Fabio Balsamo, cognomen omen. Quando l’ho conosciuto – il suo tono calmo, pacato, le parole che escono senza sforzo ma lentamente, come se ciascuna fosse stata ponderata a lungo prima di lasciarla uscire – ha sortito su di me un naturale effetto lenitivo e calmante. Invece di fare il life coach o l’instagrammer motivazionale, Fabio fa l’attore (bravissimo). Dopo una classica gavetta fatta di spettacoli in teatri semideserti, di guadagni nulli, di fatica, di fame e passione, inizia a farsi notare con una serie di performance che mettono il luce il suo talento naturale e la sua intensità, ma la svolta vera arriva quando la sua faccia da caratterista di livello finisce in un video dei The Jackal, Gli effetti di Gomorra sulla gente #1: Fabio è il malcapitato ragazzo che consegna le pizze a un Ciro che sta vivendo un transfert con Genny Savastano.
Da quel momento entra in pianta stabile nel collettivo napoletano, e parallelamente esordisce sul grande schermo con Babbo Natale non viene da Nord, per la regia di Maurizio Casagrande. Diventa una presenza fissa nei video di YouTube dei The Jackal, dove il suo cinismo cosmico funge da perfetto contraltare al trasformismo virtuoso di Ciro e allo stralunato surrealismo di Fru, e intanto si intensifica la sua attività di attore per il cinema. Non manca molto perché anche la televisione si accorga di lui: nel 2020 recita in un episodio di Don Matteo, l’anno seguente è tra i protagonisti della serie Netflix Generazione 56k, una coproduzione Cattleya e The Jackal. Nel 2022 arriva la consacrazione con Celebrity Hunted per Prime Video, Name That Tune per TV8 (entrambi con Ciro Priello) e soprattutto un tris di fortunate pellicole uscite tutte a brevissima distanza: (Im)perfetti criminali, Falla girare e Beata te, dove interpreta nientemeno che l’Arcangelo Gabriele accanto alla “immacolata” Serena Rossi. E così arriviamo al presente, con la partecipazione a Tre di troppo di Fabio de Luigi e soprattutto alla terza edizione di LOL, in cui si mette in gioco assieme a parecchi grandi protagonisti della comicità italiana.
Ho lavorato con Fabio sia su Celebrity Hunted che su LOL, e non ho potuto fare a meno di notare l’entusiasmo, la cura e l’impegno con cui il giovane (ha solo 34 anni, anche se il suo volto barbuto ne dimostra qualcuno in più) affronta ogni battuta, che sia di Shakespeare o un doppiosenso gastrointestinale di Alvaro Vitali: un indubbio retaggio della sua intensa attività teatrale. Altre cose che ho notato: un’empatia fuori dal comune, una grande sensibilità e un senso comico raro e prezioso. Dopo ogni telefonata con lui, la sensazione è la stessa che si prova dopo aver vuotato il sacco a un vecchio amico che non sentivi da un po’ ma che ti conosce bene. E non è stato diverso nemmeno dopo questa intervista.
Fabio, partiamo dai tuoi inizi. L’amore per il teatro quando è arrivato?
Abbastanza presto, a 14 anni. La recitazione mi ha un po’ salvato in un periodo abbastanza difficile della mia vita, ho trovato proprio nel teatro un canale dove poter essere me stesso e dove sentirmi apprezzato. Peraltro a 14 anni il mio era un teatro amatoriale, nella parrocchia locale. La prima cosa che ho fatto sono stati gli sketch della Smorfia, in particolare L’annunciazione, dove avevo la parte di Troisi. Con me c’erano altri ragazzi con cui facevamo questi sketch, raccoglievamo fondi per un’associazione di volontariato. Questi sono stati i miei inizi.
Ma c’era qualche altro membro della tua famiglia con la passione per il palcoscenico?
La cosa divertente è che io ho un fratello professore universitario, un altro ingegnere meccanico gestionale, papà operaio e mamma casalinga. Ti lascio immaginare come reagirono quando dissi loro: “Voglio fare l’attore”. Fino all’anno scorso mio padre mi chiedeva “Sì ma t’ pag’no, quann fai sticcose?”. Non è stato facile fargli capire che era la mia professione. Ha iniziato a convincersi quando ha iniziato a vedermi in tv, perché il successo su YouTube coi The Jackal i miei non lo coglievano tantissimo. È stata la mia partecipazione a Stasera tutto è possibile, Don Matteo e Sirene, in cui interpretavo un tassista omosessuale. Non hanno mai ostacolato il mio percorso, ma facevano un po’ fatica a comprenderlo.
Mi hai ricordato mio padre, che quando tornavo a casa dai miei primi programmi televisivi mi chiedeva con una punta di disprezzo: “Ma quando te lo trovi un posto fisso?”
Tu pensa a quando tornavo a casa io dopo aver fatto il clown da strada, addormentandomi col trucco ancora in faccia… la sofferenza di quest’immagine!
Parlami ancora della tua gavetta…
Dopo gli spettacoli in parrocchia ho iniziato a fare piccoli corsi di recitazione in provincia di Napoli, fino a quando ho iniziato l’Accademia di recitazione, la vecchia Università Popolare dello Spettacolo. A quel punto, per pagarmi le spesse di iscrizione, ho fatto il magazziniere in farmacia, il gelataio, il commesso la mattina e la sera, dopo l’università; e intanto preparavo spettacoli amatoriali per fare esperienza sul palcoscenico. A 22 anni mi sono diplomato in Arte drammatica e poi da lì è stato tutto clownerie, con un periodo in Francia e tanti, tantissimi teatri off, fino a 28-29 anni, quando è arrivato il primo contratto “fisso” coi The Jackal.
Cioè quando hai fatto Gli effetti di Gomorra sulla gente?
No no, sette anni dopo! Quello tra me e i The Jackal è stato un matrimonio lungo da organizzare: nel frattempo ho fatto l’animatore a Napoli, ho fatto feste per bambini e anche in qualche villaggio, anche se avevo un diploma in recitazione. Mi ero aperto anche una mia piccola agenzia.
L’animatore alle feste per bambini è un lavoro che ha fatto anche l’amico Max Angioni, e me ne ha sempre parlato come del suo personale Vietnam. Confermi?
Si, è una palestra incredibile perché per mantenere l’attenzione di venti-trenta bambini di 5 anni su di te, bambini che non hanno assolutamente voglia di ascoltarti, ti costringi a sviluppare tecniche per tenere alto il ritmo; ti fa lavorare sull’autoironia e poi, alle feste miste in cui ci sono bambini di 7 anni e ragazzi di 12, di skippare continuamente linguaggio. Tutto ciò ha esercitato enormemente la mia duttilità, senza contare che la mattina mi aspettava il mio lavoro di magazziniere, un registro totalmente diverso.
C’è stato mai un momento in cui hai pensato di mollare tutto per dedicarti a una professione, diciamo, “normale”?
Tantissime volte, quando per esempio preparavo spettacoli per mesi e mesi portando in scena Pirandello, Ibsen, Shakespeare e dopo una settimana di teatro mi ritrovavo in tasca 20 euro. Li guadagnavo in tre ore di animazione per una festa. Dopo l’ennesima nottata sveglio a fantasticare su un futuro che non arrivava, pensai di iscrivermi a una facoltà universitaria breve, a un corso di tecnico radiografico per esempio: erano tre anni e ti permetteva di inserirti velocemente nel mondo del lavoro. Poi però sono arrivate le prime chiamate dai The Jackal, che mi fecero capire che forse forse qualcosina si stava aprendo. Ma la sera avevo sempre le mie feste coi bambini. Alle feste tutti gli invitati iniziavano a farsi le foto con “quello degli Effetti di Gomorra”, ma a fine serata mi aspettavano sempre i miei 20 euro.
Parliamo della tua prima volta coi The Jackal.
Sette-otto anni fa ero disperato. Ero pronto a sfruttare ogni possibilità, ogni palco che mi desse uno spazio, anche internet, che per chi viene dal teatro, dalle assi di legno, è il nemico. Vidi un video di Ciro in cui diceva di cercare attori e feci un provino. Prima di andarci me li studiai un po’: vidi la loro prima serie Lost in Google e, anche se venivamo da mondi diversissimi, restai colpito dal loro grande livello tecnico. Mi colpirono molto la loro padronanza del mezzo e il loro essere napoletani in modo differente. Non cadevano nello stereotipo classico. Io sognavo di diventare un attore con un percorso internazionale, di essere uno di quegli attori che parlano anche inglese e che lavorano all’estero, e il loro modo di fare mi piacque tantissimo. Al provino Francesco Capaldo aka Francesco Ebbasta, il direttore artistico della The Jackal, mi fece i complimenti per la mia dizione: avevo appena fatto tre esami di dizione da 30 e lode, ho ancora il libretto. Da lì in poi non mi avrebbe più fatto parlare in italiano, secondo lui il mio modo di esprimermi in napoletano era venti volte più potente. Il giorno dopo mi chiamarono per fare Spin Doctor, un piccolo format durante Gli sgommati per Sky Uno. Io ero lo spin doctor di Bersani, e anche per quel lavoro presi 20 euro.
E lì inizia a delinearsi una delle tue incarnazioni più note, quella del sottomesso poco carismatico e nevrotico…
Sì, vero. Poi i The Jackal hanno iniziato a chiamarmi ogni tanto, fino al famigerato video degli Effetti. Nemmeno loro si aspettavano un successo del genere. Da un giorno all’altro mi trovai il telefono intasato di messaggi, tutti che elogiavano quello che a teatro avevo sempre fatto: piani d’ascolto, riempire i silenzi, cambiare registro, ma che in quel contesto parevano cose straordinarie. Ricordo la situazione surreale di essere diventato famoso su YouTube ma di continuare a fare l’animatore alle feste per i bambini. E l’avrei fatto ancora per tanti anni a seguire.
E quand’è che i rapporti coi The Jackal si sono intensificati?
Il primo a credere un po’ in me dopo Gli effetti fu Maurizio Casagrande, che mi volle per il suo film. Lavorai con lui anche a teatro. Poi la The Jackal mi richiamò per il suo film Addio fottuti musi verdi, e per l’occasione mi feci crescere la barba: l’ispirazione me l’aveva data Zach Galifianakis in Una notte da leoni. Dopo le riprese del film, l’allora manager dei The Jackal Vincenzo Piscopo mi fece la fatidica domanda: “Ma perché non fai parte della The Jackal? Cioè a me sembra una follia che tu non ci sia…”. Risposi “sì” dopo mezzo secondo. Da allora non mi hanno fatto più togliere la barba. Sono molto grato a tutti gli anni di teatro off e ai palchi in periferia che mi hanno forgiato, mi hanno imposto una professionalità, una struttura. Oggi sembra tutto facile, basta un bel video per fare il salto, ma non è così.
Quello che mi ha colpito lavorando con te è la cura che metti anche nella più piccola, estemporanea e forse insignificante battuta.
Questo è il teatro, che impone perfezionismo. Anche una piccola parte viene provata per mesi. Per questo l’idea di improvvisare senza provare a me pesa molto.
E qui arriviamo alla tua esperienza a LOL.
Non è stato semplice, soprattutto all’inizio. Io non mi sono mai sentito un comico: non ho pezzi, non ho gag, non ho personaggi. La mia comicità è soprattutto di reazione, è legata al contesto, introspettiva, di situazione. Ho bisogno che mi succeda qualcosa. Volevo anche ci fosse una coerenza col mio percorso passato. Però devo dire che in fase preparatoria ho lavorato benissimo con te, con Federica Riva (altra autrice del programma, nda) e anche con gli autori interni dei The Jackal. Io sono principalmente un interprete, ho pensato di portare un personaggio. Il mio personaggio a LOL è quello di un attore comico che non ha per niente voglia di incarnare i classici stereotipi napoletani ma poi finisce per cascarci dentro; faccio come molti attori, che cercano di allontanarsene ma poi sono anche quello, la napoletanità è parte di loro. Comunque questa stagione di LOL per me ha recuperato un senso di gioco collettivo, di “replicabilità” anche a casa. Tutti hanno attaccato tutti, abbiamo cercato di divertirci ma mantenendo la spontaneità. C’era poca competitività. Io non sono caratterialmente facile alla risata, ma c’erano alcuni comici che stimo tantissimo e ho avuto difficoltà con quasi tutti: Luca e Paolo che ti attaccano in coppia, Paolo Cevoli, Herbert Ballerina. Il più temibile è stato forse Nino Frassica, lui spiazza continuamente il tuo cervello. Il cervello con lui diventai inutile, Nino è imprevedibile. Con molti di loro sono cresciuto: li guardavo in tv appena tornato da scuola. Per me LOL è stato un parco giochi dove me la sono giocata da kamikaze.
Direi che te la sei giocata benissimo. Parlando di personaggio che vuole fuggire dagli stereotipi, come vivi il tuo rapporto con Napoli?
Io penso che Napoli sia una benzina molto forte. Napoli ha dei punti fermi molto forti: la pizza, la musica, la teatralità, il tragicomico. Ma un individuo complesso e articolato non vuole mai restare confinato in dei cliché, vuole essere anche altro. E bisogna lottare per dimostrare l’altro. Io nasco come attore drammatico, per esempio, ma la mia comicità la gente la conosce, ce l’ho intrinseca. Per far venire fuori il mio lato drammatico so che dovrò lottare.
Qual è l’emozione più difficile da trasferire al pubblico, secondo te?
Da interprete, la leggerezza. Perché secondo me di fondo nessuno ce l’ha. Nelle vite di tutti ci sono momenti pesanti e difficili, anche se oggi viviamo in un periodo di dilagante superficialità. La gente non ha voglia di affezionarsi a un prodotto. Prendo in prestito le parole di Servillo dicendo che manca quel pezzo necessario alla fruizione di un’opera. Oggi il pubblico è bombardato di contenuti nuovi, troppi, e alla gente manca la forza, il tempo, la volontà di approfondire. Le logiche del web, quelle per cui il messaggio dev’essere chiaro e breve, sono esattamente il contrario del teatro da cui vengo. E secondo me anche la comicità richiede un pensiero molto profondo, almeno quella che voglio fare io. La comicità che veicola anche un messaggio importante.
Tu però sembri muoverti con agio su ogni medium, che sia quello cinematografico, Instagram, una serie…
Ti ringrazio, ma in realtà il mio rapporto con questi mezzi è sempre lo stesso: io mi concentro solo sulla recitazione, su cosa posso fare per renderla convincente e per rendere il mio percorso coerente. Io credo nel lavoro, Alessa’, che sia quello di cameriere, di magazziniere, di attore, di youtuber. Io mi accosto a ogni mezzo nello stesso modo: dedicandoci risorse ed energie. Solo così potrò apprezzare davvero quello che faccio.
Come vivi la popolarità?
In modo molto distaccato, fin dall’inizio. Sono contento perché popolarità significa persone che apprezzano il tuo lavoro, calore, affetto e opportunità lavorative. Però la popolarità non ha mai cambiato il rapporto con Fabio.
C’è qualcosa che vorresti fare che non hai ancora fatto?
Sicuramente esprimere la mia natura di attore drammatico. Ho uno spettro molto ampio di registri seriosi e mi piacerebbe farlo conoscere. Mi piacerebbe fare anche un personaggio cattivo. C’è un personaggio a cui sono particolarmente affezionato, quello di un tetraplegico, su cui ho lavorato mesi: c’è un video su YouTube, l’ho fatto per una sezione d’esame di laurea ma non ho mai avuto occasione di portarlo in scena come si deve. In Italia si tende un po’ a etichettare, ma io vorrei annullare la distanza che c’è tra attore comico e drammatico: l’attore è attore, dev’essere credibile nel contesto dove si esprime, dev’essere come l’acqua, dipende dal recipiente dove lo metti.
Mi hai fatto venire in mente Steve Carell, uno dei miei miti totali, quando ha fatto Foxcatcher ed è stato candidato giustamente all’Oscar. Semplicemente incredibile.
Ma pensa anche a Robin Williams in Insomnia con Al Pacino. Mi piacerebbe che in italia ci fosse anche un po’ più di coraggio nel capire la forza comunicativa che ha un interprete al di là dei suoi ruoli abituali. Un grande attore è un grande attore: uno che è forte al punto da farti ridere secondo me è anche in grado di commuoverti o atterrirti. Io credo di avere queste capacità dentro di me, e spero di dimostrarlo. Poi ti dico che a le responsabilità mi gasano. Un ruolo importante non mi ha mai spaventato.
Parlando di cinema, nell’ultimo anno hai recitato in moltissimi film con ottimi riscontri.
Be’, innanzitutto i ruoli da spalla non sono facili da trovare: i caratteristi come me devono sapere ascoltare, devono lavorare in levare. La maggior parte degli attori lavora in battere, tu che fai la spalla devi essere come un basso, non puoi andare sulla stessa linea melodica della voce. Io credo molto nelle pause, nei silenzi. Prendi Ciro, che ha un insieme di skill straordinarie: con lui io lavoro di sottrazione, vado all’essenziale. In questo senso, forse, mi sono ritagliato uno spazio e mi chiamano perché ho queste caratteristiche. E poi, io amo lavorare.
Parlami del tuo rapporto con Ciro.
È speciale. Siamo agli antipodi ma riusciamo a coesistere: lui è la gioia, il divertimento, io l’apatia e il cinismo. Siamo fratelli.
Chiudiamo tornando a LOL: sei contento?
Moltissimo. All’inizio avevo paura, è stato un corteggiamento lungo, mi spaventava perché temevo non fosse il contesto giusto per me, mi sentivo inadeguato al programma. Ma lavorando bene abbiamo trovato una giusta linea. È spendendo tempo, amore ed energie in qualcosa che dà a quella cosa il giusto valore, e vale per tutto: anche, e soprattutto, nei rapporti umani. Nella vita.