Quale posto migliore di una rassegna enologica per farsi venire in mente la proposta di lanciare un liceo del made in Italy?
Non si hanno notizie certe sul fatto che Giorgia Meloni possa essere o meno astemia, e chi scrive ha letteralmente vissuto per qualche tempo in un’azienda vitivincola, quindi tende ad approcciarsi all’argomento con il rispetto dovuto a chi fa quello di lavoro e la comprensione necessaria a chi ne apprezza i risultati.
Nulla contro l’istituto agrario, dunque, né contro il vino. Questo per essere chiari prima di cominciare a raccontare una storia che, se non fosse avvenuta in Italia, sarebbe da bollare come una barzelletta.
Dunque, nella giornata di lunedì 3 aprile la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è andata a Vinitaly, la più importante rassegna enologica italiana che si svolge ogni anno a Verona. Dopo aver fatto visita allo stand del ministero dell’Agricoltura (e della sovranità alimentare), la premier ha incontrato un gruppo di studenti di un istituto tecnico agrario e si è lasciata andare a qualche dichiarazione che le agenzie di stampa hanno prontamente battuto. «Per me questo è il liceo, perché non c’è niente di più profondamente legato alla nostra cultura», ha detto. «Faccio i complimenti a questi ragazzi perché sono stati molto lungimiranti». Segue l’annuncio che il suo governo starebbe pensando a un liceo «del made in Italy», ovvero autarchico, in cui le varie materie sarebbero declinate in modo da esaltare i caratteri dell’italianità, della cultura nazionale.
È bene ribadire a questo punto che non abbiamo la più pallida idea di quanti vini avesse assaggiato Meloni prima di fare queste dichiarazioni, quindi proviamo a prenderle sul serio.
Secondo il Corriere della Sera, il liceo del made in Italy sarebbe una sorta di variante del liceo economico-sociale introdotto dalla vecchia riforma Gelmini, con alcuni potenziamenti per quello che riguarda l’informatica, la storia dell’arte, l’economia e il diritto. Il tutto con l’obiettivo di approfondire i modelli italiani di gestione delle imprese, il business dell’industria della moda, dell’arte e dell’alimentazione.
C’è da chiedersi quali siano questi modelli, se quelli immaginari tipo il mitologico Renatino che nella pubblicità del parmigiano si vantava di lavorare a ritmi degni degli schiavi che costruirno le piramidi, o quello degli imprenditori che evadono il fisco quando le cose vanno bene e chiedono gli ammortizzatori sociali quando si mettono male.
Magari si studierà la storia del tizio di Milano che a un certo punto ha cominciato a costruire città da zero, poi si è dato alla televisione, poi alla presidenza di una squadra di calcio e infine ha governato il paese per anni e anni.
Se grazie allo storico Alberto Grandi abbiamo imparato che non esiste una vera e propria cucina italiana e che tutte le ricette che adoriamo sono in realtà frutto di contaminazioni anche piuttosto recente, dobbiamo ricordarci anche delle storie che provengono dalle cucine italiane: giovani sfruttati per quattro lire, costretti a turni massacranti da contratti per lo più fasulli, umiliati e presi in giro quando lo fanno presente e vitime di bullismo ogni volta che sui giornali appare un ristoratore a lamentarsi che nessuno vuole andare a lavorare da lui benché sia alla ricerca di personale.
Insomma, questo made in Italy lo conosciamo abbastanza bene e, eventuali confabulazioni epatiche a parte, ci auguriamo che qualora la proposta di farne materia di studio liceale dovesse andare avanti sia un po’ meglio di come è lecito aspettarselo (Forse siamo in presenza di un colpo di genio, però: dovessero divenire realtà sia questa idea sia quella di multare chi usa parole straniere in atti ufficiali, la sparata di Vinitaly sarebbe per lo Stato un ottimo modo di fare cassa).
Molto interessante, per il resto, il parere di Meloni sull’istituto agrario. Le battute che sono uscite già a decine sui social network sono sin troppo facili – «Saremo la zappa del mondo», «Braccia rubate all’agricoltura» e così via – ma, a livello puramente retorico, siamo di fronte a un grande classico della destra italiana: mettere i suoi oppositori nella condizione perfetta per dire una stupidaggine ancora più grande di quella su cui si vorrebbe fare ironia.
Insomma è un attimo che una battuta sull’istituto agrario diventi un capo d’accusa contro «la sinistra che odia i contadini». Avete capito, no? La verità è che tutte le scuole hanno pari dignità, non ne esiste (o non dovrebbe esisterne) una migliore di altre, e casomai le assurdità vanno ricercate nel modo con cui si fa orientamento negli anni che precedono la scelta della scuola superiore: perché le famiglie di chi si iscrive a un istituto professionale sono mediamente più povere delle famiglie di chi si iscrive al liceo classico? La risposta la rimandiamo a un libro scritto da Christian Raimo qualche anno fa, «Tutti i banchi sono uguali» (Einaudi, 2017).
Ad ogni modo, non ci siamo un po’ stufati di dover commentare ogni giorno le stupidaggini che provengono dal governo? Parliamo ormai di una sciocchezza al giorno, dall’invenzione di un nuovo reato a causa di una festa alle preoccupazioni per il terrore anarchico, dalle frottole offensive su via Rasella di La Russa alla necessità di umiliare gli studenti proclamata da Valditara. E potremmo andare avanti. La verità è che questo governo si sta dimostrando particolarmente incapace di pensare alle cose a cui dovrebbe. Tipo il Pnrr: la settimana scorsa, mentre noi si perdeva tempo a dire che un battaglione di volontari delle SS è una cosa diversa da una banda musicale di pensionati, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha convocato Giorgia Meloni al Quirinale per esprimerle qualche perplessità sul punto. A Vinitaly la premier ha invece dichiarato di non essere per nulla preoccupata. Alla salute.