Pochi giorni fa ricorreva il dodicesimo anniversario del triplice disastro che nel 2011 colpì la regione di Fukushima, assieme a quelle di Iwate e Miyagi. Nel giro di pochi minuti, la costa nord-orientale del Giappone soffrì il terremoto più potente mai registrato nella storia del paese e uno tsunami con onde alte fino a circa 40 metri che assieme provocarono la morte di oltre 19.700 persone.
Tutt’oggi secondo il calcolo della polizia giapponese le persone disperse sono più di 2500, i cui corpi non sono mai stati ritrovati.
Ma il disastro con le conseguenze a più lungo termine fu quello che avvenne nei giorni successivi, alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Onde di 13-14 metri si abbatterono sulla centrale, danneggiandola pesantemente e causando il rilascio di radiazioni nell’atmosfera. Si è trattato del più grave incidente nucleare mai avvenuto dopo quello di Chernobyl, a seguito del quale le autorità giapponesi hanno provveduto a evacuare un numero sempre crescente di persone residenti nelle vicinanze della centrale per sottrarle al rischio delle radiazioni.
Secondo i dati del governo giapponese il numero complessivo di sfollati a causa del triplice disastro del 2011 è stato di 470mila persone, costrette ad abbandonare la propria abitazione.
La gran parte di loro è potuta ritornare negli anni seguenti, soprattutto tra coloro la cui casa era stata danneggiata o distrutta dal terremoto o dallo tsunami. Per molti tra i circa 110mila sfollati che sono stati allontanati dai loro villaggi per evitare la contaminazione, però, la situazione è molto diversa ancora oggi e una zona costiera pari al 2,6% dell’intera regione di Fukushima è tutt’ora sotto ordine di evacuazione.
Sono 30.884 gli sfollati che nel febbraio 2023 non possono ancora ritornare alle proprie case.
Il 90% di questi provengono dalla regione di Fukushima, dove più forti sono i timori riguardo l’esposizione alla centrale nucleare. In alcune municipalità della regione infatti i livelli di radiazioni sono ancora troppo alti perché la popolazione possa ritornarci. Negli ultimi anni gli sforzi per decontaminare la regione hanno fatto diversi progressi e oggi molte zone sono di nuovo abitabili secondo le autorità giapponesi. Ma le prospettive sono tutt’altro che rosee e i numeri ufficiali nascondono una parte del problema.
Lo scorso anno il governo giapponese ha revocato l’ordine di evacuazione in alcune zone di tre delle municipalità di Fukushima che erano state colpite nel 2011. In termini pratici ciò significa che i residenti di queste zone, sfollati da oltre un decennio in altre parti del paese, ora possono ritornare alle proprie case.
Prossimamente altre zone dovrebbero riaprire, ma la prospettiva non solleva molto entusiasmo tra le migliaia di persone che ancora sono sfollate. Un sondaggio effettuato dall’Agenzia per la ricostruzione nel 2021 ha rilevato che tra di loro solo l’11,3% è intenzionato a tornare, mentre il 60,5% ha già preso la decisione di non tornare. Molti hanno trovato un nuovo lavoro e si sono rifatti una vita in altre parti del Giappone, mentre tanti dei più giovani erano ancora piccoli quando la catastrofe nucleare li ha obbligati ad abbandonare la propria casa.
In realtà il programma di ripopolamento della zona colpita dalle radiazioni finora non ha ottenuto particolare successo e, nonostante la revoca degli ordini di evacuazione, molte famiglie non sono ancora rientrate. Né probabilmente mai lo faranno. Secondo quanto riportato dall’Asahi Shimbun, ad oggi tra gli sfollati a cui è stato permesso di tornare a vivere nei loro villaggi solo 16.000 sono effettivamente tornati. In un distretto di Futaba, una delle municipalità dove l’anno scorso è stato concesso il rientro agli abitanti, su circa 60 famiglie ne è tornata solo una.
Facendo un po’ di conti risulta quindi facile accorgersi che se gli sfollati ufficialmente riconosciuti dal governo sono circa 31.000, quelli che hanno lasciato la propria casa per via della catastrofe di Fukushima e non sono ancora tornati sono molti di più. Si tratta degli sfollati invisibili, quelle vittime del disastro nucleare a cui il governo giapponese ha sottratto lo status ufficiale di sfollati (visto è legalmente permesso loro di tornare alle loro case nei pressi dell’ex centrale nucleare) ma che a tutti gli effetti lo sono ancora.
Questa distinzione tra chi è obbligato a stare lontano dalle proprie abitazioni e chi invece pur avendo il diritto di tornare decide di non farlo ha generato importanti discriminazioni tra gli sfollati che recentemente sono state criticate anche dalle Nazioni Unite. A partire dal 2017 infatti il governo ha abolito il sussidio abitativo per coloro che, nonostante la revoca degli ordini di evacuazione, hanno deciso di propria volontà di non tornare a vivere nelle zone di Fukushima considerate abitabili dal governo.
La regione colpita dal triplice disastro però non è ancora condannata. Fukushima prima del 2011 era considerata una località molto ambita in tutto il Giappone, geograficamente poco distante da Tokyo e naturalisticamente molto rigogliosa. Benché la zona abbia assunto una triste reputazione e nessuno si aspetti realisticamente che la regione torni a ripopolarsi così com’era prima del 2011, pian piano anche quei villaggi che erano stati abbandonati stanno tornando ad animarsi. Non si tratta solo di vecchi residenti nostalgici della vita precedente, ma anche di giovani giapponesi con progetti imprenditoriali per queste comunità.
Certo, il sostegno finanziario offerto dal governo a chi intende trasferirsi nelle zone designate è un forte incentivo, ma è solo un fattore tra i tanti che hanno portato centinaia di giapponesi a compiere questa scelta. Perché tra le tante persone che negli ultimi anni si sono trasferite nella zona, tante l’hanno fatto per scappare dalla vita delle grandi città. Chissà che Fukushima non riesca un giorno a riguadagnarsi quella fama di località bucolica tanto ambita che le era appartenuta in passato.