Il linguaggio può essere intuitivo, qualcosa che nasce “di pancia”, dentro di te, per poi trasformarsi in un discorso compiuto. La comunicazione efficace, però, è tutta un’altra cosa. A volte i sentimenti sono più complessi di quanto le parole riescano a esprimere, e così si creano confusione e incomprensioni. Kelela Mizanekristos, la visionaria R&B che si esibisce con il nome d’arte di Kelela, è consapevole di avere un dono, da questo punto di vista. Il suo nuovo album Raven è un’esplorazione profonda delle emozioni. Il suo modo di lavorare si basa sull’istinto. «Registro la prima take mentre ascolto una canzone per la prima volta perché voglio essere sicura di catturare quell’unico momento in cui non ho alcuna idea preconcetta su cosa farò in un brano», spiega via Zoom. «In questo modo reagisco al pezzo nel modo più istintivo possibile».
Il titolo dell’album deriva da una creatura resa famosa da poeti come Edgar Allan Poe, ma spesso fraintesa. «Il corvo è associato all’idea di perdita e ai cattivi presagi. E in effetti nel disco c’è anche questo: ascoltandolo immagino si potrebbe dire che è cupo e, da un certo punto di vista, forse è davvero triste». Ma non è tutto qui. Si ferma un istante e cerca su Google il significato simbolico del corvo, per spiegarsi meglio: «Rappresenta anche la profezia e la conoscenza, mette in contatto il mondo reale con quello degli spiriti. Non voglio dire che creo un ponte fa il mondo degli spiriti e quello materiale, ma che traduco emozioni».
Raven, primo disco di Kelela da Tear Me Apart del 2017, è una sorta di tuffo sensuale nei sentimenti di chi ha il cuore spezzato. Il sound riproduce perfettamente questi sentimenti tramite le sfumature più sperimentali della dance e dell’r&b. Ed è la sua attenzione per i dettagli una delle ragioni della lunga pausa intercorsa fra i due album. «Ci ho messo tanto tempo perché sono sempre alla ricerca del sound particolare che si crea abbinando certe sonorità a certi produttori. Quindi lavoro moltissimo sulla costruzione delle tracce».
L’album si apre con Washed Away, un’introduzione delicata al mondo di Kelela. I synth scintillanti e ariosi dei sound artist berlinesi OCA, famosi per il modo in cui sperimentano con il suono e le emozioni che può suscitare, creano un effetto straordinariamente vivido, per cui l’ascoltatore fluttua in un mare di sentimenti, mentre la voce pacata, ma potente della cantante è saldamente alla guida. La tavolozza sonora utilizzata ci trasporta al centro dell’universo di Kelela. La voce galoppa ritmata nella psiche, cantando poche parole ma con cura, come se le stesse depositando delicatamente in fondo alla tua mente. “La nebbia, la luce, la polvere che si deposita nella notte / La speranza, il desiderio, svaniscono, con la vista sfocata”.
«Nella prima parte sembra di essere d’estate, poi l’album ti porta verso l’inverno e ti ci lascia dentro», dice lei. «In Contact ti lanci giù da una scogliera e in Fooley ti immergi nelle profondità dell’oceano».
Ma scovare le texture sonore più giuste non è stata l’unica parte del lavoro che ha richiesto pazienza. Dopo il suo primo album in studio, Kelela sapeva di dover indagare a fondo le sue specificità di donna nera e queer nel mondo del pop. «Una cosa che i miei amici vi possono dire di me è che se noto una cosa devo assolutamente trovare il modo di esprimerla a parole».
A questo scopo, ha creato una specie di documento-manifesto utile a chi vuole conoscerla a fondo. Mette assieme varie cose, dai podcast ai video sui social, passando per testi come Reader on Misogynoir di Kandis Williams e articoli come Decolonizing Love in a World Rigged for Black Women’s Loneliness di Shaadi Devereaux, il tutto con l’aggiunta di note personali. «Coi miei amici ho elaborato, letto e discusso di ciò che accadeva, così da avere le idee chiare al momento del lancio», spiega. Il disco è il prodotto di questo rigore emotivo e intellettuale. All’inizio dello scorso anno, verso gennaio, ha inviato il suo lungo manifesto ad amici e collaboratori. Se volevi lavorare con lei, dovevi studiare: «Così potevano avere un’idea precisa di cosa aspettarsi da me».
Kelela è nata a Washington D.C. ed è cresciuta in un sobborgo del Maryland. I genitori immigrati negli Stati Uniti dall’Etiopia non si sono mai sposati e l’hanno cresciuta vivendo in appartamenti separati, nello stesso edificio. Fin da piccola è stata circondata dalla musica: suonava il violino, cantava in un coro e ascoltava molti generi diversi. Al college ha iniziato a cantare nelle serate open mic, poi ha iniziato a collaborare con musicisti della scena indie e punk di Washington. Tutto questo nell’era di MySpace, quando gli artisti più giovani stavano creadno un nuovo panorama musicale. Dopo la decisione di mollare l’università, Kelela è entrata in contatto con musicisti elettronici sperimentali legati al giro della dance.
Nel 2013 ha pubblicato il suo primo mixtape, Cut 4 Me, per l’etichetta di musica dance Fade to Mind. Scaricabile gratuitamente su SoundCloud, ha portato la musicista, allora trentenne, sotto ai riflettori. La Fade to Mind si era costruita la reputazione di etichetta fra le più innovative nel genere e quell’approccio sperimentale, grazie alla vocalità unica di Kelela, ha guadagnato in forza espressiva. La cantante spiega che il suo istinto, da sempre, la porta a esplorare una gamma vastissima di suoni e fin dagli esordi ha anche capito quali fossero le sfide da affrontare, in qualità di artista sperimentale di colore. «Quando ho cominciato a pubblicare musica si era nel periodo post Pitchfork, era un momento buio per la musica black sperimentale perché a nessuno fregava un cazzo di quella roba».
Da brava teorica, fotografa la situazione con la precisione di uno studioso. «C’è un canone standard che identifica i suoni black accettati e credo continui a evolversi ogni anno. C’è sempre un nuovo sound che i bianchi scoprono non essere più troppo black per loro. E diventa accettabile. Così, col passare del tempo, vengono incluse altre sonorità. Ho cercato di elaborare una teoria che spieghi questa cosa, e l’unico termine che mi viene in mente è “razzismo sonoro”, perché alcune sonorità vengono classificate secondo un sistema di valore gerarchico».
«Trovo questa visione molto limitante per me. E una delle cose che ho voluto fare con il disco è affermare me stessa, liberarmi da quei giudizi». Ha costruito l’album quasi come una sequenza di brani mixati da un dj. Il passaggio da una traccia all’altra avviene con le modulazioni tipiche dei mix per le piste da ballo, che spaziano dal R&B ad accenni di dancehall, drum’n’bass e techno. «Mi preme che le persone di colore possano scoprire queste sonorità e farle proprie», spiega. «E, gestendo in questo modo le transizioni da una traccia all’altra, sembra che abbia mixato il mio album come farebbe un dj».
Raven veicola il suo messaggio a livello quasi subliminale. Le canzoni trasmettono spudoratezza e vulnerabilità, indagano gli aspetti più dolorosi dell’identità con un’attenzione estrema, si rivolgono alle donne di colore. «Credo di affrontare argomenti molto reali con un piglio diretto. Ma faccio anche allusioni che non sono per niente esplicite, per esempio al modo in cui reagisco al maschilismo. Passo in rassegna il concetto di rifiuto declinato in tanti modi diversi».
“Dimmi, ce la fai a gestire le tue ferite? / Sei in grado di amare, così, baby?”, canta in Enough for Love, una dichiarazione che suona universale e ad personam al tempo stesso. «Il comportamento maschile è così ripetitivo che si potrebbe pensare che tutte le canzoni parlino della stessa persona», spiega. «Ad alcuni l’ho dovuto spiegare: le canzoni non parlano tutte di una data situazione, è solo che il comportamento degli uomini è schematico».
Quando parliamo, Beyoncé ha appena vinto il Grammy per il migliore album di dance/elettronica con Renaissance, che esplora gli stessi ambiti della black music in cui si è mossa Kelela per tutta la sua carriera. «È figo vivere in un’epoca in cui la dance music non è tenuta nell’ombra, come invece di solito accade. Credo che quello sia uno dei modi in cui si palesa l’avversione alla blackness in musica. Creando una distanza con le altre sonorità, in pratica si rende più difficoltoso capire che all’origine di tutto ciò c’è la mano di tantissime persone di colore. È un sottotesto sonoro presente in tutto il disco».
L’album potrebbe sembrare cupo, per Kelela invece è piano di gioia. «Nel mio lavoro ho sempre messo in primo piano la tenerezza e la vulnerabilità e credo che emerga anche in questo disco. Quest’album è per chi sceglie di essere vulnerabile, ma ha anche scoperto i propri limiti. È per le persone che stanno esplorando i propri confini, ma ancora cercano amore».
Da Rolling Stone US.