Nei primi anni del CBGB, Lou Reed era praticamente un habitué del locale. L’avevo visto a un paio di show di Patti Smith e a un paio dei Television. Era un’emozione trovarlo lì. Tempo dopo ci disse: «Sono ancora un buon osservatore», ed era vero. Lou, gli va riconosciuto, fu una delle prime e poche star a venire al CBGB a dare un’occhiata alle nuove band. La prima volta che lo vidi lì, scavalcai tavoli e sedie per andare a chiedergli un autografo. L’ultimo autografo lo avevo chiesto al presidente Eisenhower quando non ero che un bambino e mio padre mi aveva portato all’inaugurazione della Eisenhower Hall alla Valley Forge Military Academy. Lou, che alle due di mattina indossava occhiali aviator da sole in un locale buio, firmò il pezzo di carta, poi girò i tacchi e se ne andò.
Ecco perché ci sentimmo letteralmente in soggezione quando comparve nel backstage del CBGB dopo uno dei nostri primi show. Fu subito dopo la pubblicazione dell’album Coney Island Baby nel dicembre del 1975 e io quel disco lo ascoltavo di continuo nel loft di Chrystie Street. Lou ci invitò a casa sua, ci divertì il fatto che l’appartamento si trovasse nell’Upper East Side vicino a Bloomingdale’s. Non ce lo aspettavamo. Così raccogliemmo rapidamente gli strumenti, li portammo nel loft e ci dirigemmo a Uptown. Penso sia stata una delle poche volte in cui spendemmo del denaro per un taxi, in modo da arrivare a casa sua il prima possibile.
Nell’edificio in cui viveva c’erano un portiere e vasi con piante nell’atrio. Il portiere ci disse che Lou ci stava aspettando, così prendemmo l’ascensore e salimmo da lui. Bussammo alla porta e fummo accolti per la prima volta da Rachel Humphreys, la ragazza transgender di Lou. Rachel non disse una parola ma ci fece cenno di entrare.
A parte un divano non c’erano mobili. «Lei è Rachel. Accomodatevi» disse Lou. Dall’aspetto Rachel sembrava una tipa tosta ed era la prima persona transgender che mi presentavano. Si vedeva che era molto protettiva nei confronti di Lou, ma credo che avesse deciso che eravamo tipi a posto perché andò in camera da letto e chiuse la porta.
Io, Tina e David ci accomodammo sul divano moderno anni Sessanta di Lou, molto ordinario, e lui si sedette a terra. Alternava momenti di dolcezza ad altri di asprezza. «È, come dire, figo che abbiate una ragazza nella band. Mi chiedo come vi sia venuta l’idea» fu la prima cosa che ci disse. Poi proseguì, criticando il nostro set di quella sera e anche quelli di altre band viste di recente, in particolare il Patti Smith Group e i Television. Gli piaceva il nostro lavoro, ma si fissò, tra tutte, su una canzone, Tentative Decisions. Adorava il testo ma riteneva che il tempo fosse troppo veloce e che se lo avessimo rallentato avrebbe trasmesso un senso più profondo. Sono certo che avesse ragione, e nelle successive esibizioni e incisioni la rallentammo un po’, anche se probabilmente non tanto quanto avrebbe desiderato lui, perché a quel punto il nostro pubblico rispondeva meglio ai pezzi uptempo, non a quelli lenti.
Lou si alzò, andò in cucina e prese un chilo di gelato Häagen-Dazs dal frigorifero. Lo portò nella stanza e tornò a sedersi a gambe incrociate sullo spoglio pavimento di parquet, quando disse tra sé ad alta voce: «Mi serve un cucchiaio». Tina si offrì di prendergliene uno e quando aprì il cassetto della cucina si rese conto che ce n’era solo uno, tutto storto e annerito. Con una leggera smorfia lo portò a Lou, che mangiò l’intero chilo di gelato proprio sotto i nostri occhi con quello strano cucchiaio. Non ci offrì né del gelato né altro. Erano forse le quattro del mattino. Sembrava che si fosse appena svegliato.
Tra un boccone e l’altro, Lou disse a David che non avrebbe mai dovuto salire sul palco con una camicia a maniche corte perché aveva le braccia troppo pelose. Doveva sempre indossare camicie a maniche lunghe. Lou Reed ci spiegò poi che una band era come un pugno. Poteva essere molto potente, ma le case discografiche cercavano sempre di manipolare e massaggiare un dito per allontanarlo dagli altri e spezzare il pugno, in modo da avere a che fare solo con un individuo e non con l’intera band. Pensai che fosse interessante che ce ne parlasse alla luce della storia con i Velvet Underground, ma noi non conoscevamo davvero tutta la faccenda, quindi non ne facemmo parola.
Lou parlava e parlava e noi ascoltavamo, a volte in soggezione a volte increduli. A un certo punto si alzò e si diresse alla libreria, che conteneva un solo libro, The Physicians’ Desk Reference. Cominciò a dirci quali erano stati i suoi farmaci preferiti e quali gli piacevano ultimamente, un po’ come quando si sfoglia un catalogo di vestiti di L.L. Bean, ma con pillole, pillole, pillole. Ci mostrò le foto dei suoi vari prodotti preferiti, gli stimolanti e i calmanti, e ci mise in guardia sui rischi di ognuno.
Poi, dopo averci insegnato un paio di cose sul Dilaudid, suggerì di andare a mangiare qualcosa. Scendemmo con l’ascensore, al sorgere del sole, attraversammo la strada e arrivammo alla tavola calda che oggi si chiama Eat Here Now a Lexington Avenue. Io, Tina e David prendemmo la specialità del mattiniero: pancetta, uova e frittelle di patate, mentre Lou, il nostro eroe, ordinò un’enorme pila di pancake con sciroppo d’acero. Lou era un tipo magro, ma quanto era goloso!
Dopo la colazione avevamo bisogno di dormire un po’. Mentre ci salutavamo, Lou insistette per rivederci. Voleva discutere della produzione del nostro primo album e voleva presentarci al suo manager. Era una roba esaltante per una band che aveva fatto solo pochi show, una band di neofiti di New York. Naturalmente gli rispondemmo di sì, saremmo stati felici di rivederlo.
Il manager di Lou, Jonny Podell, ci telefonò per un incontro nel suo ufficio della BMF Talent Agency. Io, Tina e David andammo a piedi fino all’ufficio di Jonny a Midtown, più o meno nelle vicinanze dei posti dove lavoravamo di giorno. Era il famoso agente di Crosby, Stills and Nash e Alice Cooper. La sua bella segretaria ci disse di entrare subito. Jonny era al telefono e pronunciava mille parole al minuto. Ci fece cenno di sederci. Ci sistemammo alla scrivania, di fronte a lui. La stanza era molto buia. Terminata la telefonata, tirò fuori dal taschino della camicia una fialetta di cocaina e sniffò due volte per ciascuna narice e poi, come ripensandoci, ci offrì un tiro. Rifiutammo educatamente. Jonny continuò a parlare di quanto fosse grandioso il suo cliente, Lou Reed, e di quanto Lou amasse i Talking Heads e che volevano proporci un accordo. Ci presentò un contratto e ci chiese di dargli un’occhiata. Gli dicemmo che l’avremmo fatto.
All’inizio pensammo, Wow, Lou Reed si offre di lavorare con noi. Fantastico! Poi ci rendemmo conto che avevamo bisogno di un avvocato che controllasse il contratto. C’era un avvocato, Peter Parcher, il cui nome di recente era comparso spesso sui giornali. Peter aveva rappresentato Keith Richards quando era stato beccato con una certa quantità di eroina in Canada. Era riuscito a risparmiare il carcere a Keith, quindi ci sembrava un bravo avvocato. Controllai con mio padre, che disse che Parcher era ben rispettato, così lo chiamai. Il giorno seguente io, Tina e David eravamo a Uptown nell’ufficio di Peter Parcher. Peter ci presentò il suo socio, Alan Shulman, e disse che era la persona giusta per esaminare l’accordo che ci era stato proposto. Passai il contratto ad Alan, che riconobbe subito un grosso problema. «È un contratto di produzione standard» disse. «Non permetterei mai a uno dei miei clienti di firmarlo. Lou Reed e Jonny Podell pagherebbero la realizzazione del disco, ma poi ne diventerebbero i proprietari. Potrebbero poi venderlo al miglior offerente, indipendentemente dalla vostra volontà. Nel caso di una hit di successo, ci guadagnerebbero loro e voi non otterreste nulla»-
Chiesi se c’era un modo per negoziare l’offerta e lui rispose: «Guarda, la reputazione di Lou Reed al momento è che al mattino quando si alza non sa se prendere l’autobus o l’aereo. Se avesse avuto buone intenzioni, non vi avrebbe mai offerto questo accordo di merda. Questo tipo di contratto è la ragione per cui molti artisti R&B possono aver avuto dischi di successo ma non hanno ancora un vaso in cui pisciare. Io lascerei stare e aspetterei un vero contratto discografico con una vera casa discografica».
Così ce ne andammo, un po’ tristi, ma sollevati di non aver commesso un grosso errore. Continuammo ad andare a trovare Lou e a rispettare ancora lui e il suo lavoro, ma non avremmo mai più pensato di metterci in affari con lui.
Tratto da Remain in Love. I Talking Heads, i Tom Tom Club e la mia vita con Tina di Chris Frantz (HarperCollins). © 2020 Chris Frantz © 2023 HarperCollins Italia S.p.A. Traduzione di Daniela Liucci.