Sono nel letto con Dante che inizia a storcersi e fare versi di insofferenza per i problemi intestinali e ne sgancia una potente. Bokertov Dante, sono le 5.20 del mattino, lo prendo in braccio, penso a Kafka e penso al fatto che devo andare a Gerusalemme dall’avvocato. È sempre per quella storia, devo farmi riconoscere come padre di mio figlio. Lui nato a Tel Aviv da madre israeliana e io italiano.
A Jerusalem ci vado con il treno, ma di solito prendo il lussuosissimo yellow taxi da Central station, un furgoncino dodici posti che sfreccia sulla highway incurante del pericolo attorno ai 160 km/h e si paga rigorosamente in contanti con passamano una volta che si è a bordo. Il treno è comodo, le stazioni mi piacciono, mi piace spostarmi. Osservare l’umanità tutta. C’è n’è abbastanza qui, cristiani, musulmani, ebrei, turisti multilingua, militari.
Mi confondo tra la folla, riemergo nella nuova stazione dei treni della capitale e afferro una laffa falafel, nei baracchini ti danno sempre la pita o la laffa fredda per il resto i felafel sono più buoni di come si possano mangiare in qualsiasi posto in Europa.
La divoro e cerco di capire come arrivare allo studio dell’avvocato Goldberg. Sembra uno spostamento complicato allora opto per un taxi. L’autista è un gigantesco uomo sulla sessantina con la barba lunga e la kippah. «I don’t have cash», dico io, «No card!», dice lui, «but let’s go», offrendomi di fermarsi a un bancomat.
Mentre mi racconta la storia dei lingotti d’oro ritrovati durante uno degli scavi per rinnovare l’impianto idrico che sono andati tre quarti allo stato e un quarto al trovatore, mi porta al civico senza prelevare. No cash, ricordo io, lui si guarda intorno spaesato, capisce che gli costerebbe troppo ora portarmi in banca, si sente quasi fottuto, poi da buon genio trova la soluzione: «Can you buy me two packs of Marlboro?» 68 shekel, lui è felice.
L’avvocato Goldberg è un vero ebreo italiano, apre la porta e sento l’odore delle carte, è vestito in monocolore sul marroncino con la kippah a tono sul beige, parla italiano con accento toscano, ha studiato il caso, dice che è molto strano quello che mi chiedono, ma è preparato, la sua prima soluzione è un affidavit, un tazir, un’autodichiarazione che illustra tutti i fatti con in copia i documenti numerati, controfirmata e timbrata da lui, che è un atto legalmente valido e penalmente punibile. Stiamo due ore e mezza a capire i dettagli, le lettere in ebraico da leggere al contrario si aggrovigliano come le carte sul tavolo e io esco ubriaco che fuori è già buio.
Fino a stazione, questa volta, la faccio a piedi. Trenta minuti, respiro dentro le pietre di Gerusalemme e il suo clima freddo, ammetto che mi scende una lacrima, un po’ per lo stress e un po’ perché, insomma, mamma mia quanto è bella Gerusalemme. Soprattutto quando si è soli e un po’ persi. La sua potenza mi riempie tanto che brucio le ore successive come se non esistessero e mi ritrovo di nuovo alle 5 di mattina con Dante in braccio.
Bisogna prepararsi per l’appuntamento, quello ufficiale, preso più di nove mesi fa da mia moglie on line, quello al quale se fossimo andati senza le altre richieste saremmo ora all’inizio della storia. Ma oggi no, oggi noi abbiamo un fascicolo pieno, tutti i documenti organizzati, mancherebbe questo certificato di stato libero in originale, traduzione, apostille, notaio, cash, ma alleghiamo le risposte ufficiali che arrivano dal governo Cipriota e la copia del documento con l’apostille, oggi è un gran giorno.
Kafka e Concetta sono con me, lo sento. Infatti partiamo, fascicolo in borsa, al primo isolato mi tocco la tasca e non ho il passaporto. La tensione è alta ma faccio una corsa e lo recupero, rimaniamo calmi.
Nonostante l’appuntamento programmato, la fila dura più delle altre volte, nel frattempo un arabo esausto inizia a urlare e a ribellarsi (così si fa, penso io), poi arriva la sicurezza e lo fa uscire. Al nostro turno arriviamo allo sportello di fronte a una donna nostra coetanea. Noi ci proviamo sempre, con garbo e rispetto, porgiamo i documenti, spieghiamo perché siamo lì, in un primo momento sembra che gli ufficiali cerchino di capire, sembra stiano per dire sì, poi si alzano e ti dicono rega (aspetta, wait a minute) e tu in quel momento capisci che stanno andando dal boss e da lì in poi non hai certezze. Sudi freddo e allo stesso tempo inizia a gonfiarsi la vena, infatti ritornano e ti dicono, No, Lo.
Vogliono l’originale che non esiste, allora tu insisti che leggano i documenti, che li guardino almeno. Devi insistere parecchio, poi vai dalla boss, che non parla inglese e le lingue di nuovo si strozzano tra loro ed è sempre solo No, allora tu dici, me lo metta per iscritto questo rifiuto, questo Lo. Mi dia un documento ufficiale che mi state rifiutando l’istanza. No. La vena è gonfia gonfia, allora mi gioco la carta dell’avvocato, lo chiamo, dico, vorrei che parlaste con il mio avvocato.
Loro si rifiutano, l’avvocato mi dice, si faccia controfirmare e timbrare la prima pagina della dichiarazione, lo chiediamo e loro si rifiutano ancora. La vena è satolla, mia moglie mi manda via dallo sportello e lì esagero, la faccio fuori dal vaso. Prendo il fascicolo e lo sbatto contro lo sportello, rompo il vetro in mille pezzi, urlo: You are denying a fundamental rights of a baby!
Arriva la sicurezza, io sollevo la donna dallo sportello e gliela lancio contro, prendo i timbri e li stampo sulla fronte di tutti gli ufficiali, li prendo a timbrate fino a farli stramazzare, con il timbro più affilato che ho a disposizione prendo in ostaggio la boss e occupo il suo ufficio mentre da fuori sento arrivare l’esercito. Gli occhi storti della boss mi riportano alla realtà, ho solo detto ad alta voce quella frase sui diritti e sono andato via prima che la sicurezza si innervosisse, senza neanche un foglio, dico uno straccio di documento che mi stanno rifiutando l’istanza.
Non finisce qui: siccome prima o poi in Italia ci dobbiamo tornare, abbiamo bisogno del passaporto a nome della madre (ovviamente con me, che non sono legalmente il padre, il neonato non può viaggiare) quindi dobbiamo produrre comunque un certificato di nascita e il risultato è un capolavoro: in maniera simbolica Lihi ha fatto aggiungere Bisceglia al nome Dante, il cognome è della madre, la riga del padre è vuota. Poi luogo e data di nascita e ancora, nazionalità – Jewish, religione – Jewish.
Penso ai patti lateranensi, a Bettino Craxi, e nel delirio mi richiama il dottor Palozza dall’ambasciata italiana, ecco che forse si riapre la strada diplomatica, che proveranno a scrivere al Ministero degli interni a Gerusalemme.
Sembrerebbe che l’esaltato per la violazione di un diritto fondamentale sia solo io, alla fine sento dire che lo Stato qui funziona così e ci si deve adeguare e io ci sto provando. Però mi sento un po’ solo in questa battaglia in Israele e allora faccio una cosa, la più banale, inizio a chiedere in giro, contatto una ex parlamentare attivista e mi conferma che avrebbero dovuto registrarmi già in ospedale, che quello che stanno facendo non è normale, parlo con un amico regista e anche lui è della stessa idea, dice che avrei dovuto portarmi un testimone.
Allora chiamo un nuovo avvocato, ebreo ma senza kippah, mi dice, è tutto illegale, lei può riconoscere suo figlio anche non essendo sposato, mi mandi tutti i documenti. E io mi sento meno goffo e fuori di testa, come facciamo sentire tutti gli stranieri che chiedono diritti, vittime accusate di vittimismo, eccessivi nei loro strilli contro lo Stato.
Qui in Israele si protesta contro il governo ormai da mesi, due giorni a settimana: il giovedì e il sabato. E alla prossima ci sarò anch’io.
Potete leggere prima parte del reportage da Tel Aviv cliccando qui