Le grandi dive – sì, le divine – nell’età dell’oro del cinema non avevano parentele con la realtà. Non era gente, come si dice, che potevi incontrare per strada. Erano uno strumento per l’identificazione e per il sogno. Il cinema di quel tempo favoriva questo transfert. L’evoluzione naturale generale, di ruolo e di immagine, sarebbe stata verso il reale. Una sintesi efficace può riguardare la guerra, con tutto ciò che aveva rappresentato, e con tutti quei figli d’America che non erano tornati dall’Europa e dal Pacifico. E così c’era minor voglia di mélo, e l’happy end non era più obbligatorio. Regine come Dietrich e Garbo, che identificano la prima grande generazione di spettacolo, avrebbero certo trovato cittadinanza nel cinema dei decenni successivi, ma sarebbero state derubricate semplicemente a grandi attrici e a esseri (quasi) umani.
Anche la generazione successiva, che identifico con Audrey, Marilyn e Grace, continuava a ospitare le divine intoccabili, seppure con qualche piccolo segnale di appartenenza al normale genere umano. Certo, lo star system ci sarebbe sempre stato, ma sarebbe accaduto sempre più spesso che una spettatrice seduta in platea possedesse la stessa avvenenza, o magari maggiore avvenenza, del modello sullo schermo. Un fatto grave, per quel cinema.
Un’attrice che raccolse il testimone delle divine citate sopra, mettendoci un plusvalore anche culturale, è certamente Jane Fonda. Brava, bella, intelligente. Era la prima: parlo di ruoli, naturalmente. Jane è nata in un anno che sembra un sortilegio, il 1937. Suoi coetanei sono: Dustin Hoffman, Robert Redford, Jack Nicholson, Warren Beatty, Anthony Hopkins. Gli Oscar sono caduti a pioggia su questa gente. Icona figlia d’icona, Jane ha portato nel cinema contenuti senza precedenti, il dolore vero, il sociale, la presa di coscienza, una militanza allora sconosciuta. E naturalmente una bellezza tanto strepitosa quanto normale, era diva e donna, e lo è ancora. E di questa attitudine possiede la primogenitura e comunque, anche se poi ha avuto delle adepte, Jane rimane un unicum.
Ha fatto sorridere in A piedi nudi nel parco, ha eccitato in Barbarella, era prostituta – e nel 1970 non era facile – in Una squillo per l’ispettore Klute, con Oscar da protagonista. In Giulia ha dato corpo e volto alla grande scrittrice Lillian Hellman. In Tornando a casa – altro Oscar da protagonista – è la compagna del reduce dal Vietnam Jon Voight. Uno dei primi film che inquadrarono in termini disperatamente reali quella guerra. E siamo solo alla punta dell’iceberg. Jane è da sempre in prima linea nei pronunciamenti per i diritti civili, e in quelli pacifisti. È una grande liberal, durante le campagne per le elezioni presidenziali è tradizionalmente schierata col candidato democratico. Audrey e Marilyn, e neppure le “prime due” (cioè Greta e Marlene), erano compatibili con quell’impegno. Vederle in testa a un corteo per i diritti di qualcuno sarebbe stato un assurdo estetico, quantomeno. Anche se poi la Hepburn, nel privato, ha assunto iniziative importanti, nobili.
La prevalenza pressoché assoluta delle grandi produzioni americane privilegia naturalmente i protagonisti autoctoni. E così i grandi modelli continuano a essere quelli. Dicevo di adepti. La generazione successiva a quella di Jane Fonda ne presenta tre. Sono, fra i molti, i nomi prevalenti, coloro che hanno raccolto la definizione riferita a Jane detta sopra: bellissime e normali. Sono Julia Roberts, Nicole Kidman e Meg Ryan. La prima ha saputo esprimersi in molti ruoli. La “escort” di Pretty Woman ha creato un precedente che fa parte della memoria del cinema, con Erin Brockovich si è impegnata in un ruolo alla Fonda: era accorata e instancabile, difendeva i deboli; e ha vinto l’Oscar.
Nicole Kidman ha dovuto affrontare la sua troppa bellezza. Si è fatta legittimare dal gran maestro Kubrick in Eyes Wide Shut, poi si è imbruttita per il ruolo di Virginia Woolf in The Hours. L’applicazione dolorosa le è valsa l’Oscar. Meg Ryan ha firmato, con Harry, ti presento Sally…, un’altra parte alla Pretty Woman, di quelle che creano un precedente al quale ci si riferirà sempre. Il ruolo della libraia in C’è posta per te è la sintesi dei suoi numerosi registri di artista. Eleganza, grinta, “verità” e naturalmente appeal appartengono a queste grandi attrici che hanno caratterizzato, e continuano a farlo, un’epoca. Come hanno fatto anche altre, ma… non come loro.
Una citazione d’onore non può non appartenere a Meryl Streep, a sua volta un unicum. Attrice capace di segnare tutte le sue stagioni, di adeguarsi nei ruoli a tutte le età. È stata la madre tormentata che abbandona il figlio in Kramer contro Kramer, con Oscar, ancora la madre ebrea costretta a decidere la morte di uno dei suoi figli nella Scelta di Sophie (altro Oscar), la romantica e dolente scrittrice Karen Blixen in La mia Africa; e poi la madre di famiglia che vive un amore profondo e accorato, una trasgressione di quattro giorni con Clint Eastwood, nei Ponti di Madison County; e ancora la durissima operatrice di moda nel Diavolo veste Prada; infine la scatenata antica figlia dei fiori che canta e balla in Mamma Mia! Meryl è stata la più brava di tutte, senza essere bella. Non è stato davvero facile.
Un segnale è stato lasciato da attrici che, invece, erano belle, ed erano qualcosa di più. Kim Basinger e Sharon Stone nel tempo sono diventate ottime professioniste, ma il loro segno è stato un altro. È stato il sesso, uno status suggestivo e prestigioso, ma comunque un limite. Fra le ultime arrivate faccio alcuni nomi. Mi limito a quelli, in attesa che il tempo e il cinema scremino l’essenziale. Angelina Jolie si è già costruita un buon piedistallo, sa fare tutto, dalla virtuale Lara Croft dei videogiochi alla madre disperata in Changeling. È plastilina preziosa nelle mani dei registi, ma… non è una regina. Dal grande libro, dai molti cast, estraggo Scarlett Johansson, Keira Knightley, Penélope Cruz, Anne Hathaway.
Ma il cinema contemporaneo, in un panorama certo vasto, vede due donne dominanti. Belle, complete, diverse. Titolari di quel “quanto in più” che non è definibile. La prima è Cate Blanchett, australiana, classe 1969, perfetta in ogni ruolo, fascino esclusivo e maturo. La Blanchett ha ottenuto due Oscar: non protagonista in The Aviator di Scorsese e protagonista in Blue Jasmine di Allen. Inoltre presenta un endorsement potente: Giorgio Armani l’ha scelta come testimonial del suo marchio. Ha detto: “Cate rappresenta la donna per la quale io creo”.
La seconda è Emma Stone, classe 1988. Ha vinto un Oscar, da protagonista e prima dei trent’anni, per la sua performance in La La Land. Esercizio unico e completo di attrice, cantante e ballerina, capace di evocare la strepitosa stagione del musical degli anni Cinquanta. Le appartiene un talento, uno charme e una grazia che non trova riscontro nel movimento del cinema di adesso. Sarà lei a identificare un’epoca. Come le divine citate sopra.