Ci sono pochi argomenti che rischiano di essere resi retorici e vuoti come il bullismo: il dibattito sul tema può diventare un’occasione persa se si trasforma in una galleria di racconti dell’orrore – del resto basta leggere ogni tanto qualche tema scritto dai ragazzi per rendersi conto dell’inferno che molti vivono quotidianamente – da esporre per un giorno (il 7 febbraio, data celebrata annualmente come Giornata contro il bullismo) e poi rimettere via.
Questo non significa certamente che le storie non siano importantissime: forse rappresentano l’unico mezzo efficace per sensibilizzare sul tema senza renderlo arido. Certo, anche i dati ci raccontano a modo loro un’emergenza. L’indagine più accurata l’ha realizzata l’ISTAT ormai quasi tre anni fa, nel giugno del 2020, un momento certamente particolare visto che l’italia stava uscendo dal primo lockdown. I risultati emersi, però, sono in linea con altri più recenti, ad esempio la ricerca condotta dalla Onlus Terres des Hommes e i business e community builder di OneDay, che parlano di un adolescente italaino su due vittima di bullismo.
Il dato che più colpisce però riguarda il numero di ragazzi che vengono aggrediti periodicamente: secondo l’ISTAT, che si era basato su un campione di circa 3mila studenti, questi sarebbero il 19%. Significa che un ragazzo su cinque subisce vessazioni fisiche o psicologiche una o due volte al mese, mentre quasi il 10% le riceve almeno una volta alla settimana. Aggressioni ripetute, come in questi casi, possono portare anche a pensieri suicidi. Del resto basta leggere qualche racconto delle vittime uscito in questi giorni per scoprire che proprio l’invito a togliersi la vita è una delle violenze psicologiche più diffuse, e spesso perpetrata attraverso internet .
«Ci è capitato di intervenire per una ragazza a cui era stato detto “ammazzati” durante una diretta instagram e ci ha provato, fortunatamente senza riuscirci – dice a Rolling Stone Ivano Zoppi, presidente della Cooperativa Pepita e Segretario Generale della Fondazione Carolina Picchio, nata proprio per contrastare la violenza sul web tra i giovanissimi.
Il cyberbullismo è infatti un fenomeno in crescita: se prima del lockdown ricevevamo in media 50 segnalazioni al mese, dal 2020 siamo a passati a circa 300. E stiamo parlando solo dei numeri noti, ma nessuno sa quanto è il sommerso: spesso, infatti, i ragazzi non parlano per vergogna, paura o perché non hanno un adulto con cui confidarsi».
Dopo la comparsa dei social, perseguitare ed essere perseguitati è diventato purtroppo sempre più facile. Dopo la prima vittima accertata di cyberbullismo in Italia, Carolina Picchio, il Parlamento ha anche varato la legge 71 del 2017 che ha dato per la prima volta una definizione precisa di questo fenomeno.
Non ci si può fermare a dati ed esperienze, perché se no, appunto, si rischia di essere sopraffatti, o peggio, diventare insensibili, un rischio molto concreto soprattutto per gli adulti. E allora cosa si può e si deve fare? «Bisogna insistere con i genitori – continua Zoppi – spesso le azioni dei ragazzi riflettono i comportamenti discutibili degli adulti. Con la Fondazione abbiamo svolto una ricerca insieme all’associazione dei pediatri italiani da cui è emerso che molti genitori lasciano che sia Alexa a raccontare la storia della buonanotte ai loro figli: non si può pensare che abitudini come queste non influiscano sull’educazione del ragazzo.
Bullismo e cyberbullismo sono i frutti marci della stessa pianta malata che produce anche malessere psicologico e problemi relazionali negli adolescenti. Se la normalità in una famiglia è chattare durante i pasti, unico momento in cui ci potrebbe essere condivisione e ascolto, come può un bambino avere dei modelli che lo guidino a stare bene con sé stesso e quindi di conseguenza con gli altri? Con la Fondazione agiamo su tre pilastri: ricerca, prevenzione e supporto, quando succedono casi gravi infatti possiamo contare su una rete di psicologi, avvocati e spesso ci relazioniamo anche con le forze dell’ordine.
Per quanto riguarda la prevenzione, incontriamo ogni anno 80mila ragazzi in tutta Italia, ma solo 10mila genitori: anche questo è il segno che c’è anche una forte resistenza nel mettere in discussione i propri modelli educativi. «Per questo le ricerche sui genitori le facciamo in collaborazione con i pediatri: perché l’incontro con il pediatra non si può evitare».
Certamente il cammino da fare è anche con società e pubblico. «Le istituzioni devono iniziare a vederlo come un problema di salute pubblica – prosegue Zoppi – perché di questo si tratta: serve una mobilitazione più attiva, anche per convincere molti adulti che se non si cambia metodo le cose non miglioreranno. E poi occorre aprire un confronto anche con i big tech, innanzitutto per fare in modo che si rispettino i limiti di età sulle loro piattaforme».