi sono fatto sentire, ma avevo promesso alla psicologa che quest’anno avrei guardato Sanremo il meno possibile. Per l’umore. È andata benino. Insomma. Alla fine ho visto soltanto tre serate su cinque, una ho dormito metà, la finale sbirciata distrattamente da amici, totale: una e mezza. Ho anche cercato di tenermi impegnato per non ricascarci coi social e le chat di WhatsApp: letto un libro sull’estetica dei meme, recuperato due puntate di The Last of Us – i soliti zombi, niente de che – sentito il disco nuovo di Yo La Tengo preistorici eroi del rock indipendente americano, di Hoboken. Non ci crederai: nonostante i miei sforzi, per tutto sabato ho avuto in testa il ritornello di Furore di Paola & Chiara, amarsi e fare rumore. Una tortura. Lancio un appello per l’anno prossimo: delle sedute di autocoscienza con chi si è macchiato di colpe particolarmente gravi, compiacenza trash, eccessivo lassismo nei confronti della decadenza culturale di questo Paese. Sanremisti anonimi. Ci si vede all’ora del Festival a raccontarsi di quando hai parlato bene di Madame e Tananai, hai riletto Grignani e Michele Zarrillo citando Baudrillard e Baudelaire, anche solo per scherzare. Scherzare è la cosa peggiore di tutte. Forza che ce la possiamo fare.
Giovanni Robertini: A parte la solita gastrite, ma quella è a prescindere, col Festival è andata bene, normale, ho avuto qualche crollo nervoso, ma mai per colpa dello show. Mi hanno fatto incazzare i tweet della sala stampa, i vecchi e nuovi freak del giornalismo culturale, i cringismi dei vari “paologiordanodelgiornale” che cannibalizzano le nostre timeline con moralismo (e vabbè) e retorica (e vabbè) ma soprattutto – questo è davvero imperdonabile – con l’ironia. Ma vaffanculo. Ora, io non dico che dobbiamo fare tutti i Mark Fisher, ma un po’ di realismo sanremista non guasterebbe, dal disagio psichico causato dal bombardamento di spot nelle cinque serate (avranno anche raccolto 50 milioni di pubblicità, ma io mi sveglio nel sonno con la voce di Hal Yamanouchi che mi sussurra nell’orecchio «sussusukiaibriiid»), all’hackeraggio dei nostri tessuti connettivi operato dalle polemiche continue, inventate o reali non importa, il risultato è devastante. Le rose di Blanco, il monologo della Francini, le foibe, Fedez che strappa la foto, Benigni featuring Mattarella, le bestemmie al Var, il razzismo, i selfie della Ferragni… basta, spero che almeno qualcuno l’abbia capito, che siamo dentro a un grande complotto. È chiaro, no? È andata così: il Festival in realtà non è andato in onda su Rai 1 da Sanremo, ma dagli studi di Rete 4 di Cologno Monzese, scenografi e autori dei talk di prima serata si sono impossessati del format sanremese per assestare il golpe televisivo finale con l’aiuto dei figuranti presi a caso dal Parlamento e di Fedez che fa sempre casino. Si erano accorti che le polemiche su Peppa Pig non bastavano, che non bastava più prendere uno dalla strada e farlo urlare sventolando il tesserino del reddito di cittadinanza, ci voleva un’idea. Un nuovo copione. Famo Sanremo, hanno detto, uguale a quello vero, negli stessi giorni, l’importante è che le canzoni non se le fili nessuno, devono essere medie, né brutte né belle, tipo Mr. Rain (che, nota, nella realtà non esiste, ma è solo nelle scalette degli autori di Rete 4) o Mengoni. E ogni giorno mettiamo un paio di polemiche, in crescendo, fino alla serata finale, con Zelensky e la cacciata dei vertici Rai. Hai capito? C’è una regia dietro Sanremo, e sta a Mediaset. Geniali.
AP: Mengoni lo odio a prescindere, non ci posso fare niente. Lui ha il peccato originale, l’X Factor. Prima eravamo un Paese di cantanti trashoni, provinciali e meravigliosi, dopo Mengoni siamo diventati un Paese di cantanti intonati, truccatissimi, tristissimi. Che vivono tutti nello stesso grattacielo di Milano. Lascia stare Fedez e Rosa Chemical, i Baustelle che fanno i Ricchi e Poveri, i fiori di Blanco e la scopa di Morandi. Del Festival di Amadeus, per quel poco che ho visto, salvo due cose: 1) quelli che gridano dalla galleria prima che cominci il pezzo («Brava Elodieeeh!», «Lazzaaa!»), perché me li immagino che poi a casa con calma ritaglino il pezzetto da YouTube per usarlo come suoneria del cellulare; 2) le apparizioni dei due artigiani della qualità Bruno e Andrea, protagonisti in persona del product placement di Poltronesofà. Lo scherzetto, se ho capito bene le tariffe, è costato qualcosa come due milioni di euro, l’occasione quasi completamente buttata. Coi legittimi eredi dei grandi televenditori della nostra gioventù, Fiorello o Chiambretti ai suoi tempi avrebbero fatto mezzo Festival. Bruno e Andrea «non sono attori» ci ripetono sempre quelli del marketing, sono artigiani veri. E così siamo già in un loop degno di Philip K. Dick. A Sanremo non sono andati oltre una stralunata e involontaria eleganza da film di Jacques Tati. Peccato.
GR: Sai che mi sono chiesto per giorni chi cazzo fossero i due di Poltronesofà? E finalmente mi hai risposto. Perché li ho osservati con invidia, ma soprattutto con empatia. Io sono stato loro per cinque giorni, col mio divano (che è Ikea, ma è uguale) che si spostava dall’atrio dell’Ariston ai camerini, che volava nei cieli di Bordighera sulle note psichedeliche dei Cugini, osservando gli outfit dei cantanti in gara, le acconciature, i trucchi. E poi, a un certo punto, alla quarta Red Bull della serata, senza neanche una cannetta degli Articolo 31, verso le due e tre quarti mi ritrovano col mio divano direttamente sul palco, in mezzo all’orchestra, con Ama che mi guardava e mi sorrideva. Poi arrivava di nuovo il giapponese che fa la voce dello spot della Suzuki, mi urlava qualcosa, che era il suo momento e che gli dovevo lasciare il palco. Un incubo. Comunque sì, ho guardato attentamente tutti gli outfit delle serate e devo dire che le nostre care amiche stylist milanesi (una categoria dell’anima per chi come noi due boomer ha bazzicato MTV negli anni ’90) si sono un po’ smarrite, hanno abbandonato la via della coolness e ora vagano come fantasmi nell’outlet del “famolo strano”. Forse dovremmo chiamarle, scrivere dei messaggini, secondo me si sentono sole, il mondo dello stylismo è spietato. Non abbandoniamole.
AP: E adesso? Come ne usciamo? Ripensiamo alle stroncature, che non sono – beninteso – hate speech, ma un genere letterario. Vista la recensione di Pitchfork ai Måneskin voto 2 uscita martedì scorso? 7000 battute di Jeremy D. Larson, il responsabile della pagina. Pure troppo lunga. Non se la meritavano i Måneskin, ho pensato. «È un album rock che più lo suoni ad alto volume peggio è», sounds worse the louder you play it, poteva finirla lì. Cito altre frasi: «Assolutamente terribile ad ogni livello concepibile», «Roma è una città famosa per mille cose prima che per fare della buona musica rock», «con tutto quel che succede nel mondo non vorreste che Tom Morello vi telefonasse un altro assolo di chitarra con il distorsore?», «sembrano una parodia di una band da copertina dell’Nme dei primi anni ’90», «la produzione suona così ristretta, digitalizzata, senza stile, che sembra ottimizzata per il cesso di un fast food». Eccetera. Poi ho capito che tutti i colleghi di Larson, critici americani e inglesi, lo hanno salutato come un pezzo di bravura, quasi un manifesto. Interessante che i Måneskin ci smuovano sempre qualcosa di troppo. E sempre più difficile che un critico abbia l’occasione di occuparsi di qualcosa che non appartiene alla sua nicchia, così da poterlo stroncare a cuor leggero. Noi ogni anno avevamo Sanremo, ma abbiamo finito per buttare al vento anche questa occasione: tutti quelli che scrivono del Festival adesso sembra che si occupino di cose serie.