Dalla mia app di Intesa Sanpaolo, pochi giorni fa, ho notato come il pagamento elettronico da trenta euro che ho effettuato al mio veterinario, dopo che il mio cane si è infettato una zampa, abbia generato ben 9,42 Kg di emissioni di CO2. Addentrandomi nella sezione dedicata, ho poi scoperto che solo quest’anno sono stato responsabile di 301 Kg di emissioni, a fronte di una media italiana di 500 kg.
Di fianco a questi dati, la schermata è infarcita dai banner pubblicitari in cui Intesa si vanta del suo impegno per l’ambiente: “Una grande Banca per la sostenibilità”, oppure “Forestami: rendiamo il mondo più verde”; o ancora “Difendiamo insieme il pianeta”. “Come calcoliamo le tue emissioni?”, mi chiede retoricamente la banca, spiegandomi poi attraverso una supercazzola tecnica l’utilizzo del database europeo in cui sono indicati i valori di emissione per ogni categoria di spesa.
Due biglietti per un concerto? 2,86 kg. Una spesa da quattordici euro al supermercato? 7,92 kg. Una pizza dall’egiziano sotto casa? Appena 1,39 kg. Spiegare l’insensatezza di questi numeri e come siano completamente scollegati dalla comprensione del loro impatto è superfluo. Come calcolarono dei ricercatori dell’MIT, anche un senzatetto emette 8,5 tonnellate di emissioni ogni anno. Se vivi in una società alimentata da combustibili fossili, non puoi avere un’impronta di carbonio sostenibile. È impossibile.
Di base, infatti, è proprio il concetto di impronta di carbonio a essere dannoso. E non a caso. Il calcolatore dell’impronta di carbonio, a cui in questo caso si rifà Intesa Sanpaolo, venne creato come strategia di marketing proprio dalle aziende petrolifere per gettare fumo negli occhi dei consumatori.
Già dagli anni 90, nei corridoi delle grandi aziende petrolifere si sussurrava come per continuare a svolgere in maniera indisturbata il proprio lavoro – estrarre petrolio, incrementare gli utili, sbattersene della devastazione del pianeta – bisognava sostanzialmente minare le conoscenze sul surriscaldamento globale che stavano emergendo. Una nota interna del 1998 dell’American Petroleum Institute affermava infatti che “la vittoria sarà raggiunta quando i cittadini medi… riconosceranno le incertezze della scienza del clima”.
Quando questo non fu più possibile, perché molte persone continuavano a credere ai moniti degli scienziati, si passò alla strategia successiva: convincere i consumatori, attraverso la pubblicità, che dovremmo sentirci in colpa. E fu qui, all’inizio degli anni 2000, che la British Petroleum, uno dei quattro maggiori attori a livello mondiale nel mercato del petrolio e del gas naturale, assunse l’agenzia pubblicitaria Ogilvy & Mather proprio per diffondere la narrativa secondo cui il cambiamento climatico era colpa degli individui.
La campagna, che si chiamava Beyond Petroleum, vinse anche il premio pubblicitario “Gold Effie”, e coniava per la prima volta il termine “carbon footprint”, progettando persino un sistema per poter calcolare l’impatto personale sul pianeta. Lo schema manipolativo era chiaro: spostare la responsabilità della distruzione del clima globale dai reali responsabili a quelli individuali.
Dalle cause reali a quelle fittizie, attraverso il senso di colpa. Per quanto sia encomiabile cercare di ridurre la propria impronta di carbonio, la soluzione a un problema sistemico non potrà mai essere individuale. È per questo motivo che il cambiamento delle proprie abitudini non è azione, è distrazione. E c’è di più: è controproducente. Proprio perché il senso di colpa, tra le altre cose, può portare all’inazione.
Come scritto da Mark Kaufman su Mashable “anche se superficialmente innocuo, il termine carbon footprint ha lo scopo di manipolare i vostri pensieri su una delle più grandi minacce ambientali del nostro tempo”.
Le auto-deprivazioni e gli auto-martiri delle popolazioni privilegiate servono a poco, soprattutto in un’ottica in cui ora anche India, Cina e una grande fascia di paesi del Sud del Mondo stanno rapidamente incrementando i propri livelli di consumo di risorse. E di certo non può essere detto loro di privarsi dei benefici di cui noi abbiamo goduto indisturbatamente per decenni.
La pandemia ci ha fornito la prova più eclatante. Seppure durante il lockdown abbiamo drasticamente ridotto le nostre impronte di carbonio, le emissioni sono continuate a crescere subito dopo e continueranno fino a che i governi non avvieranno una transizione a forme di energia più pulite.
Intanto, nel 2022, British Petroleum ha registrato un utile record di oltre 27 miliardi di dollari, rispetto ai 12,8 miliardi del 2021. E a dispetto dello slogan “Beyond Petroleum” lanciato venti anni fa, l’azienda continua a privilegiare gli investimenti in petrolio piuttosto che destinare maggiori cifre nelle energie rinnovabili.
A fronte di questi dati, l’incoraggiamento a calcolare le nostre impronte di carbonio da parte del colosso britannico – responsabile, tra l’altro, anche del peggiore sversamento di petrolio nella storia, quando la piattaforma petrolifera della Deepwater Horizon esplose al largo del Golfo del Messico – è ancora più incoerente.
Allo stesso modo, è utile addentrarsi anche nelle logiche che muovono il greenwashing di Intesa Sanpaolo. Per quanto sia riuscita a fare breccia nell’immaginario collettivo come banca sostenibile, Intesa vanta il podio (insieme a Unicredit) delle banche più inquinanti d’Italia, responsabili di oltre l’80% di emissioni di tutto il comparto finanziario, proprio per i legami – mostrati qui – che la banca ha con il settore dei combustibili fossili.
E spiegandomi che pagando il veterinario ho emesso 9 kg di CO2, cosa spera che io faccia? Che mi senta in colpa quando provvedo alla cura del mio cane? Che avvii una insensata decrescita individuale delle mie transazioni come quelle app che invece ti premiano se raggiungi una certa soglia di passi giornalieri?
Di tragico c’è che questa non è nemmeno la prima volta in cui si cerca di convincere – riuscendoci – i consumatori che sono loro il problema. Nel 1971, durante la campagna per la giornata mondiale della Terra, andò in onda uno spot televisivo che promuoveva il claim “People Start Pollution. People can stop it”.
La pubblicità iniziava con l’immagine di un uomo che gettava rifiuti da una macchina in corsa, e l’idea era quella di persuadere i consumatori che il reale problema non fossero le aziende che guadagnavano milioni producendo imballaggi usa e getta, ma gli individui irresponsabili. Due decenni dopo, nel 1988, Margaret Thatcher, raccogliendo rifiuti a St. James Park, disse in favore di telecamere: “Non è colpa del governo, è colpa delle persone che consapevolmente e sconsideratamente gettano i rifiuti a terra”.
In quegli anni, le preoccupazioni sull’accumulo di rifiuti di plastica erano già presenti. Negli Stati Uniti, prima del 1950, gli imballaggi riutilizzabili come le bottiglie di vetro avevano un tasso di restituzione di quasi il 96%. Negli anni ’70, quel dato era sceso sotto al 5%. Nel 1971, ad esempio, la città di New York introdusse una tassa sulle bottiglie di plastica e nel 1973 il Congresso degli Stati Uniti discusse riguardo la possibilità di introdurre un divieto su tutti i contenitori non riutilizzabili.
Come raccontato da Stephen Buranyi sul Guardian, fin da subito però le aziende petrolifere e le lobby legate all’industria della plastica fecero pressione, prima contro la Corte Suprema, ottenendo l’annullamento della tassa, e poi contro il Congresso, sostenendo che una
soluzione simile avrebbe danneggiato migliaia di posti di lavoro. La strategia successiva fu quella di stringere un’alleanza con le aziende produttrici di bevande e di imballaggi per spostare la responsabilità dei rifiuti dai produttori ai consumatori, e disinnescare così il sentimento anti-plastica che si stava sviluppando.
Lo spot, infatti, fu realizzato dal gruppo no-profit Keep America Beautiful, finanziato proprio dai produttori di bevande e packaging usa e getta come Coca Cola e Pepsi. E la fallacia logica utilizzata era la stessa usata dalle lobby di armi prima, secondo cui “Guns don’t kill people, people do”, e per il concetto di Carbon Footprint successivamente.
La conseguenza di ciò, oltre a un ritardo enorme nella crociata contro la plastica, è stato credere che gettare i rifiuti nel bidone giusto e promuovere il riciclo fosse giusto e necessario. Ma di base si trattava, oggi come allora, di fumo negli occhi, perché ha
permesso a quelle aziende di continuare a inquinare indisturbate, mentre si sprecavano inutili energie in attività di riciclo inefficaci e dal basso impatto positivo.
In questo secolo, di plastica, ne abbiamo prodotta più di 10 miliardi di tonnellate, così tanta che potremmo imballare e inscatolare l’intera superficie della terra. Eppure, come ha scoperto una ricerca pubblicata su Science Advance qualche anno fa, siamo stati capaci di
riciclarne appena il 9%. Il 12% è stata incenerita, spesso liberando fiumi tossici. E il restante 80% è finito in discariche di ogni tipo o dispersa direttamente nell’ambiente.
Le ragioni sono da ricercare proprio nelle qualità fisiche della plastica: a differenza del vetro o della carta, la plastica si deteriora molto più facilmente (senza però la possibilità di ritornare allo stadio originale come avviene per la carta). E in secondo luogo nei prezzi del petrolio, che fanno sì che sia più conveniente produrne di nuova piuttosto che riciclare quella usata.
Ma questo lo si sapeva già. Come ha sottolineato Elizabeth Warren in uno scambio sulla CCN, citando cannucce, lampade a led e cheeseburger, i sacrifici individuali “sono esattamente ciò di cui l’industria dei combustibili fossili spera che si parli”. Quindi, se siete tra quelli che calcolano l’impatto della propria dieta, rilassatevi. Smettetela di giudicare il vostro compagno se continua a mangiare la carne, o la vostra coinquilina che si dimentica di riempire la borraccia. Piuttosto, lasciate scorrere l’acqua mentre vi lavate i denti, tenete accese le luci della casa, e non spegnete il gas mentre cuocete la pasta. Non siete voi a dover pagare questo disastro. Le bollette, quelle sì.