Nel bestseller di Taylor Jenkins Reid, Daisy Jones & The Six, storia di un gruppo rock immaginario degli anni Settanta che implose all’apice della sua fama, ci sono racconti contrastanti su come la band diventò nota come The Six prima che arrivasse la travagliata Daisy, ovvero il settimo membro. I musicisti sopravvissuti non sono d’accordo sui dettagli, ma tutti concordano sul fatto che all’epoca ci fossero sei persone nel gruppo.
Nell’adattamento di Prime Video, l’incarnazione pre-Daisy della band ha un membro in meno. Il nome arriva solo perché una sesta persona – Camila (Camila Morrone), moglie del frontman Billy (Sam Claflin) – è presente durante la sessione di brainstorming. Il bassista Eddie (Josh Whitehouse) sottolinea giustamente che le persone potrebbero confondersi. Ma il batterista Warren (Sebastian Chacon) sostiene che “The Five” suonerebbe come troppi altri gruppi, inclusi i Dave Clark Five e i Jackson 5. Quindi “The Six” sia. Esattamente come Eddie che fa i conti, per il pubblico potrebbe essere difficile guardare la serie tratta dal romanzo di Reid senza sentire che manchi qualcosa.
La miniserie in 10 episodi vanta alcune interpretazioni davvero notevoli – in particolare di Claflin e di Riley Keough, nei panni di Daisy – e, oltre a questo, altri aspetti molto positivi, per come intreccia le vite delle due metà del titolo. Daisy cresce a Los Angeles sentendosi irrimediabilmente sola nella casa dei suoi genitori ricchi ma poco amorevoli, e da adulta viene “usata” dagli uomini. Soltanto la cantante disco segretamente omosessuale Simone (Nabiyah Be) la vede davvero come una persona. Nel frattempo, Billy riunisce il fratello Graham (Will Harrison) e i suoi compagni di classe, Eddie e Warren, in una band che spera possa farli fuggire da Pittsburgh e da alcuni brutti ricordi di famiglia. Dopo che tutti i protagonisti – inclusa Karen (Suki Waterhouse), una tastierista inglese reclutata da Graham, innamorato di lei – hanno avuto problemi personali e professionali, il leggendario produttore discografico Teddy (Tom Wright) ha l’idea di inserire Daisy nel gruppo. Ed ecco la magia, insieme a tensione sessuale, discussioni, abuso di sostanze. Insomma, tutto il pacchetto.
Ci sono parecchi elementi che presi singolarmente sono promettenti e tutta la parte drama è piuttosto succosa. Ma Daisy Jones & The Six ha due problemi fondamentali, che supera solo a tratti. Il primo è che il formato della storia “raccontata dai protagonisti” del libro – con Billy, Daisy e gli altri che danno resoconti diversi della tumultuosa ascesa e caduta dei The Six – è un espediente irresistibile. Nel corso degli anni, siamo stati inondati da storie vere “raccontate” di rock classico e, in questo caso, il formato ti fa costantemente dubitare: a chi e a cosa credere? Billy era un maniaco del controllo egocentrico, che si sentiva minacciato dall’arrivo di Daisy, o Daisy era una drogata inaffidabile il cui comportamento irregolare richiedeva una mano più ferma? E anche se hanno ragione entrambi, quanto peso bisogna dare a un ricordo? È avvincente e imprevedibile, e la struttura impedisce a quella che altrimenti sarebbe una storia già sentita e risentita di cadere nel cliché.
La serie perde quell’effetto Rashomon (termine utilizzato in gergo per descrivere una situazione di cui le persone coinvolte danno interpretazioni o descrizioni contraddittorie, ndt). Ci sono interviste tratte da un documentario prodotto nel 1997, in cui occasionalmente si scontrano i ricordi di un componente della band con quelli di un altro, ma tutto il materiale degli anni Sessanta e Settanta è presentato come verità oggettiva, come sarebbe in un dramma privo di qualsiasi tipo di punto di vista. E anche se eliminiamo l’ambiguità, la serie è un pastiche piuttosto semplice di varie controversie tra band reali e immaginarie, con una dose particolarmente pesante di Fleetwood Mac dell’era Rumors. Daisy gira persino sul palco con una varietà di scialli di seta come Stevie Nicks, e il penultimo episodio si apre con Gold Dust Woman.
Il che ci porta all’altra questione centrale. Proprio come il libro invita chi legge a scegliere una versione della verità a cui credere, permette anche di immaginare come suonassero i The Six. E nella serie ovviamente non c’è questa opzione. A differenza degli Stillwater in Quasi famosi — ambientato all’incirca nello stesso periodo di tempo, e con la band che improvvisa anche singalong (Tiny Dancer di Elton John, Ooh La La dei Faces) per sciogliere momenti di grande tensione: dobbiamo credere che i The Six siano stati, per un certo periodo, la più grande band del mondo. E perché funzioni, le canzoni che scrivono e suonano devono essere all’altezza di quelle vere dalla metà alla fine degli anni Settanta. È un compito difficilissimo – anche That Thing You Do!, la migliore canzone mai scritta per una band immaginaria, arriva solo al numero sette delle classifiche di Billboard nel film di Tom Hanks (Music Graffiti, 1996, ndt) prima che i The Wonders si sciolgano – e i brani dei The Six non funzionano abbastanza.
Almeno, non tutti: alcuni sono davvero buoni, vedi le armonie vertiginose dei loro più grandi successi come Look at Us Now (da un team stellare di autori di canzoni tra cui Blake Mills, Jason Boesal, Stephony Smith, Johnathan Rice e Marcus Mumford) e Aurora (scritta da Mills, Chris Weisman, Cass McCombs e Matt Sweeney), che vi rimarrà in testa per un po’ dopo la visione. Ma molti altri sono puramente funzionali. E affiancati da una colonna sonora piena di pezzi reali – per non parlare dei titoli degli episodi che prendono il nome da brani come She’s Gone e Feels Like the First Time – anche Aurora suona, nella migliore delle ipotesi, come un deep cut dei Fleetwood Mac. Claflin e Keough sono incredibili quando si scambiano sguardi appassionati e si avvicinano allo stesso microfono (entrambi cantano nella serie), ma non possono fare molto di più per far dare corpo all’illusione del genio dei The Six
Quelle performance però spaccano, eccome. La Daisy del libro è così eterea e sfuggente che sembra impossibile immaginare che un’attrice possa renderla reale. Saggiamente, gli sceneggiatori di (500) giorni insieme Scott Neustadter e Michael H. Weber e il regista di The Spectacular Now James Ponsoldt non chiedono a Keough di provarci. Questa Daisy è distrutta, ma ancora riconoscibilmente umana e fragile. Keough ha una storia familiare che le ha insegnato fin troppo sulla tragedia del rock & roll (è la nipote di Elvis Presley), ha una luce che brilla negli occhi quando Daisy inizia a scontrarsi con Billy e un magnetismo da star, anche se le canzoni non sono necessariamente all’altezza. Claflin ha gli zigomi e la presenza scenica di un dio del rock degli anni Settanta, così come la vulnerabilità necessaria per impedire a Billy di essere insopportabile mentre approfitta della band e ferisce Camila con il vizio dell’alcol e l’attrazione per Daisy. Pure supporting come Wright, Waterhouse e Be fanno un ottimo lavoro interpretando personaggi che vengono costantemente sottovalutati dal mondo della musica.
Ma è nell’ultimo episodio, che mostra l’ultima esibizione della band in uno stadio di football di Chicago gremito – e i drammi che si svolgono sia sul palco che fuori –, che la miniserie offre davvero il livello di malinconica grandeur che continua a promettere. Billy non vuole Daisy intorno perché ha paura di perdere il controllo sia del gruppo che delle sue emozioni autodistruttive. Teddy, però, la vede come l’ingrediente segreto che può trasformare una band di medio livello come i The Six in una bomba. Anche se la versione Prime Video di Daisy Jones è decisamente guardabile, non trova mai l’ingrediente segreto per diventare davvero una hit.