Verso la fine di Songs of Surrender, gli U2 si lanciano negli accordi con cui s’apriva il singolo del 1980 I Will Follow. Non ci sono però la batteria, il basso e nemmeno la chitarra elettrica. E Bono canta parole nuove, che meglio s’adattano a un 62enne: “Ero di fuori quando hai detto, hai detto che avevi bisogno di me / Nello specchio un riflesso del ragazzo che non potrò mai essere / Un ragazzo che ha cercato con tutte le forze di essere un uomo / La madre gli lascia la mano / Un dono di dolore darà voce alla vita / Se te ne vai via / Io ti seguirò”.
È una delle 40 canzoni del repertorio degli U2 che vengono riarrangiate radicalmente e ridotte all’essenziale in Songs of Surrender, l’album che contiene mega-hit come With or Without You e Pride (In the Name of Love), ma anche pezzi minori come Stories for Boys, Red Hill Mining Town e If God Will Send His Angels. Accostabile in senso lato al libro di Bono, Surrender: 40 canzoni, una storia, il disco è nato da un’idea di The Edge, che ci ha lavorato in gran segreto per gran parte della pandemia insieme a collaboratori come Brian Eno, Daniel Lanois e Bob Ezrin, oltre ai suoi compagni di band.
Con The Edge, in collegamento Zoom dalla sua casa di Malibu, California, abbiamo parlato della creazione di Songs of Surrender, dell’imminente residency degli U2 all’MSG Sphere di Las Vegas, del fatto che il gruppo suonerà con l’olandese Bram van den Berg al posto del batterista Larry Mullen Jr. che si sta riprendendo da un infortunio alla schiena. E ancora, del prossimo album di canzoni chitarristiche, dell’esibizione acustica fatta a Kiev nel 2022, della spinosa questione dei prezzi dei biglietti dei concerti, di un possibile cofanetto dedicato a Pop e di un biopic sugli U2.
Come nasce Songs of Surrender?
Era un’idea che ci ronzava in testa da un po’ e il lockdown ci ha offerto l’opportunità di farlo, oltre al fatto che Bono stava per pubblicare un libro di 40 capitoli ognuno dedicato a una canzone. Mi sono detto: è il momento giusto, facciamolo. Se il risultato non ci fosse piaciuto, non avremmo dovuto per forza pubblicarlo, nessuno s’aspettava che lo facessimo. Non avevamo l’etichetta discografica che faceva pressioni, lo facevamo per noi e per i fan.
Considera anche che alcuni vecchie pezzi li abbiamo registrati quand’eravamo molto giovani. Bono, come cantante, non aveva ancora trovato la sua voce. Suonavamo con l’intensità necessaria a farsi notare in un club dove la metà delle persone non era lì per vedere noi, o in locali più grandi di quelli dove eravamo abituati a esibirci. Spesso le melodie che Bono cercava di cantare erano al limite della sua estensione vocale. Insomma, ci siamo detti: siamo cresciuti, anche la voce di Bono è maturata, è migliorato sul lato del controllo e delle capacità interpretative. Perché non tornare su queste canzoni?
In passato l’abbiamo già fatto con qualche nostro brano e alcune di queste riletture ridotte all’essenziale sono diventate emblematiche, tipo Staring at the Sun o più di recente Every Breaking Wave. Ci siamo chiesti: che cosa accadrebbe se suonassimo in modo diverso molti più pezzi, anche canzoni meno note? Ho lavorato per un po’ al pianoforte e con la chitarra acustica, ho iniziato a tirare fuori idee per rendermi conto di come sarebbe stato il suono. La mia voce ha un’estensione simile a quella di Bono, quindi ho cantato io e poi ho fatto sentire il risultato a Bono. Abbiamo capito che avevamo qualcosa di buono in mano durante la prima prova, quando Bono ha cantato su alcune di queste idee.
A Bono è piaciuto molto lavorare come abbiamo fatto, in modo informale. Veniva nella casa dove avevamo allestito una stanza per registrare, non era uno studio vero e proprio. Da subito le sue performance vocali sono state convincenti e fresche. Continuando a lavorarci, ho finito per creare 50 arrangiamenti nuovi (ride). Mi sono buttato a capofitto nel progetto.
Quando avete iniziato?
In pieno lockdown, all’inizio del 2021. Ci abbiamo lavorato a fasi alterne durante l’anno.
Sei sempre stato con Bono, quando cantava o alcune parti sono state fatte da remoto?
Direi che quasi tutto è stato fatto con noi due nella stessa stanza. A volte abbiamo approfittato del fatto che eravamo entrambi in Francia, così abbiamo fatto venire il nostro amico e collaboratore di lunga data (e l’ingegnere del suono, ndr) Declan Gaffney e il violoncellista Stjepan Hauser. Abbiamo lavorato con loro per quattro o cinque giorni. È così che Vertigo è cambiata: dalla versione con me alla chitarra acustica s’è trasformata in un a duello incredibile tra chitarra acustica e violoncello. E abbiamo chiesto a Hauser di suonare anche in Dirty Day, anche quella inizialmente la facevo con l’acustica. Alla fine ho eliminato buona parte della linea di acustica e l’ho incentrata sul violoncello.
Bono ed io abbiamo passato anche qualche giorno insieme. Abbiamo lavorato molto con Duncan Stewart, che è una specie di ingegnere del suono junior, ma anche un artista e con lui abbiamo fatto un paio di vere e proprie session d’incisione. Una è stata a Londra, l’altra a Los Angeles. La prima è servita a dare il via al tutto. Adam [Clayton] è arrivato e ha suonato benissimo il basso. Brian Eno è venuto a registrare alcune parti vocali.
A Los Angeles sono arrivati anche Daniel Lanois e Abe Laboriel, che è noto come batterista di Paul McCartney. Ha inciso dei cori ottimi insieme a me e Dan in I Still Haven’t Found What I’m Looking For. A quel punto avevamo coinvolto anche Bob Ezrin. Quelle session sono servite a portare avanti il progetto: abbiamo concluso gran parte del lavoro d’incisione e abbiamo dato corpo agli arrangiamenti.
Chi ha prodotto l’album?
Il produttore principale sono io. Anche Bob ha fatto il produttore. Pure Duncan e Declan hanno dei crediti per la produzione. Io ho guidato la carica, Bob ha fatto la parte della cavalleria.
A quanto pare la maggior parte degli strumenti li hai suonati tu.
Sì, però ci sono anche Adam e Larry: non in tutte le tracce, ma nella maggior parte ci sono. Larry ha suonato parti notevoli alle percussioni. Non voleva, o non era pronto a farlo, suonare la batteria completa. Così sono andato a scovare dei loop che aveva registrato in passato. In Get Out of Your Own Way c’è un suo loop di batteria incredibile di qualche tempo fa che aveva inciso per il gusto di farlo. Mi ha dato lo spunto da cui partire. Su The Fly abbiamo duellato con due bassi. Avevamo anche inciso una versione con la chitarra, ma non l’abbiamo usata, era troppo simile all’originale e non così entusiasmante. Abbiamo preferito ricominciare da zero. Io suono una parte alta e Adam una parte bassa. È stato divertente, una cosa che non avevamo mai fatto prima.
L’album è diviso in quattro sezioni e ognuna porta il nome di un componente della band. Qual è il significato?
Francamente, è stato fatto d’istinto. Senza elaborare troppo la cosa, ci siamo chiesti chi fosse fra noi il più adatto a rappresentare i gruppi di 10 canzoni. Non ci abbiamo lavorato su, neanche ricordo come ci siamo arrivati. L’abbiamo fatto via e-mail. «Vi piace?». E gli altri: «Ok, sono contento della mia selezione» (ride).
Mi piace il fatto che abbiate voluto recuperare non solo le hit, ma anche brani meno noti.
L’idea era recuperare alcuni pezzi meno conosciuti e che, forse, non sono stati apprezzati quanto gli altri, quindi cose come Dirty Day da Zooropa. Non era una scelta scontata per la raccolta, ma mi piace il suo potenziale e poi sentendo il risultato finale sono contento felice che l’abbiamo fatto. If God Will Send His Angels era un singolo tratto da Pop, ma non l’abbiamo praticamente mai suonata dal vivo. Non è granché nota alla maggior parte delle persone. L’ho sempre considerato un brano non sviluppato appieno, quindi è stato bello sedermi al pianoforte e… non dico ricominciare da capo, ma avere la possibilità di rielaborare le progressioni di accordi e trovare un modo diverso per accompagnare la melodia. Ora è un’altra canzone ed è davvero ben riuscita.
Nessun timore reverenziale, insomma. Non avete solo rielaborato melodie e arrangiamenti, ma a volte anche le parole sono cambiate. Alcune canzoni sono state rimaneggiate in maniera molto drastica.
Sì, è il caso ad esempio di Stories for Boys, dove abbiamo finito per usare la mia voce che avevo inciso come demo. È stata una revisione importante. La canzone originale è stata composta prima della registrazione del nostro primo album. Eravamo ragazzi di 18, 19 anni. In effetti eravamo ragazzi che scrivevano una canzone intitolata “Storie per ragazzi”. Ma ora ci guardiamo indietro: è passato del tempo e abbiamo più esperienza. Sembrava che quelle parole non funzionassero più, oggi, così abbiamo riscritto la canzone… non completamente, ma abbiamo assunto il punto di vista di noi che guardiamo indietro e vediamo quei ragazzi, raccontando chi eravamo e cosa stava succedendo in quel momento. Improvvisamente la canzone ha assunto una nuova valenza, moderna, contemporanea. Credo che se ci fossimo attenuti al testo originale non avremmo ottenuto questo risultato.
Diventa una specie di conversazione fra voi da adulti e voi da ragazzi: è una cosa abbastanza innovativa.
Già. È proprio questo che ci ha colpito, di tutto il progetto. Ci sono pochissime band che sarebbero in grado di fare quel che abbiamo fatto noi, perché sono pochissime le band che sono state in giro continuativamente per così tanto tempo e hanno un corpus di lavoro così vasto da cui attingere. Ci è sembrata una cosa interessante da fare e una nuova frontiera dal punto di vista creativo.
Avrete suonato Where the Streets Have No Name un milione di volte. Ma l’avete ricontestualizzata cambiato alcune parole. Adesso dice: “Ho bisogno di un po’ d’ombra o di un riparo in questo posto senz’acqua / Dove ogni rosa del deserto è una preghiera per la pioggia”.
Non c’è nemmeno più la chitarra, che meraviglia. Il punto per noi è che le canzoni hanno un’identità talmente forte che pur essendo reinterpretate in modo diverso non vengono snaturate e continuano a comunicare gli stessi sentimenti e le stesse idee. In apertura c’è un violoncello molto d’atmosfera suonato da Hauser. A metà del pezzo entro in scena io, col pianoforte elettrico. È uno dei cambiamenti più drastici a livello di struttura e intensità. È successo anche in City of Blinding Lights, che è molto diversa interpretata con questi strumenti e in questo modo.
Walk On era ispirata ad Aung San Suu Kyi che, diciamo così, non è esattamente stata all’altezza delle aspettative. Ora l’avete rielaborata e parlate di ciò che sta accadendo in Ucraina.
È il classico caso in cui gli eventi del mondo ti influenzano mentre incidi i dischi. Mentre scoppiava la guerra in Ucraina, Bono e io stavamo lavorando a un paio di brani e Walk On era uno di questi. Ovviamente visto che si doveva scegliere un tema attuale per la canzone, non si poteva fare altro che parlare di quel che sta accadendo in Ucraina. Ci ha colpito moltissimo che il Presidente Zelensky, l’uomo che ha unito il Paese per fronteggiare Putin, nella sua vita precedente fosse un attore e un comico. È il punto di partenza per il testo nuovo.
La cosa buffa è che, poco dopo, il suo capo di gabinetto ci ha fatto sapere che avrebbero voluto invitarci a suonare a Kiev. Circa una settimana dopo la loro richiesta, dato che la finestra utile era molto ridotta, Bono ed io siamo partiti in treno dalla Polonia. Abbiamo viaggiato di notte, attraversato l’Ucraina e arrivati a Kiev. Siamo arrivati la mattina dopo proprio nel momento in cui iniziavano a suonare le sirene antiaeree: è stato sconcertante. Siamo andati quasi direttamente in questa stazione della metropolitana dove avevano allestito un palchetto per esibirci. Abbiamo fatto sette o otto canzoni.
Volevamo coinvolgere un musicista locale e grazie a un amico abbiamo reperito il numero di questo cantante ucraino molto noto, Taras [Topolia]. Bono l’ha chiamato senza preavviso il giorno prima della partenza.Ha risposto al telefono, aveva il fiato corto. «Taras, sono Bono». «Ok, aspetta un attimo», ha risposto. Abbiamo scoperto che Taras, come tanti altri giovani ucraini, si era arruolato volontario nell’esercito e si trovava in prima linea quando l’abbiamo chiamato.
Abbiamo fatto una telefonata molto breve, dicendogli che saremmo andati a Kiev per esibirci e chiedendogli se gli andava di cantare con noi. Non eravamo sicuri che avrebbe potuto farlo. Ci ha risposto che se il suo superiore gli avesse dato il permesso, ci sarebbe stato. E infatti ci hanno poi comunicato che stava arrivando. Ci ha raggiunti per fare Stand by Me, alla fine del nostro piccolo set nella stazione della metropolitana. Indossava ancora l’uniforme: arrivava letteralmente dalla prima linea del fronte.
È stato un trip. Osservare la devastazione di alcuni quartieri di Kiev che erano stati occupati dai russi è stato angosciante. Parlare con alcune persone del posto che erano sopravvissute e vedere le fosse comuni dove era seppellito chi non ce l’aveva fatta… è stata dura da metabolizzare e davvero toccante. E poi questa strana collisione tra arte e realtà. Ma è una cosa che dimostra, ancora una volta, come le canzoni, in un certo senso, abbiano una vita propria se si ci si mette al loro servizio.
Nella migliore tradizione degli U2, chiudete l’album con 40.
Sì. Ci ha colpito il fatto che parte dell’opportunità di realizzare il progetto sia arrivata dal lockdown. Ci dava la possibilità di vedere cosa sarebbe rimasto se avessimo eliminato tutto, se avessimo spogliato la band, se l’avessimo riportata all’essenziale, che era un po’ quel che stavamo sperimentando tutti quanti durante il lockdown. Anche le nostre vite erano così.
Il libro di Bono era in lavorazione. Aveva deciso di chiamare ogni capitolo col titolo di una canzone e che ne avrebbe usati 40. Ci sono stati molti elementi che ci hanno portato a orientarci su questo formato. E poi avevamo una canzone intitolata One e una 40.
Com’è stato per te vedere qualche mese fa un concerto solista di Bono durante il tour promozionale per il libro? Non era mai successo prima.
Ero lì la sera della prima. E anche il giorno precedente, per la prova generale. È sempre una specie di corsa folle quella per arrivare alla prima, anche per gli U2. In questo caso, però, ero libero da ogni responsabilità, potevo essere semplicemente un amico che poteva dare un parare distaccato. Sono rimasto molto colpito dalla prova finale. Funzionava di brutto. E infatti lo spettacolo di apertura è andato alla grande. Mi sa che ero la persona più tranquilla alla prova generale (ride). Ho pensato che aveva fatto centro. Spesso mi fisso sui dettagli, in questo caso mi sono immedesimato totalmente e mi è davvero piaciuto.
La vostra prossima residency all’MSG Sphere di Las Vegas si chiama Achtung Baby Live. Suonerete l’album per intero?
È presto per dirlo, ma non ci va, né abbiamo bisogno, di sentirci obbligati a farlo. Penso che ci riserveremo la libertà di suonare le canzoni nell’ordine che ci sembra più giusto. Ovviamente, la cosa più bella di quel posto è la capacità di coniugare effetti coreografici straordinari con la resa audio. Ci sono molti aspetti da considerare. Penso che prenderemo una decisione definitiva quando saremo molto vicini agli spettacoli.
Ma lo show sarà incentrato su Achtung Baby, giusto?
Sì, sarà il punto focale, suoneremo tutti i pezzi.
Le scenografie richiameranno quelle dello Zoo TV Tour?
Troppo presto per dirlo. A un certo punto abbiamo pensato che quei video non avrebbero più avuto senso in questo contesto nuovo, perché è tutto diverso. All’epoca avevamo schermi relativamente piccoli. Ora invece abbiamo più margine di manovra, più libertà. È possibile che ci ispireremo allo Zoo TV, ma non sarà un revival dello Zoo TV.
Ci sarà Bram van den Berg al posto di Larry. Come l’avete trovato?
L’abbiamo conosciuto tramite il nostro amico Martin Garrix. Ci ha colpito molto il suo modo di suonare e il tipo di persona che è. È una vera potenza, ma è anche un simpaticone (ride). È piacevole passare il tempo con lui e, ovviamente, è una cosa fondamentale per noi, dato che gli U2 si fondano su amicizie e legami profondi. È il criterio ch prediligiamo. Abbiamo lavorato un po’ insieme per vedere se le cose potevano funzionare. Sarà fantastico anche se Larry ci mancherà moltissimo. Ci dispiace molto che non possa essere lì, sullo sgabello della batteria. Tutti hanno il diritto di darsi malati. Dopo 40 anni di lavoro insieme, è la prima volta che succede. È incredibile che non ci sia mai capitato prima, in passato.
Inizierete a settembre?
L’agenda è ancora da definire perché stanno ancora costruendo l’edificio. Di sicuro sarà in autunno e non prima di settembre. Ma potrebbe anche essere più avanti. Stiamo aspettando di sapere quando sarà pronto.
Sapete già quanti show terrete allo Sphere o, più o meno, quanto durerà la residency?
Non lo sappiamo di preciso. Speriamo di finire prima di Natale. L’importante è questo. È un locale grande, non dimentichiamolo. Ha una capacità di quasi 20.000 persone, a seconda della configurazione. Non sarà una residency a Las Vegas di quelle tradizionali. No. E andrà avanti per poco. Non lo so. Si sta ancora discutendo sulle dimensioni della sala. Faremo un annuncio molto presto, spero.
Sarà bellio risentire Love Is Blindness. È passato un sacco di tempo.
Sì. È una delle mie preferite.
Negli ultimi mesi sono nate molte polemiche intorno al mondo del ticketing, soprattutto per via dei prezzi alti, le commissioni elevate, il dynamic pricing e i bot che si aggiudicano i posti migliori. Tu cosa ne pensi?
Noi vogliamo essere al servizio dei nostri fan. Questo è il punto. Il rapporto con i fan è fondamentale. È una cosa complicata, ma qualunque sia il modo in cui cercheremo di affrontare la questione il nostro obiettivo sarà quello di mettere i fan al primo posto.
Bono di recente ha detto che stavate incidendo un «album rumoroso, pieno di chitarre, intransigente e irragionevole». A che punto siete?
Ci siamo dati da fare.
Parallelamente a Songs of Surrender abbiamo lavorato a molta nuova musica. Già prima del lockdown avevamo un sacco di materiale interessante e alcuni di quei pezzi sono quasi finiti. Dobbiamo solo scegliere e c’è l’imbarazzo della scelta per il nuovo materiale. Al momento però ci stiamo concentrando su Songs of Surrender e sullo Sphere.
Quando Bono dice che sarà un album “chitarroso”: cosa dobbiamo aspettarci?
Personalmente, mi pare che la chitarra, come strumento, quindi non in termini di piacere ed essere suonata da tanti in tutto il mondo (professionisti e non), ma a livello di presenza nelle classifiche della musica in streaming, latiti da un po’. Ma sento che sta rinascendo l’interesse verso la chitarra. Lo sento istintivamente. Sta iniziando a crescere. Sento che il momento è giusto. Penso che sarebbe meraviglioso e ci piacerebbe molto fare della musica più incentrata sulla chitarra. Questa è l’idea. Ciò non significa che ci trasformeremo negli AC/DC, ma troveremo un modo per usare lo strumento nel modo più nuovo possibile. È ancora il mio primo amore.
Hai idea di quando i fan potranno ascoltare questi pezzi nuovi? L’anno prossimo?
Spero prima possibile. Perché io sono fatto così. E credo che anche Bono sia della stessa pasta. Noi siamo ansiosi e ci piacerebbe pubblicarli, ma ci sono molti aspetti da considerare.
Pensi che Larry sarà sul palco il prossimo anno?
Appena sarà pronto a unirsi nuovamente a noi, ci piacerebbe molto vederlo seduto dietro alla batteria. Dipendiamo dagli aggiornamenti che ci dà. Aspettiamo sempre con ansia di conoscere i suoi progressi e di sapere come vanno le cose.
Avete pubblicato dei box di The Unforgettable Fire, The Joshua Tree, Achtung Baby e All That You Can’t Leave Behind. Ma c’è un’ampia fetta di fan degli U2 che è davvero interessata a Pop. Farete mai un box dedicato a quel periodo?
Ci sono certi dischi che sembrano rinascere quando la gente li riscopre. Il contesto in cui è stato pubblicato e il grande tour che ne è seguito hanno generato grande attenzione e stress. Ma adesso, che è passato del tempo, l’album sembra aver retto molto bene. Mi piacerebbe fare qualcosa per celebrarlo. Il bello di lavorare a un progetto degli U2 è questo: se si fa un repackaging o una riedizione, c’è tantissimo materiale inedito. Quindi sì. Al momento giusto, immagino che accadrà.
Ho quasi finito. Hai mai pensato di scrivere la tua autobiografia, come ha fatto Bono?
Mi considero ancora troppo giovane per pensare a un’autobiografia. Forse quando sarò più vecchio. È come se non sapessi ancora cosa farò da grande.
Per concludere: pensi che potrebbe uscire un biopic sugli U2, in futuro?
Penso proprio di sì. Perché no? Di recente ce ne sono stati alcuni grandiosi. Dovrà succedere al momento giusto, con la squadra giusta, ma non lo escluderei affatto.
Da Rolling Stone US.