Madame: Club Godo | Rolling Stone Italia
Cover Story

Madame
Club Godo

In un’epoca di rapper-contabili e di cantanti pop che non vogliono scontentare nessuno, Madame ha fatto un disco in cui canta d’amore, sesso e desiderio in modo libero. «Mi piace usare parole perverse e fantasticare sulle cose», racconta in questa intervista in cui parla anche della dipendenza dalle emozioni, dei selfie coi fan, di come ha gestito la faccenda del green pass falso

Foto: Andrea Bianchera/Sugar Music

«Quando è uscito il mio primo disco, Madame, la mia amica Giorgia mi ha detto: “Ma non c’è neanche una canzone d’amore”. Al che le ho risposto: “Allora il prossimo disco sarà fatto tutto di canzoni d’amore, va bene?”».

Esordisce così Francesca Calearo in arte Madame in una lunga e rilassata chiacchierata che ci siamo fatti tre giorni prima della pubblicazione de L’amore, il suo nuovo album. «Ma non è l’amore classico, normale». No. Non lo è. Che sia nato per scommessa con l’amica Giorgia o meno, non è il classico album pop che parla di sole-cuore-amore: colpisce, colpisce duro invece, scende nell’esplicito e arriva ad essere cattivo e allucinato in alcune parti. Un disco sorprendente, piaccia o meno (ma deve piacere, come spiega lei a fine intervista).

Così come, piaccia o meno, Madame è una delle figure più interessanti e mature emerse negli ultimi anni sulla scena musicale italiana, pochi dubbi. Lo provano molti dei discorsi fatti qua: in un’epoca di moralismi, di rapper/trapper che fanno fatica a formulare pensieri elaborati che non siano quelli del loro pusher o commercialista, di cantanti pop attenti a non disturbare e non scontentare, qui la situazione è molto diversa. Un tempo se parlavi di amore con un’artista ormai presenza fissa a Sanremo sapevi che dovevi aspettarti lo stucchevole, e poco più.

Amore, sì, ma secondo me anche proprio desiderio, nel senso di qualcosa di veramente intenso, sfrontato quasi. Ecco cosa mi comunica L’amore. Non è un disco morbido, comodo.
Partiamo da questo punto: i bambini vedono e sentono i colori molto più vividi, e le emozioni le sentono molto più forti. Ecco, ho cercato di guardare il mondo esattamente da questo punto di vista qui. A me interessa l’intensità. Da sempre. E delle parole, mi interessa anche e soprattutto la perversione: questo è il tipo di emotività che mi interessa, quando scrivo, quando mi esprimo. Un tipo di emotività da cui ho una vera e propria dipendenza. Guarda, secondo me ogni persona ha qualche tipo di dipendenza: la mia è quella verso l’emotività quando è fortissima. Col risultato che la ricerco sempre. Proprio sempre. Anzi, di più: se una cosa non è intensa, proprio non mi arriva, non la riesco a percepire. Non mi rimane.

Sei un po’ in controtendenza con lo spirito dei tempi, visto che oggi sempre più spesso l’imperativo pare non offendere, non turbare, non colpire troppo pesantemente, essere insomma equilibrati e più o meno politicamente corretti. Di tutto questo mi pare di capire che non te ne importi granché. O sbaglio?
Diciamo che, ecco, il mio grande amore verso la perversione delle parole mi porta ad usarle, le parole, anche in maniera molto, molto scorretta. Cioè: proprio mi entusiasma farlo, capisci? Non so perché, eh; e mi rendo conto che è appunto un vizio, una dipendenza. Lo faccio, e provo piacere. Ma lo faccio non con l’intento finale di offendere qualcuno o qualcosa: quello assolutamente no. Lo faccio per far stare bene me. Distorcere le cose all’eccesso mi diverte, mi mette a mio agio.

Che poi in fondo distorcere le cose è un atto creativo.
Esatto. Bisogna saper distinguere tra persona e opera: nell’opera c’è solo creatività, creatività pura, mentre nella persona – cioè se io e te parliamo e iniziamo a fare un discorso serio, preciso, razionale – ho delle idee e delle convinzioni che in effetti magari differiscono da quello che metto in campo quando creo. Il motivo è ovvio: quello che creo è appunto creatività. Viene fuori praticamente in uno stato di trance: sono completamente dentro alle emozioni, è un flusso che parte e che non si arresta, e che non voglio arrestare. Nel momento in cui invece devo riordinare le idee e devo pensare, devo usare la razionalità, ecco, quello è un percorso di vita completamente diverso.

Ma controlli sempre questo processo? Ovvero: riesci sempre a decidere tu quando girare l’interruttore, quando passare cioè dalla fase creativa a quella razionale?
Secondo me se una persona pensa di riuscire a controllare la fase creativa e a decidere quando è in atto e quando no, beh, allora vuol dire che questa fase non è veramente creativa. La fase creativa arriva. E quando arriva, è più forte di te. Senti che ti devi assoggettare ad essa. Se invece stai lì e ti dici “ok, oggi alle 13 devo andare in studio fino alle 17, e quindi in queste quattro ore devo essere creativa”, allora di creativo non c’è in realtà praticamente niente, è solo un’apparenza di creatività, nient’altro. Quindi, per rispondere alla tua domanda: no, non sono in controllo. Perché non è una cosa che si possa davvero controllare, se sincera.

A proposito di sincerità: quanto della tua vita reale c’è in L’amore? Occhio, non ti sto chiedendo quanto vere siano certe descrizioni, quanto siano autobiografiche. Il punto è un altro: vorrei capire se in questo album è entrato anche il cambiamento che la tua vita ha oggettivamente avuto da qualche anno a questa parte, cambiamento su mille aspetti pratici e tangibili. O se invece il processo di creatività pura di cui parli ti mette addirittura al riparo dall’immediatezza pratica delle cose, portandoti in una dimensione parallela. Dove la tua creatività procede senza contaminazioni.
Credo che in questo disco non ci sia nulla che riguardi il mio cambiamento a livello, diciamo così, sociale, quotidiano. Perché semplicemente non trovo interessante parlarne. Giusto forse Tekno Pokè

Che però non a caso è una specie di extra, di bonus track.
Sì. Esattamente come Pensavo a…, dove sì, in effetti parlo di un po’ di cose apparentemente reali.

Lo sai vero che su quella mini-traccia si scatenerà la ridda delle supposizioni: «di chi sta sparlando qui, cerchiamo di capire di chi si tratta…»?
Ma sì, non mi interessa: che ci provino pure, a farlo. Tanto nessuno riuscirà ad indovinare…

No?
Ma perché nemmeno io so bene di chi cazzo sto parlando. In realtà, quell’elenco lì è una sorta di puzzle di tante persone che ho visto in questi ultimi anni. Anche se parlo di eventi e di gente che ho visto per davvero, entra sempre in campo il fattore creatività, fattore che distorce tutto…

Ma tu di tuo sei una persona socievole, oggi? Una che incontra volentieri gente?
Dipende.

Da cosa?
Dal fatto se sono attratta o meno da una persona.

Ah.
Anche fisicamente, eh: non lo nascondo. Sì, c’è anche quella componente lì. Banalmente insomma: non ho amici che reputo, come dire?, inchiavabili (scoppia a ridere).

Benissimo.
(Altre risate) Cioè, se ci voglio avere un rapporto di qualsiasi tipo, le persone mi devono attrarre anche fisicamente. È strano. Non so perché.

Se ci pensi, un tempo invece c’era di regola una feroce distinzione: o si è amici o si è amanti.
Oh, sia chiaro, un conto è il pensiero, un conto l’atto…

Ovvio, lo sto dando per scontato. Ma resta il punto.
Secondo me anche nelle semplici amicizie si crea sempre un gioco di seduzione. C’è sempre, sì. Tipo che se capitasse di fare qualcosa con quella determinata persona, beh, non ci sarebbe comunque problema, ecco. Una persona per diventare mia amica di solito non deve farmi sessualmente ribrezzo. Quella componente lì c’è.

Ok.
Parliamo di un certo tipo di strana affinità, anche con gli amici: un’affinità anche fisica, impalpabile. Non è che mi voglio fare tutti, eh (ride). Come dicevi tu prima: riesco a distinguere, riesco a premere l’interruttore tra creatività e razionalità? No, ogni tanto no, ogni tanto viene fuori comunque un mio lato fantasioso che si interseca con la realtà delle cose. Lo so: dovrebbe essere tutto ben distinto, in teoria. E invece, succede che spesso mi cerco e mi creo delle esperienze molto forti. Cerco e trovo delle persone e delle situazioni che so che mi potrebbero stimolare. Io poi non so quando l’ispirazione arriva, quando arriva cioè il momento in cui devo solo pensare ad essere creativa; ma so molto bene cosa devo fare per vivere situazioni che mi aiutino ad esserlo poi in modo molto intenso, quando scrivo. Quello sì.

Foto: Andrea Bianchera/Sugar Music

Ti vedo molto concentrata ad essere artista, ad essere creativa. È proprio la tua priorità assoluta, ora. Giusto?
Io sono sempre stata così, ma ora finalmente ho l’opportunità di poterlo essere sempre, di esserlo come e quando voglio. E questa cosa mi diverte, capito?

La vita dell’artista famoso insomma ti sta bene addosso. Non sei nella fase in cui invece un po’ ti è scomoda.
Cosa intendi?

Essere un’artista famosa significa anche dover rinunciare a fette di normalità, di semplice quotidianità. Se sei in giro, ti riconoscono; e se ti riconoscono, iniziano tutti a guardarti, a bisbigliare cose su di te, ad arrivare da te a chiederti i selfie… Fai fatica ad avere una vita normale.
Posso dirti? All’inizio era scomodo, vero. Col tempo, continua ad essere scomodo, sì, ma solo con le persone che mi vedono solo come un personaggio pubblico. Ormai ho imparato a capire d’istinto chi prova ad avvicinarsi a me perché sente davvero che c’è un’affinità, e vuole ringraziarmi, abbracciarmi, ed è realmente emozionato: lì il fastidio non lo provo mai. Anzi, quando sono in una situazione del genere sono pure io che mi emoziono. Mi gaso. Sì. Mi dà una carica incredibile, sì. Quando invece uno arriva lì e ti dice “scusami un po’, adesso mettiti un po’ più a destra che ti devo fare la foto per mia figlia che ti ha vista a Sanremo…”, ecco, lì, che rottura di coglioni…

Ma mettiti a destra tu.
Cioè, capito? C’è gente poi che ti fa foto come se tu fossi un quadro. Io dico sempre “ma no, ma facciamoci la foto assieme”, al che mi rispondono magari “ma no, io sono brutta”. No cara, mi dispiace: se vuoi la foto con me, dobbiamo farcela assieme.

Ma ti ha sorpreso il fatto di aver trovato così presto una relazione così forte con il tuo pubblico? Pochi artisti sono riusciti a costruirsi in così poco tempo un rapporto talmente forte, completo e compiuto coi propri fan: è una cosa che ho proprio notato, vedendoti suonare dal vivo.
Per me è normale. Perché io per prima mi pongo in maniera molto intensa e diretta con chi mi segue. L’ho sempre fatto. Vale anche per i rapporti interpersonali, sai? Per restare in tema amore, visto che il disco nuovo di questo parla: se io e te ci incontriamo una sera, ci conosciamo, e io sento che ci sono cose in comune, che c’è un legame, beh, sappi che io posso finire col raccontarti anche il mio segreto più nascosto, non me ne frega niente di tenerlo per me. In quel momento mi sento di farlo. E allora lo faccio.

Eh. Ti capita di farlo anche con la stampa.
Dici?

Quando ho letto la tua intervista al Corriere fatta con Teresa Ciabatti o anche la prima intervista importante per noi, fatta col direttore Alessandro Giberti, ho proprio pensato: caspita, sta dicendo delle cose personali molto impegnative, pesanti. Sta rischiando. Perché poi queste cose quando finiscono in pasto all’opinione pubblica e…
Già. Infatti. Poi ho capito.

È stato un errore aprirsi così tanto, quindi.
Sì, lo è stato. Un errore utile, però.

Cioè?
Perché mi ha fatto capire definitivamente – e ormai lo so, lo do per scontato – che quando faccio un errore succedono tre cose. Ovvero: uno, è sempre un errore molto grosso; due, è un errore di cui vengono in un modo o nell’altro a sapere tutti; tre, mi arriva una manata in faccia come conseguenza così grossa che poi me lo ricorderò per tutta la vita e quindi, se tutto va bene, eviterò di ripetere l’errore. Sai alla fine come ho risolto?

Come?
Scrivo tutte nelle canzoni. Basta. Lì e solo lì.

Dici?
Sì, sì.

Non lo so, non lo so se solo nelle canzoni: ci sono anche i social. Perché quando c’è stato tutto il casino attorno alla storia del tuo vaccino, una storia che è esplosa e che rischiava di farti escludere da Sanremo, tu hai fatto un lunghissimo post sui social. Dannatamente sincero, ai limiti dell’autolesionismo. E ti dirò: io personalmente ti ho ammirato molto. Perché ormai, in queste situazioni, gli artisti hanno tutto un team di manager e di legali che gli costruisce un cordone di sicurezza attorno e che obbliga a pubblicare solo tre righe puramente di circostanza. Tu invece hai fatto una lunghissima confessione su tutta la faccenda, mettendo in campo anche elementi molto problematici, legati alla tua sfera personale, come ad esempio il rapporto coi tuoi genitori e il loro ruolo in questa vicenda. L’hai fatta di getto, quella confessione? L’hai fatta di getto e qualcuno ha provato ad impedirti di pubblicarla? Sei pentita di averla fatta e poi pubblicata?
Fosse stato solo per me, non avrei detto o scritto nulla. Perché quelle sono cose che fanno parte della mia sfera privata, e riguardano comunque sbagli che una ragazza di 19 anni è anche normale che faccia. Prima ancora di essere un personaggio pubblico e quindi di avere la responsabilità di dare l’esempio, io sono comunque ancora in una fase della mia vita in cui sto capendo veramente cosa è giusto e cosa è sbagliato fare, e questa cosa pare non averla considerata nessuno.

Vero.
O comunque, l’hanno capita solo quelli capaci di provare un minimo di empatia, le persone libere dall’invidia e capaci di crearsi un pensiero non sulla base di quello che scrivono quasi tutti, ma sulla base della razionalità. Queste persone ci sono, le ho viste, le ho lette, e le ringrazierò per sempre. D’altro canto mi è stato in effetti suggerito di non stare zitta: perché, appunto, ero un personaggio pubblico. Ma allora mi sono detta: va bene, se proprio devo dire qualcosa, allora me la gestirò dicendo esattamente come è andato il tutto, poi ognuno si faccia l’idea che vuole. È andata così. E in questo momento, con l’indagine ancora in corso, io non posso dire nient’altro. È un mio dovere, oltre che un mio diritto, non dire altro.

Ma ti aspettavi un po’ più di comprensione, dopo quel post lì così a cuore aperto? Perché ne ho vista ben poca. Ho visto più gente che lo criticava dicendo che era scritto male, o addirittura che come post ti dava più problemi che altro, dato che avresti fatto meglio a stare zitta e ad insabbiare la questione: ho trovato abbastanza assurdo questo modo di vedere le cose. Invece di apprezzare la sincerità e la schiettezza, ora il pubblico vuole fare da manager dell’artista e lo rampogna perché non fa scelte abbastanza ciniche e furbe. Boh.
Ma questo ormai succede spessissimo. Avendo tutti accesso ai social, ormai non c’è più nessuna gerarchia. Tutti pensano di poter essere tutto, se solo lo vogliono. Poi guarda, ho visto anche vignette assurde, tipo quelle in cui mi descrivevano come un burattino nelle mani dei poteri forti che mi avevano obbligato a fare non so cosa… che cazzate! Tutta la genesi di quel comunicato è stata molto più semplice e banale di quel che si pensa e di quello che s’è letto da qualche parte, te l’assicuro. Ho semplicemente raccontato le cose così come erano andate. Mi sono arrivati addirittura attacchi perché avevo messo in mezzo i genitori: ehi, loro erano in mezzo alla questione! Cosa dovevo fare, toglierli? Non nominarli?

Loro come l’hanno presa?
Bene. L’hanno presa bene. Ma perché avrebbero dovuto prenderla male? Ho scritto esattamente quella che era la verità.

Parlando sempre di gerarchie, ma tornando invece alla musica: qual è il livello di gerarchia tra te e chi ti confeziona l’abito sonoro delle canzoni? Chi comanda?
(Lungo silenzio) Di base, io.

Questo lungo silenzio prima di rispondere mi fa capire che c’è un “ma”.
Comando io. Ma conosco i miei limiti. Quindi diciamo che ho sempre l’ultima parola, ma in qualche caso l’ultima parola può essere “mi fido di te”. Però è uno scambio continuo: io, di L’amore, ho seguito ogni minimo particolare, ogni minima minchiata. Per dirti, l’ha mixato Zangirolami, ok, ma io sono andata da lui in studio almeno cinque volte, ogni volta per tre, quattro ore di fila, per discutere su mille cose. Perché non ne capisco magari nulla tecnicamente di mix e di master, ma so ascoltare, so capire cosa mi piace e cosa no. Il confronto è stato costante. Non ho mai delegato.

Confrontarsi può voler significare anche scazzare pesantemente. Anche quando si parla solo di musica.
Certo.

Sei una che ogni tanto sbraita, che urla?
Dipende dalla giornata (risate). Ma posso dire la verità? Vale per la musica, ma vale un po’ per tutti i lavori: i litigi veri sono solo quando ci sono di mezzo i soldi, punto. Quando il litigio è per motivi artistici, è solo perché ciascuno vuole dare un suo contributo per raggiungere quello che gli sembra il miglior risultato possibile. Poi con l’arte, sai, ci sono sempre molte emozioni di mezzo, le dinamiche che si creano in studio sono piuttosto intense. Inevitabile… è anche giusto sia così. Ma il litigio vero, quello distruttivo, arriva solo e unicamente quando ci sono dei soldi di mezzo.

Ecco, ritornano in ballo le emozioni come fattore fondamentale – e fondamentalmente positivo.
Ma certo. Ovvio. Sennò, a che cazzo serve la vita? Se non provi emozioni, che senso ha vivere? Sono l’unica cosa che possiedi davvero, le emozioni!

Mah: pensa a quando fra vent’anni sarai una cantante navigatissima e tutto quello che fai ti emozionerà ben meno, sarà un po’ routine, un già visto e già fatto…
Non c’è problema: smetterò e diventerò una star della Moto GP.

Ecco, seriamente: se non avessi fatto la cantante?
Sarei stata una sportiva.

Ok.
Calcio, o pallavolo. Comunque, qualche sport di squadra.

Sei un’agonista.
Sì. E poi, se ci pensi, esattamente come l’arte anche lo sport è un grande creatore di emozioni. Emozioni anche negative: provare la sconfitta, ad esempio, ma pure le emozioni negative alla fine diventano belle. Pensa poi a quando in una partita sei sotto e devi rimontare: ti vengono in mente emozioni più intense, più pure di queste? A me no! O ancora, lo scatto d’ira nei confronti dell’arbitro… Una volta giocando a pallavolo ero di turno in servizio e sì, volevo prendere in faccia l’arbitro, avevo proprio mirato lui, dalla rabbia. “Ora lo prendo in faccia”.

Battuta al salto?
Certo. Un flottante. Fortissimo. Però niente: ho sbagliato, ne è venuta fuori una battuta perfetta che è caduta giusto sulla linea, e ho fatto punto. Niente arbitro in faccia, purtroppo. Ad ogni modo: che cosa figa la rabbia, nello sport. La amo.

Foto: Andrea Bianchera/Sugar Music

A proposito di mantenere o non mantenere le emozioni: sia io che te siamo cresciuti in Veneto, io a Verona e tu nel vicentino. Diciamo che so cosa può significare crescere da quelle parti. C’è spesso una micidiale spinta al conformismo, all’omologazione.
Vero. Ma è stimolante: c’è chi ne rimane schiacciato e chi invece usa questa forza come mezzo per spiccare il volo, rovesciandola, usandola come leva. Questa durezza della provincia mi ha aiutato tantissimo a confrontarmi prima di tutto con me stessa. Perché quando finalmente inizi a prendere coscienza di te stesso, inizi a dirti: ok, chi sono? E la prima risposta a questa domanda, quando sei in un certo tipo di provincia, arriva dagli altri. Però succede che questa risposta non ti piace. E allora ti dici: no, io non voglio questa risposta, non mi va bene. A quel punto succedeva che mi impegnavo il doppio per farla cambiare, questa cazzo di risposta, e tutto ciò mi ha fatto crescere parecchio.

E quindi adesso chi sei?
Boh.

Non vale rispondere così. Non ti credo.
Chi sono? Non lo so. Vado in terapia apposta, perché non lo so.

Vai in terapia, ma per non avere una risposta.
Esatto.

Mmm.
Proprio ieri ho scritto una nota, te la leggo: “So così tante cose di me che quando mi chiedono di me non so cosa dire e non ho mai trovato un mezzo per dirlo. E poi, non mi ricordo più nulla”. La nota è da sviluppare, però ecco, era per farti capire… La mia testa va molto veloce e, a volte, mi perdo per strada dei pezzi di memoria. Ecco, anche per questo le emozioni sono per me qualcosa di così importante: perché le ricordo, mi restano impresse. Sono memoria. Quando invece penso tanto, poi non mi ricordo più nulla. E ogni volta devo ripartire da zero.

Secondo te L’amore sarà capito, come disco, sarà insomma apprezzato? E non vale dirmi: non mi interessa…
Certo che mi interessa.

Bene, vai con la risposta, allora.
Sarà capito? Boh. Non credo: anche perché nemmeno io per prima lo capisco fino in fondo.

È un disco molto forte. Con passaggi molto equivocabili.
Appunto.

E questo ti piace.
Mi piace, sì. Ma se mi chiedi se lo capisco, la risposta è: no. Ma è proprio questo il bello, non credi?

Ci può stare.
È un disco in cui puoi entrare solo se accendi la fantasia, solo se abbandoni la razionalità. Non devi stare lì a tentare di capirlo. No. Perché se ti sforzi troppo a tentare di capirlo o ti viene da pensare che io sono una cogliona, oppure proprio pensi male di me. Nel senso: c’è un retrogusto che infastidisce, in questo disco, se lo affronti solo razionalmente. Lo so.

Ma affrontare razionalmente un disco nato affidandosi alle emozioni…
È sbagliato, esatto.

Ed è un disco dove va sospeso il giudizio morale.
Esatto. Io non giudico nessuno, in questo disco: io fantastico. Fantastico sulle cose. E racconto – esattamente come diceva il mio amico Alighieri – che sì, è l’amore a muovere il sole e le stelle. L’amore e nient’altro.

Anche quando non lo si vuole ammettere.
In che senso?

Spesso non vogliamo ammettere che sono soprattutto l’amore e il desiderio a muovere le nostre scelte, le nostre passioni, le nostre prese di posizione.
È un po’ come la sessualità: se ci togliessero i genitali, cambieremmo carattere, non saremmo più quelli di prima, saremmo persone diverse. Questo perché il desiderio è una forza troppo forte, troppo decisiva per strutturare quello che siamo. Puoi mettere mille tabù, diecimila chiusure, diecimila censure: ma quella forza resterà sempre lì.

La sessualità dalle nostre parti resterà sempre un tabù? Non so, sarà una cosa dei Paesi mediterranei o cattolici, perché per dire in Olanda o in Scandinavia si ha un atteggiamento ben diverso. Però ecco, il solo fatto che parli così liberamente di sessualità, e non solo e non tanto qui, ma proprio nel disco…
Fa strano?

“Oddio, cosa sta facendo, cosa sta dicendo, ma è pazza, che sboccata”.
Credo che la mia generazione sia un po’ più serena sull’argomento. È più tranquilla. Più moderna. Sì, magari c’è ancora un po’ il fenomeno dello “scandalo”, ecco.

Su cui provano a portarti.
Ma se lo scandalo gira attorno alla sessualità, lì sono tranquilla, fìdati: perché mi so difendere benissimo. Nel senso: non mi tocchi un nervo scoperto, capisci? Non è che se parli della mia sessualità mi colpisci, mi provochi un dolore… zero. Non me ne frega niente se lo fai. Sai perché? Perché per me la sessualità non è un discorso intimo. Per me di davvero intimo c’è ben altro.

Tipo?
Per farti capire, se in casa mia entra una persona che non voglio, io impazzisco. Lì sì impazzisco. Se invece una persona che non conosco inizia a chiedermi della mia sessualità, a me non fa nessun effetto. Me ne frega zero.

Ok. E se una persona prova a dire che L’amore non è bello, come disco? Che non è un disco riuscito?
Beh, lì è semplice: ha torto (scoppia a ridere).

***

Foto: Andrea Bianchera per Sugar Music
Fashion Styling: Simone Furlan
MUA e Hair Styling: Elena Gaggero e Camilla Crema

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