Lo dico subito: sto scrivendo di un libro in cui sono citato. Lo dico perché non voglio fare la classica cosa di scrivere di libri, dischi o film in cui c’entrano gli amici senza dirlo. Io lo dico subito, lo urlo, così poi non mi dite niente.
Sono dentro a questo libro non per meriti specifici, non sono un tipo particolarmente interessante o che qualcuno infilerebbe in un libro. Con un po’ di fantasia avrei potuto essere qualcuno di cool: magari l’amico che lavora a Rolling Stone, che puoi crederci solo se ignori che facce hanno quelli che lavorano nell’editoria. Ma Chiara Galeazzi, l’autrice di Poverina (appena uscito per Blackie Edizioni), quelli che lavorano nell’editoria li conosce bene, e quindi dubito li avrebbe dipinti come speravo io. Il 18 aprile è uscito il suo primo libro, Poverina appunto. Un romanzo autobiografico che parla di una disgrazia (un’altra, oltre a quella di aver lavorato nell’editoria): possiamo chiamarlo così un ictus a 34 anni?
Nel libro ci sono anche io perché, quella domenica di ottobre 2021, giorno del fattaccio, sono stato tra le prime persone che Chiara ha provato a contattare. Non si sentiva bene, cercava qualcuno che potesse raggiungerla velocemente. Aveva pensato a me, che di laurea sono farmacista ma di vocazione più showgirl. Purtroppo ero a Roma per lavoro (il lavoro era seguire una conferenza stampa in cui Johnny Depp parlava di quanto si fosse divertito a doppiare un pulcinella di mare di nome Johnny Puff: «I had so much fun»).
Intorno alle 17 però mi arriva un messaggio su WhatsApp, un vocale in cui diceva più o meno così: «Ciao Fil, ti volevo dire che sono al pronto soccorso dell’Ospedale Niguarda perché ho avuto un’emorragia cerebrale». Ricordo la sensazione del sangue che si ghiaccia. Seguivano altri dettagli su visite da fare e medici con cui parlare. Il messaggio si chiudeva con: «E tu? Come va a Roma?». Giuro. Scoprii poi che dietro a quella domanda c’era dello Xanax e che, soprattutto, il peggio era passato (leggasi: l’emorragia era terminata).
La storia che Chiara racconta in Poverina comincia così. Con lei che sente strani formicolii, che chiama gli amici, poi l’ambulanza, che finisce in ospedale con una diagnosi chiarissima: emorragia cerebrale associata a emiparesi.
Si può ridere di una storia così? Sì, se la racconta una delle autrici comiche più valide della sua generazione: «Io non so parlare di questo libro, racconto quello che mi capita, e in questo caso ha conciso con ictus», dice. Poverina è proprio così: fa ridere perché la vita, se sapete raccontarla, vale più di ogni storia che possiamo inventarci.
In questo memoir, lo chiamo così che fa anche un po’ titolo di bio di Paris Hilton, non troverete storie fatte di coraggio, battaglie da vincere o persone che sono cambiate. Nessuno, in questo libro, ne esce migliore di prima (e questo posso confermarlo personalmente). Al massimo con qualche chilo in più, in particolar modo se i tuoi amici ti ingozzano di cioccolato e pizzette (regime tra l’altro consigliatissimo nel caso soffriate di una qualsivoglia patologia vascolare).
In Poverina c’è il ricovero, ci sono i giorni in ospedale che diventano tanti, ci sono i pannoloni, le persone gentili, quelle meno, ci sono le shitstorm dei NoVax che ti vorrebbero morta perché è chiaramente colpa del vaccino e quindi cazzi tuoi, ci sono le persone che ti stressano anche se sei ricoverato, quelle che vogliono venire a trovarti nonostante tu non li senta da dieci anni, ci sono le scarpe ortopediche, la riabilitazione, i compagni di stanza che russano, la nobile arte del «cagare da sdraiati».
Soprattutto però, Poverina non vuole insegnarvi niente. Anche se, pensandoci bene, qualcosa però da questo libro io l’ho imparato: che le persone riescono a dire la cosa sbagliata quasi sempre, che le Emanuela (calzature ortopediche di cui parlavamo sopra) hanno «salvato un sacco di vite», e che è possibile raccontare un’esperienza dolorosa senza passare per vittime. Anzi, per «poverine».