The Rocky Horror Picture Show
Jim Sharman
1975Prima che uscisse la versione cinematografica dello spettacolo teatrale irriverente di Richard O’Brien, costruita assemblando spezzoni scartati da film di fantascienza, parti musical e citazioni da Notes on Camp (il saggio di Susan Sontag del 1964), esistevano già i “film della mezzanotte”. Ma questa pellicola ha definito e perfezionato il concetto di cult cinematografico, e le sue proiezioni fuori orario si sono trasformate in raduni interattivi di cosplayer. O’Brien stesso recita nel ruolo di Riff-Raff, il tuttofare gobbo che introduce gli sperduti e innocenti Barry Bostwick e Susan Sarandon in un mondo fatto di freak, emarginati e fluidità sessuale; ovviamente, ogni loro resistenza è inutile. E poi diciamolo: chi ha bisogno del Dr. Frankenstein quando c’è il Dr. Frank-N-Furter, lo scienziato pazzo in calze a rete di Tim Curry capace di farvi fremere di eccitazione? Tutto questo è più che sufficiente per farci credere che la libertà totale sia proprio lì: a un solo salto a sinistra e poi un passo a destra. – David Fear
La febbre del sabato sera
John Badham
1977Signori e signore: ecco Tony Manero, 19 anni, di Bay Ridge, Brooklyn. Di giorno, questo ragazzo di periferia vende vernici e litiga con la sua famiglia italoamericana. Ma quando il sole tramonta e le luci della discoteca si accendono, diventa un dio. Il film di John Badham è legato così strettamente alla moda della disco music di fine anni ’70 che, cercando il vocabolo nel dizionario, si trova un’immagine di John Travolta, di bianco vestito, con la mano destra alzata verso il cielo. Questo film ha trasformato il ragazzo di Welcome Back, Kotter (in Italia: I ragazzi del sabato sera) in una vera e propria star, oltre a far conoscere all’America mainstream quello che era principalmente un movimento underground e a dare nuovamente ai Bee Gees una grandissima spinta commerciale. Le scene di ballo sono capsule del tempo così vivide da far quasi dimenticare quanto il resto del film sia duro e cupo, visto che in realtà è la storia della crescita di un ragazzo che si sta lasciando alle spalle i suoi amici, il suo quartiere e una vita che gli offre poche opportunità. Ma occhio ai capelli: ci ha lavorato un sacco! – D.F.
Cooley High
Michael Schultz
1975Ambientato nel 1964, all’apice del Movimento per i Diritti Civili, con una colonna sonora presa dal catalogo vibrante della Motown, questo racconto di formazione segue le gesta un gruppo di liceali neri di Chicago – capitanati dal poeta emergente Preach (Glynn Turman) e dal suo migliore amico Cochise (Lawrence Hilton-Jacobs), destinato al college – attraverso una serie di avventure adolescenziali (fughe da lezione, risse durante i party casalinghi…). In un momento in cui la maggior parte dei film di genere blaxploitation stava guidando lo sguardo del pubblico verso storie di sesso, crimine e droga, il regista Michael Schultz (Car Wash) si è concentrato sulla vita interiore di questi giovani neri. La scelta di puntare sul loro legame di amicizia non ha solo distinto Cooley High dalla massa di tutti i film contemporanei più sensazionalistici, ma virtualmente ha ridefinito la percezione di ciò che un film “black” poteva essere. – Robert Daniels
F come falso
Orson Welles
1973Orson Welles è al massimo della forma in questo film-saggio con cui innesta in una cornice cinematografica la sua capacità di raccontare storielle pittoresche. Inizia concentrandosi sul famigerato falsario d’arte Elmyr de Hory, per poi virare verso una riflessione sulla natura della verità e sulle storie che ci raccontiamo per dare un senso alle nostre vite. Nel frattempo, la compagna di Welles (l’enigmatica Oja Kodar) incombe sullo sfondo, vestita e non. Questa pellicola è un delizioso trip mentale e ci ricorda che la ricchissima filmografia di Welles comprende anche molto altro, oltre al più grande film di tutti i tempi. Anche se è un gioiello minore, F come falso è brillantissimo. – Mosi Reeves
Ganja & Hess
Bill Gunn
1973Il romanziere, drammaturgo, regista e attore Bill Gunn ha creato Ganja & Hess su commissione, per conto di una produzione indipendente desiderosa di commercializzare un film di blaxploitation. Ma la sinfonia in salsa afro-caraibica, rituali voodoo, senso di colpa cristiano, allusioni omoerotiche e tensione sessuale che ne è scaturita non è bastata ai suoi finanziatori, che avevano in mente un vampiro nero, veloce, simile a quello di Blacula. La trama ruota intorno a Hess Green (Duane Jones, che ha recitato anche in un altro capolavoro horror: La notte dei morti viventi), un antropologo che beve il sangue di un suo assistente (interpretato da Gunn stesso) che si è suicidato. Poi s’innamora della moglie dell’assistente, Ganja (Marlene Clark), quando lei viene a indagare sulla sorte del marito. Il lavoro davvero speciale di Gunn alla macchina da presa e le immagini brillanti rendono questa pellicola al contempo un film d’arte e un horror indipendente. Ha ottenuto recensioni entusiastiche al Festival di Cannes del 1973 e oggi è considerato un classico. – M.R.
Punto zero
Richard C. Sarafian
1971Ci sono un sacco di film sballati ambientati sulle highway in mezzo al deserto, e poi c’è Punto zero. Il veterano di Ai confini della realtà Richard C. Sarafian ha girato un “film della mezzanotte” capace di impressionare chiunque. Barry Newman è Kowalski, l’autista solitario al volante di un Dodge Challenger nel bel mezzo di una missione ad alta velocità per raggiungere San Francisco. I poliziotti lo inseguono? Incontra una comune di rockettari fanatici di Gesù? Ha la visione mistica di una motociclista hippie bionda che cavalca nuda la sua Harley, sulle note di Mississippi Queen? Sì, sì e ovviamente sì. La sua unica guida è Cleavon Little, nei panni del deejay radiofonico cieco Super Soul, che definisce Kowalski “l’ultimo eroe americano… l’ultima anima bella e libera del pianeta!”. Le tirate del deejay sono state messe in musica sia dai Guns N’ Roses (Breakdown) che dai Primal Scream (Kowalski) in tributo all’influenza di questo meta-road movie. – Rob Sheffield
Wattstax
Mel Stuart
1973Sette anni dopo i fatti di Watts, scatenati dalla morte di Martin Luther King Jr., al Los Angeles Memorial Coliseum si è tenuto un concerto con gli artisti della Stax Records. L’obiettivo era quello di pacificare la situazione. La frase “Io sono qualcuno”, pronunciata orgogliosamente dal maestro di cerimonie Jesse Jackson, è diventata il suo grido di battaglia. Questo emozionante documentario del regista Mel Stuart si distingue da altre cronache simili di eventi memorabili, come The Last Waltz, perché non è incentrato sugli artisti protagonisti (come gli Staples Singers, Rufus Thomas e Isaac Hayes, tra gli altri). È interessante, invece, perché testimonia le conversazioni tra persone di colore sui temi di discriminazione, coppie miste e blues. È l’unico film-concerto che dice ai neri “tu sei qualcuno” in ogni singola inquadratura. – R.D.
Io e Annie
Woody Allen
1977Per un istante, provate a dimenticare ciò che pensate di Woody Allen nel 2023 e tornate indietro nel tempo fino al 1977, quando Io e Annie ha sovvertito l’idea di commedia romantica con il suo mix di discorsi diretti alla telecamera, aragoste bollite e malessere esistenziale. Questo capolavoro premiato con quattro Oscar porta il pubblico nella psiche nevrotica dell’alter ego di Allen, Alvy Singer, che si invaghisce di una WASP (White Anglo-Saxon Protestant, e cioè bianca di origine anglosassone e di religione protestante, ndt) logorroica interpretata da Diane Keaton. Un po’ studio sugli ebrei americani e un po’ racconto della nascita e della morte di un amore, Io e Annie è molto più della somma dei suoi momenti migliori. Momenti che restano comunque deliziosi, dall’inquietante interpretazione di Christopher Walken (nel ruolo del fratello terrificante di Annie), fino allo starnuto sulla cocaina. Ma è la sua patina malinconica ad aver trasformato questo film in un modello da seguire per molti registi, negli anni a venire. E, naturalmente, poi c’è la Annie interpretata da Keaton: una donna dei sogni con un’anima profonda, sotto tutti i suoi atteggiamenti affettati. – Esther Zuckerman
Hester Street
Joan Micklin Silver
1975Hester Street inizia raccontando la storia di Jake (Steven Keats), prima conosciuto come Yankel, un uomo che crede di stare benissimo nella sua nuova casa di New York. Ma, all’arrivo della moglie Gitl (Carol Kane), la prospettiva si ribalta rapidamente e in modo straziante. Jake è disgustato dai modi “da vecchio mondo” di lei e vuole che la moglie si integri… ma non così tanto da andarsene di casa. Le istruzioni contrastanti che lui le impartisce sono crudeli, ma Gitl non si trasforma nell’immagine asfittica che Jake ha della donna americana. Al contrario, si adatta all’ambiente circostante a modo suo. Silver affida il film all’interpretazione incredibile di Carol Kane, nominata all’Oscar: l’attrice recita nel ruolo di Gitl con gli occhi sempre spalancati e preoccupati, come se anche lei fosse appena arrivata negli Stati Uniti. – E.Z.
Che botte se incontri gli “Orsi”
Michael Ritchie
1976L’estate del Bicentenario del ’76 è stata un’ottima stagione per i giovani appassionati di baseball: il lanciatore più in voga era il capellone di Detroit Mark “The Bird” Fidrych, mentre il film più di moda era Che botte se incontri gli “Orsi”. La commedia di Michael Ritchie ha come protagonista una squadra della Little League piena di bambini disadattati che imprecano come marine, ma è uno dei film sportivi più accurati a livello emotivo (e più divertenti) mai girati. Walter Matthau interpreta il ruolo della sua vita nei panni di Buttermaker, lo stronzo ubriacone che mastica sigari e allena una squadra sponsorizzata dalla Chico’s Bail Bonds. Ma gli Orsi iniziano a vincere quando mettono in campo una lanciatrice, Tatum O’Neal, e Jackie Earle Haley, un delinquente che gira in Harley. Tutti i ragazzini del film diventano eroi cult: Lupus, che prepara i martini dell’allenatore; Engelberg, che gli dice che guidare con una bottiglia di whisky aperta è illegale (“Anche l’omicidio, Engelberg. Ora rimettila a posto prima di mettermi in guai seri”); Ogilvie, il primo esperto di statistiche di baseball della cultura pop, in un’epoca in cui Bill James spediva ancora le copie autoprodotte di Abstract dal suo garage; e Tanner, che praticamente inventa la Generazione X nel momento in cui dice alla squadra rivale: “Ehi Yankees, potete prendere le vostre scuse e il vostro trofeo e ficcarveli su per il culo!”. Anche i sequel superano la linea di Mendoza. – R.S.
Il bandito e la “Madama”
Hal Needham
1977È l’ultima grande commedia sudista, il film più alla Burt Reynolds di Burt Reynolds degli anni ’70 (il che è tutto dire) e il Quarto potere del cinema redneck. Il bandito che gode di fama leggendaria negli ambienti del contrabbando e il suo socio “Snowman” (il musicista country Jerry Reed) vengono ingaggiati per trasportare illegalmente un camion di birra Coors (per davvero) da Texarkana ad Atlanta in poco più di un giorno. Come recita il tema musicale scritto da Reed, “hanno una lunga strada da percorrere e poco tempo per arrivare” e, a complicare le cose, ci si mettono la sposa in fuga interpretata da Sally Field e un gruppo di sballati alle loro calcagna. Hal Needham, regista, stuntman e amico di lunga data di Reynolds, non solo ha sfruttato il fascino e i tempi comici naturali della sua star, ma ha anche capito che la combinazione di inseguimenti in auto, cultura da camionisti e umorismo pecoreccio (un applauso al Buford T. Justice interpretato da Jackie Gleason) avrebbe costituito una tripletta perfetta per il circuito dei drive-in. Ma il film è stato stoppato all’uscita, fino a quando qualcuno alla Universal non ha pensato di concentrarsi sul mercato delle sale cinematografiche del Sud: a quel punto è decollato, viaggiando più spedito di una pattuglia di agenti della polizia di Stato all’inseguimento di una Trans Am che ha infranto i limiti di velocità. – D.F.
Wanda
Barbara Loden
1970L’unico film della regista e attrice Barbara Loden è incentrato su una donna che ha appena lasciato il marito e ha perso il suo lavoro in fabbrica. A quel punto fa comunella con un piccolo truffatore, passando dallo sgabello di un bar al sedile posteriore di un’auto con quella rassegnazione tipica del prigioniero che non sogna nemmeno più di fuggire. È il ritratto di uno spirito in frantumi, deprimente anche per gli standard dell’epoca. La sceneggiatura di Loden aveva suscitato scarso interesse, tanto da spingerla a occuparsi lei stessa della regia: è un film su una persona paralizzata dalle aspettative della società, girato da una persona paralizzata dalle aspettative della società. Però col tempo è stato rivalutato e ora è considerato una pietra miliare del cinema indipendente americano, un’opera sincera e molto personale, ricca di fascino per scrittori e registi incuriositi dalla breve vita e dallo straordinario senso di umanità di Loden. – Katie Rife
Rock’n’Roll High School
Allan Arkush
1979Per un periodo brevissimo (ma bellissimo) i Ramones sono stati star del cinema: con Rock’n’Roll High School, Joey, Johnny, Dee Dee e Marky hanno realizzato il loro A Hard Day’s Night in pelle nera. Dato che mediamente i ragazzi non avevano speranza di sentire i Ramones alla radio, né tantomeno di vederli al CBGB’s, il film del filone exploitation del regista Allan Arkush è stato una sorta di introduzione per tantissimi fan. Un grande applauso va a Siskel & Ebert, che hanno creduto nella pellicola quando nessun altro l’aveva fatto. L’eroina del film è P.J. Soles nel ruolo di Riff Randall, la ribelle punk che dice alla sua terribile preside (interpretata da Mary Woronov, la dominatrice della Factory di Andy Warhol): «Sono un’adolescente lobotomizzata!». Incentrare la storia su una fangirl femminista è stata una mossa ’90, fino a ispirare I Wanna Be Your Joey Ramone delle Sleater-Kinney. Il momento clou è un breve set dal vivo in cui i fratelli suonano Blitzkrieg Bop e She’s the One e, all’apice, aiutano Riff a far esplodere la scuola. Gabba gabba hey! – R.S.
Gli anni in tasca
François Truffaut
1976François Truffaut ha avuto un’infanzia difficile ed è diventato un regista molto sensibile ai pericoli che corrono i bambini e ai modi in cui il mondo si approfitta delle creature più innocenti e vulnerabili. Quindi Gli anni in tasca – uno spaccato di vita ambientato tra i ragazzini della città francese di Thiers – è un film che non ha nulla da invidiare ai lavori precedenti di Truffaut, come I 400 colpi e Il ragazzo selvaggio. Ed è vero, in particolare, se ci si concentra sulla storia di Julien (Philippe Goldmann) e degli abusi che subisce e che, inizialmente, passano inosservati agli occhi di insegnanti e compagni di classe. Ma Truffaut inserisce la storia del ragazzo in un quadro che mescola fantasia e malinconia, in una serie di esperienze infantili. È un tour de force in miniatura. – Keith Phipps
Pat Garrett e Billy Kid
Sam Peckinpah
1973Sam Peckinpah ci regala una splendida ode al genere western con Kris Kristofferson nei panni del fuorilegge dagli occhi pazzi e James Coburn in quelli dello sceriffo cinico ingaggiato per uccidere il suo vecchio amico. Il regista ha anche voluto uno spirito affine nel cast: Bob Dylan, un altro poeta del mito americano, qui impegnato nel suo primo ruolo drammatico. Dylan interpreta un vagabondo astuto di nome Alias, bravissimo con la chitarra e con il coltello a serramanico (Alias cosa? «Alias tutto quello che vuoi»). È praticamente il The Last Waltz dei western, pieno di rinnegati sconfitti dalla strada. Knockin’ on Heaven’s Door, la canzone-simbolo di Dylan, suona mentre il pistolero Slim Pickens, in punto di morte, siede in riva al fiume con la moglie Katy Jurado: due leggende del genere che guardano scendere quel nuvolone nero. Gli studios, come tragicamente accade spesso, hanno massacrato del tutto la versione di Peckinpah: ci è voluto il director’s cut del 1988 perché finalmente Pat Garrett venisse riconosciuto come uno dei suoi capolavori. – R.S.
Professione: reporter
Michelangelo Antonioni
1975Nell’ultimo grande film di Michelangelo Antonioni, Jack Nicholson interpreta un reporter intraprendente, David Locke, talmente deciso a occuparsi di un colpo di Stato in Ciad da assumere in fretta e furia l’identità di un trafficante d’armi morto nell’albergo in cui anche lui alloggia. Locke segue le tracce lasciate dal defunto, si mette nei guai e fa amicizia con una donna (Maria Schneider, identificata solamente come “la ragazza”: eravamo ancora negli anni Settanta più sessisti) che fugge con lui. Il “passeggero” del titolo inglese (The Passenger) potrebbe riferirsi allo spettatore che deve capire chi è il buono e chi è il cattivo in questo thriller sfumato e avvincente che sfrutta appieno la lentezza tipica di Antonioni nelle rivelazioni. – Kory Grow
Il fascino discreto della borghesia
Luis Buñuel
1972Benvenuti alla cena di Luis Buñuel: puoi andartene quando vuoi, ma non sperare di mangiare qualcosa. Il capolavoro di fine carriera del regista spagnolo vede riunirsi per una cena un gruppo di persone dell’alta borghesia, una specie di “who’s who” di star internazionali di metà anni ’70, tra cui Delphine Seyrig, Jean-Pierre Cassel, Bulle Ogier, Stéphane Audran e Fernando Rey. Il padrone di casa, però, non è preparato per ospitarli, per cui la compagnia a più riprese cerca un modo per consumare un pasto tutti insieme: così incontra terroristi, vescovi e soldati che raccontano storie di fantasmi e sogni dentro i sogni. La cosa curiosa è che nessuno riesce a mangiare un solo boccone. Buñuel è sempre stato l’anello mancante tra André Breton e i Monty Python, e questa commedia stravagante ed elegante sembra ancora il suo migliore mix di satirico e il surreale. Buon appetito. – D.F.
Bersaglio di notte
Arthur Penn
1975Il film neo-noir di Arthur Penn rappresenta la quintessenza di ciò che era la New Hollywood: un tipico prodotto di genere veniva rimesso a nuovo con una mano di vernice per incontrare la sensibilità contemporanea, per giunta con un finale deludente. In questo caso, il genere in questione era il poliziesco hard-boiled, ma il nostro investigatore protagonista (Gene Hackman, al top) è un ex atleta cornuto, frustrato e perennemente deluso, che agisce seguendo un codice di regole tanto anacronistico quanto la sua professione discutibile. C’è un dialogo che riassume al meglio il film, ma anche tutto un decennio in generale: alla domanda su chi stia vincendo la partita di football che sta guardando in televisione, Hackman risponde stancamente «Nessuno. Una squadra sta perdendo più lentamente dell’altra». – Jason Bailey
Amarcord
Federico Fellini
1973Il regista Federico Fellini ha attinto spesso al pozzo delle sue esperienze formative, ma probabilmente mai in modo così efficace come in questo ricordo della sua giovinezza nella Rimini degli anni ’30 dove i ragazzi fanno scorribande, i cittadini si fanno scherzi a vicenda, tutti desiderano le bellezze locali e le camicie nere di Mussolini iniziano a insinuarsi, lentamente ma inesorabilmente, negli ambienti di provincia. Il film ha nostalgia del passato e, nello stesso tempo, è attento a non cadere nel sentimentalismo, combinando uno sguardo terribile sull’ascesa del fascismo con quadri divertenti che coinvolgono parenti con problemi mentali, tradizioni locali stravaganti e una tabaccaia molto arrapata e formosa. Questa pellicola è divenuta il modello per quasi tutti i film successivi basati sui ricordi e si può rintracciare il suo Dna ovunque, da Roma ad Armageddon Time. Ed è un’ottima introduzione allo stile surreale molto personale, onirico e carichissimo del regista: un’estetica che gli è valsa il conio dell’aggettivo “felliniano”. – D.F.
Le lacrime amare di Petra van Kant
Rainer Werner Fassbinder
1972In alcuni film l’idea per cui “si fa sempre del male a chi si ama” viene messa in campo come pensiero fugace, ma questa storia caustica e tagliente sul masochismo in amore by Rainer Werner Fassbinder la trasforma in un mantra. Il prolificissimo regista tedesco ha superato se stesso con questo adattamento di un suo copione teatrale che racconta di una stilista (Margit Carstensen) che si innamora perdutamente di una modella (Hanna Schygulla) e trascina entrambe all’inferno. Le dinamiche di potere della coppia oscillano costantemente; nel frattempo, la cameriera silenziosa di Petra (Irm Hermann), anche lei perdutamente innamorata della sua datrice di lavoro, assiste a tutto e continua imperterrita a svolgere i suoi compiti quotidiani. Tutto finisce in un mare di lacrime amarissime. È difficile trovare un esempio migliore di storia in cui, penetrando la scorza cinica e ironica di Fassbinder, ci si imbatte nel romanticismo pulsante che c’è sotto. Né è possibile immaginare un utilizzo più devastante di The Great Pretender dei Platters. – D.F.
Frankenstein Junior
Mel Brooks
1974Se Mel Brooks, nel 1974, avesse pubblicato soltanto Mezzogiorno e mezzo di fuoco, dayenu (in ebraico significa: “sarebbe stato sufficiente”). Invece, in un solo anno ci ha regalato quel classicone e anche questa parodia perfetta dei film horror targati Universal: una doppietta di tributi bizzarri all’atto stesso dell’andare al cinema. Il nipote del leggendario medico Victor Frankenstein, Frederick Frankenstein (Gene Wilder) – si pronuncia “frah-ken-steen” – si avventura in Transilvania per prendere possesso della proprietà di famiglia. Incontra personaggi inquietanti di ogni tipo, come Frau Blücher [nitrito di cavallo], e alla fine intraprende l’attività di famiglia. Le gag non sono solo vincenti (“Quale gobba?”), ma dimostrano anche la profonda venerazione di Brooks per il cinema e in particolare, in questo caso, per il filone dei monster movie degli anni ’30. – E.Z.
Touch of Zen – La fanciulla cavaliere errante
King Hu
1971Le grandi storie epiche erano ormai passate di moda nella New Hollywood degli anni ’70, ma la grandeur cinematografica era ancora viva e vegeta a Taiwan. I primi 60 minuti del capolavoro di King Hu si dipanano come una combinazione di fiaba e film western vecchio stile, raccontando la vicenda dell’artista di provincia Ku Shen Chai (Chun Shih) e della sua storia d’amore con la principessa fuggiasca Yang Hui-ching (Feng Hsu). Poi arrivano i duelli a colpi di spada e tutto si trasforma in un racconto avvincente ed emozionante a base di arti marziali. Le scene di combattimento coreografate e il messaggio femminista hanno influenzato registi come Ang Lee e Zhang Yimou, rendendo il film una pietra miliare del genere wuxia. – K.R.
Suspiria
Dario Argento
1977I racconti di Dario Argento, tutti tinti di un giallo perfetto preso dalla scala Pantone, possono parlare di case infestate, streghe e altri tipici cliché dell’horror. Ma il modo in cui descrive il terrore che Suzy Bannion (Jessica Harper), una studentessa di danza classica, affronta in un collegio spettrale ci trasporta dentro l’incubo con lei. Quando un personaggio viene pugnalato al cuore, si vede il primo piano di un coltello che lacera un cuore pulsante; idem per i vermi e il filo spinato della sceneggiatura. Il gruppo rock dei Goblin fa un baccano infernale, trasformando la melodia di un carillon in una delle colonne sonore più ossessionanti e indimenticabili dell’horror. Suspiria non si guarda: si sente. – K.G.
Il colpo della metropolitana (Un ostaggio al minuto)
Joseph Sargent
1974L’impronta di questo adattamento del romanzo di Peter Godey a opera di Joseph Sargent è presente in tutte le pellicole da Le iene a Die Hard – Duro a morire; ma soprattutto questo è uno dei più grandi film di sempre ambientati a New York. Quando Mr. Blue (Robert Shaw) annuncia ai passeggeri della Linea 6 che lui e i suoi tre complici armati si sono impadroniti del treno e tengono tutti in ostaggio, si scatena quel tipo di risata divertita che si può sentire solo a New York. E solo a New York la trama si può dipanare per mano di un agente in sevizio nella metropolitana come Zachary Garber (Walter Matthau); le sue maniere pessime, il suo guardaroba sgualcito e la sua faccia conciata come un guantone da baseball distraggono, come accade per il tenente Colombo, dalla sua abilità investigativa, che viene svelata appieno in una delle più belle inquadrature finali di tutto il cinema americano. – J.B.
Il pianeta selvaggio
René Laloux
1973Anche in un anno in cui sono usciti film incredibili come La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky e Belladonna of Sadness di Eiichi Yamamoto, spicca questa storia allucinante di René Laloux sul tema dei diritti umani. Questo film d’animazione è incredibilmente affascinante e non solo perché i Draag (i grandi umanoidi blu) e i loro animali domestici Oms, simili a esseri umani, sono spesso nudi. È anche pieno di creature bizzarre simili a calamari e l’animazione è semplice e minimale, lontana dalla fluidità dei film Disney. La famosa colonna sonora jazz-funk di Alain Goraguer si dipana in sottofondo, facendo somigliare il tutto a una satira alla Jonathan Swift. Il pianeta selvaggio è l’opera più famosa del francese Laloux, che ha diretto diversi cortometraggi e altri due lungometraggi (in particolare Gandahar del 1987) prima della sua scomparsa nel 2004. – M.R.
Gates of Heaven
Errol Morris
1978Il modo più semplice per descrivere questo esperimento commovente e fuori dagli schemi di Errol Morris è definirlo un documentario ironico sul tema dei cimiteri per animali domestici, con tanto di interviste ai proprietari e ai gestori di un’attività in crisi e di una a cui gli affari vanno bene. Ma questo film, in definitiva, è molto di più. È una disamina onesta delle tradizioni di famiglia, costellata di ritratti vividi del modo in cui l’ottimismo ingenuo americano alimenta la macchina tritacarne del successo. È uno spaccato di vita incorniciato come se fosse un’opera d’arte, con inquadrature studiate con cura e arricchite con oggetti di scena accattivanti, e popolato da persone che parlano di filosofia: non solo di cani e gatti, ma anche delle sottili differenze tra la vita e la morte. – Noel Murray
I diavoli
Ken Russell
1971Questa bomba blasfema di Ken Russell è un raro esempio di film che è stato davvero fatto fuori dalle autorità: la pellicola, infatti, fino al 2004 non è mai stata proiettata pubblicamente nella sua versione uncut. L’abbondanza di scene blasfeme e oscene è il principale motivo dei guai con la censura, e Vanessa Redgrave è bravissima nel ruolo di una badessa perversa che accusa di stregoneria un prete rubacuori (Oliver Reed). Ma le implicazioni politiche della storia – una critica spietata alla corruzione e all’ipocrisia delle sedicenti autorità morali – sono altrettanto pericolose. Nella visione di Russell, il celibe è il peccatore e il libertino il santo: un ribaltamento di prospettiva provocatorio, proprio come la scena (che spesso viene tagliata) in cui Redgrave succhia la ferita sul costato di Cristo. – K.R.
Quinto potere
Sidney Lumet
1976Quasi tutte le idee assurde della sceneggiatura di Paddy Chayefsky si sono tristemente avverate nell’era di Fox News. Peter Finch e Faye Dunaway hanno vinto entrambi un Oscar per le loro interpretazioni: un conduttore che ha una crisi di nervi in onda (con la battuta emblematica «Sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!») che lo trasforma in una specie di “profeta pazzo dell’etere” e una dirigente di rete sociopatica disposta a tutto, fino ad arrivare all’assassinio, per fare audience. Diretto da Sidney Lumet e con performance magnifiche di William Holden, Robert Duvall, Ned Beatty e Beatrice Straight (che ha vinto un Oscar per una scena!), Quinto potere è tanto esilarante quanto agghiacciante. Quella che era iniziata come una satira si è invece rivelata una profezia. – Alan Sepinwall
Colpo secco
George Roy Hill
1977Questa commedia ambientata nel mondo dell’hockey sembra tracciare la linea di demarcazione tra il Paul Newman giovane, bello e star del cinema e la sua fase da caratterista ormai provato (ma sempre bello). L’attore interpreta Reg Dunlop, l’allenatore di una squadra della minor league in crisi, in una città siderurgica in decadenza, che cerca di motivare i suoi inaugurando un nuovo stile di gioco incredibilmente violento inserendo in formazione i due fratelli Hanson, rudi e spietati. Scritto da Nancy Dowd e diretto da George Roy Hill, Colpo secco sfrutta in maniera esilarante le personalità rozze e primitive di Reg e dei suoi giocatori, con Newman che interpreta il suo ruolo senza mostrare la minima traccia di vanità; il mix di volgarità e comicità fisica lo rende il film sportivo più divertente di sempre. – A.S.
Carter
Mike Hodges
1971Questo storico film poliziesco inglese segna il momento in cui i kitchen-sink drama tipici del cinema britannico anni ’60 si sono trasformati in distillati di efferatezza sfrenata. Il film vede il gangster londinese Michael Caine precipitarsi in treno nella sua città natale di Newcastle, dove deve indagare sulla morte misteriosa del fratello per avvelenamento da alcol: il suo viaggio si conclude fra pallottole e sangue. Il regista e sceneggiatore Mike Hodges ha adattato Carter dal romanzo pulp di Ted Lewis Jack’s Return Home e riempie lo schermo con scene di esterni grigi e cupi, malessere della classe operaia e personaggi che sembrano tutti nascondere un trauma segreto. Al centro c’è Caine, che pare irradiare una strana calma che si incrina solo con la violenza. – M.R.
Il cacciatore
Michael Cimino
1978È una delle prime pellicole americane a valutare con freddezza e durezza le conseguenze del coinvolgimento statunitense in Vietnam. Nel 1978 ha vinto l’Oscar come miglior film e segue le vicende di tre operai siderurgici (interpretati da Robert De Niro, Christopher Walken e John Savage) che si arruolano nell’esercito per andare a combattere oltreoceano. Tutti sono catturati e divengono prigionieri di guerra. Due tornano a casa segnati profondamente nel fisico e nella psiche; uno rimane là e ogni notte rivive i traumi della prigionia. L’epopea di Michael Cimino è ricordata soprattutto per le sequenze terribili dei Viet Cong che costringono i prigionieri a strazianti partite di roulette russa. Ma, rivisto ora, è il primo tempo del film a restare davvero impresso, con questi giovani uomini e i loro compari di caccia che bevono, si divertono, parlano di tante cose e si scatenano a un matrimonio. È un ritratto molto realistico della comunità dei colletti blu di questa piccola città e del cameratismo fra uomini che rende ancora più stridente il brusco passaggio ai campi di prigionia (immaginate di guardare A cena con gli amici e qualcuno, a metà, cambia improvvisamente canale per passare ad Apocalypse Now). Ma tutto questo rispecchia perfettamente il senso di disorientamento violentissimo che questi uomini normali americani al 100% provano in Vietnam, così come l’alienazione che investe il personaggio di De Niro, una volta tornato a casa. Questo è stato anche il film che ha dato a Meryl Streep il suo primo grande ruolo cinematografico e ci ha regalato l’ultima interpretazione del compianto e grandissimo John Cazale. – D.F.
Harold e Maude
Hal Ashby
1971Parte commedia nera e parte manuale d’istruzioni per la vita, l’amatissimo film di culto di Hal Ashby vede protagonista un Bud Cort angelico nei panni di Harold, un rampollo privilegiato e svogliato che passa le sue giornate partecipando ai funerali di estranei e inscenando finti suicidi per scuotere una madre assente (Vivian Pickles). Poi conosce Maude (Ruth Gordon), un’anziana signora anche lei appassionata di funerali che ha però una voglia di vivere che il morboso Harold può solo sognarsi. I due diventano inseparabili e l’entusiasmo di Maude è contagioso, mitigato solo da alcuni accenni alle difficoltà affrontate per arrivare all’età di 79 anni e dal presentimento che non abbia più molto tempo davanti a sé. Ingenua in modo sfacciato e stimolante, questa è una commedia nera che guarda in faccia la disperazione e osa anche riderci su. – K.P.
Brian di Nazareth
Terry Jones
1979Questo film, uno dei migliori della produzione firmata dai Monty Python, può vantare una delle scene conclusive più grandi della storia della commedia. La premessa è che Brian Cohen (Graham Chapman) nasce in una stalla di Gerusalemme, proprio accanto a quella dove viene al mondo Gesù Cristo. Ne derivano grandi situazioni comiche e, senza svelare troppo, diciamo che il destino di Brian non è molto diverso da quello del figlio di Dio. Come canta Eric Idle al messia riluttante, alla fine, “Guarda sempre il lato positivo della vita”; la canzone è diventata una specie di inno nazionale e Idle l’ha riproposta alle Olimpiadi di Londra del 2012. Tutti i membri dei Python sono bravissimi e Sue Jones-Davies spicca nel ruolo di Judith. Da notare un cameo di George Harrison, che ha finanziato Brian di Nazareth attraverso la sua società HandMade Films. – 2
The Wicker Man
Robin Hardy
1973Primo maggio, 1973: un sergente della polizia arriva sulla remota isola scozzese di Summerisle per indagare sulla scomparsa di un bambino. Si ritrova in una strana enclave pagana: la gente del posto balla intorno a un albero della cuccagna, pratica antichi rituali celtici e fa sesso nei campi. Robin Hardy, dai primi istanti fino ai minuti conclusivi terrificanti di The Wicker Man, ha creato l’incubo folk-horror per eccellenza. Edward Woodward è un poliziotto cattolico e bacchettone, inorridito dalla nudità che vede sull’isola; Christopher Lee è l’affabile Lord Summerisle, che insiste a dire: «Bisogna sempre rimanere aperti alle influenze rigenerative». È una satira dark di tutte le fantasie post-hippie legate al “ritorno alla terra”, con Lindsay Kemp (ossia l’insegnante di mimo di David Bowie e Kate Bush, nella vita reale) nei panni di un locandiere e la musa rock Britt Ekland in quelli della sua figlia lasciva. La musica freak-folk di Paul Giovanni è divenuta parte integrante della leggenda del film: stranamente fino agli anni ’90 non è stato stampato un album ufficiale della colonna sonora, eppure brani come Willow’s Song sono diventati dei classici psych-prog. E tributi come Midsommar – Il villaggio dei dannati non fanno altro che riaffermare il potere terrificante dell’originale. Canta, cuculo! – R.S.
Animal House
John Landis
1978Questa produzione della serie National Lampoon ha stabilito il paradigma “slobs vs. snobs” che avrebbe caratterizzato gran parte dei film comici per i decenni a venire, ed è stata di gran lunga il miglior exploit cinematografico per il talento comico prodigioso, ma peculiare, del grandissimo e compianto John Belushi. Nei panni di Bluto Blutarsky, membro ubriacone e zozzone (in tutti i sensi) della ripugnante confraternita Delta House, la star del SNL è una tale forza della natura che non si può fare a meno di pensare che questo sia il suo film, anche se i colleghi Deltas Tim Matheson, Peter Riegert e Tom Hulce hanno ruoli più importanti. È talmente carismatico che, quando Bluto chiede, nel bel mezzo di un discorso di motivazionale, «È forse finita quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbor?», nessuno osa interromperlo per chiedergli spiegazioni. – A.S.
Woodstock
Michael Wadleigh
1970Uno dei primi grandi film degli anni ’70 è la cronaca di uno degli eventi più importanti degli anni ’60 e, a suo modo, degli ideali di quell’intero decennio. Il regista Michael Wadleigh ha guidato un team di giovani cineasti (tra cui un Martin Scorsese con la faccia da bambino) a Bethel, New York, per documentare il festival di musica e pace dell’agosto 1969; le riprese sono state caotiche quasi quanto il festival, realizzate con più telecamere e 80 chilometri di pellicola. Ma, oltre a immortalare artisti come Santana, Who, Crosby, Stills & Nash e Jimi Hendrix al loro apice, il film ha raccolto impressioni e spunti di riflessione degli organizzatori, del pubblico e degli abitanti di Bethel che si sono trovati spiazzati: il risultato è un ritratto a 360° di un evento culturale epocale. Tutto è assemblato con una grandissima urgenza e un’energia anfetaminica: le vibrazioni sono deliziose e le performance elettrizzanti. Dopo Altamont, che si è tenuto tra l’evento di Woodstock e l’uscita della pellicola nelle sale, fin dalle prime proiezioni questo film-concerto leggendario aveva già il sapore della nostalgia malinconica. – J.B.
La rabbia giovane
Terrence Malick
1973Nel corso di due mesi, a cavallo tra il 1957 e il 1958, il netturbino diciannovenne Charles Starkweather ha coinvolto la sua ragazza quattordicenne, Caril Ann Fugate, in una serie di omicidi nel cuore del Midwest, lasciando una scia di dieci vittime e segnando l’immaginario popolare. Era una vicenda di cronaca che ricordava la storia d’amore e morte di Bonnie e Clyde. Ma, nel suo primo lungometraggio, Terrence Malick – ispirandosi a Starkweather e Fugate – intraprende una direzione iconoclasta, ignorando il facile richiamo del sensazionalismo per concentrarsi sulla relazione tra Kit (Martin Sheen) e Holly (Sissy Spacek): lui è un greaser antisociale col grilletto facile, lei una ragazzina annoiata che pensa che lui assomigli a James Dean. L’interesse di Malick per la natura, che segna tutta la carriera del regista, conferisce a La rabbia giovane un’aura sognante e innocente che contrasta nettamente con le esplosioni di violenza che si susseguono con indifferenza sconcertante. – Scott Tobias
Il fantasma del palcoscenico
Brian De Palma
1974In un universo alternativo più figo, la rilettura in chiave satirica di Brian De Palma del mito del fantasma dell’opera sarebbe un grandissimo “film della mezzanotte”, allo stesso livello di The Rocky Horror Picture Show. Paul Williams (che ha scritto la maggior parte delle canzoni di questo musical di culto) interpreta il ruolo di un produttore diabolico che vuole inaugurare una nuova sala da concerto mettendo in scena una versione rock del Faust; i suoi piani, però, vengono ostacolati dal cantautore sfigurato (William Finley) che infesta l’edificio. De Palma era all’inizio della sua carriera, ma ha comunque sfoderato tutto il suo arsenale di trucchi stilistici (ci sono split screen come se piovesse) e mostrato una gran voglia di mordere forte la mano che lo nutriva. – S.T.
Lo spirito dell’alveare
Victor Erice
1973Nella campagna spagnola del 1940, una bambina di sei anni di nome Ana (Ana Torrent) è ossessionata da Frankenstein, un film di cui fatica a comprendere il significato, ma che le sembra profondo anche se inafferrabile. Quando Ana fa amicizia con un soldato repubblicano che si è rifugiato in un ovile diroccato e lo aiuta, dà a Frankenstein un significato di sua invenzione: è un mostro gentile e incompreso. Nel frattempo lei inizierà a capire la morte e la delusione e a dare i primi segnali di ribellione. Ambientato poco dopo la conclusione della Guerra Civile spagnola con l’ascesa di Francisco Franco (il film è uscito nelle sale verso la fine del regime franchista), l’esordio del regista Victor Erice, riflessivo e visivamente ricchissimo, funziona come storia universale sulla fine dell’innocenza infantile, ma anche come rappresentazione spietata del modo in cui la compiacenza abbia aperto la porta all’autoritarismo (e dell’obbligo di richiuderla che spetta alla generazione successiva). – K.P.
American Graffiti
George Lucas
1973Anticipando l’ondata di nostalgia imbrillantinata per la cultura greaser che avrebbe investito gli anni Settanta (da Fonzie a Grease), il regista George Lucas ha scritto American Graffiti ricordando i giorni felici del 1962, quando ha compiuto 18 anni e i tipi tosti percorrevano lo strip per rimorchiare ragazze, facevano gare di accelerazione, giocavano scherzi ai poliziotti e facevano i gradassi. Un cast d’eccezione (che comprende Richard Dreyfuss, Ron Howard, Harrison Ford, Cindy Williams e Paul Le Mat) fa emergere l’inquietudine adolescenziale che cova sotto la cenere in una tranquilla cittadina, mentre i ragazzi si preparano ad andarsene “finalmente da questa città di tacchini” (parole di Howard). Tra tante sbruffonate («La tua macchina è più brutta di me», dice la tredicenne Mackenzie Phillips), ci sono anche momenti di vero sentimento, come la sequenza finale ad alta velocità. Inoltre, questo film vanta ciò che manca a tutti gli imitatori: Wolfman Jack. – K.G.
Harlan County USA
Barbara Kopple
1976Immediatezza e coinvolgimento sono componenti fondamentali di tanti documentari ottimi, ma il potentissimo esordio di Barbara Kopple è una masterclass su come traghettare gli spettatori dentro le vite dei suoi protagonisti. L’autrice ci porta in prima linea nella vicenda del drammatico sciopero dei minatori di carbone del Kentucky, all’inizio degli anni ’70, quando hanno sfidato la Duke Power Company guidata dal capitalista senza scrupoli Carl Horn. Mettendo da parte i cliché paternalistici sulla vita della classe operaia, il film si pone come un tributo al lavoro onesto, mostrando la sincerità schietta di diversi cittadini americani comuni che sono costretti a sopportare le condizioni di lavoro pericolose della miniera, ma riescono a malapena a tenere la testa fuori dall’acqua, a livello finanziario. È emozionante nella sua semplicità – l’apice è l’attivista e cantautrice Florence Reece che esegue un’interpretazione potente e spartana di Which Side Are You On? – e avvincente come un thriller quando la Duke Power inizia a minacciare le vite dei lavoratori in sciopero. La macchina da presa di Kopple è lì per catturare il terrore e il caos e non c’è dubbio sulla parte con cui schierarsi, in questo confronto tra Davide e Golia. – Tim Grierson
Effetto notte
François Truffaut
1973François Truffaut ha trascorso la maggior parte della sua carriera girando film su un giovane appassionato di cinema (grande Antoine Doinel!) e/o in cui imitava gli autori che amava. Nel 1973, ha finalmente affrontato il tema del cinema in sé e ci ha regalato quella che è, forse, la cronaca più appassionata e poetica della cattura dei magici 24 fotogrammi al secondo. A partire dalla famosa inquadratura iniziale con la gru, Effetto notte (il titolo stesso, in originale La nuit américaine, si riferisce a un trucco cinematografico) utilizza un finto set cinematografico per sollevare il velo di Maya su quell’agonia ed estasi che è raccontare storie con una cinepresa, una troupe e l’idea ingannevole di cinema come forma d’arte. Eppure, anche quando Ferrand, il regista protagonista di Truffaut, fatica a portare sullo schermo la sua visione o a far sì che le sue star (in particolare Jean-Pierre Léaud e Jacqueline Bisset) lavorino bene, il film non tratta mai il lavoro di regia come qualcosa che sia meno di un miracolo. Questa pellicola è, al contempo, una spiegazione dei lati più sgradevoli della cinematografia e una lettera d’amore verso chi è abbastanza coraggioso o sciocco da voler fare dei film. – D.F.
Più duro è, più forte cade
Perry Henzell
1972Ivan (Jimmy Cliff), un nullatenente che sogna di diventare una celebrità nella musica, torna a Kingston sperando di farsi notare e incide un pezzo reggae intitolato The Harder They Fall, sicuro che sarà un successo. Ma la morsa delle autorità (la Chiesa, i disc jockey, la polizia) è ostile nei confronti di questo outsider. Quindi Ivan, dopo aver ucciso un poliziotto, si dà al crimine e – ironia della sorte – la notorietà lo proietta verso la celebrità. Il film ribelle di Perry Henzell inizialmente ha faticato a trovare un pubblico: è stato proiettato perlopiù negli orari vicini alla mezzanotte e gli accenti delle parlate hanno imposto il ricorso ai sottotitoli anche nelle sale americane. Ma la musica reggae non aveva alcun bisogno di traduzione e la colonna sonora (con hit epocali come la title track, Many Rivers to Cross e You Can Get It If You Really Want) ha fatto conoscere al mondo – pronto a divorarsi tutto – i panorami, i suoni e la gente unici della Giamaica. – R.D.
Gli amici di Eddie Coyle
Peter Yates
1973Un vero epitaffio per gli anni Settanta: «La vita è dura, amico. Ma è più difficile se sei stupido!». Peter Yates ha realizzato questo gangster movie di grandissimo impatto e anti-glamour che parla dei piccoli delinquenti irlandesi di Boston: gente come Eddie “Fingers” Coyle (Robert Mitchum), un perdente ormai sconfitto dalla vita che gravita nel mondo del traffico d’armi e che snocciola proverbi di strada come «Non chiedere mai a un uomo perché ha fretta». Ragazzi del racket che non sono altro che semplice manovalanza. Yates ha girato scegliendo come location tavole calde, bettole e sale da bowling, con un occhio di riguardo per i dettagli più crudi, basandosi sul romanzo di George V. Higgins. Il cast stellare comprende Peter Boyle, Alex Rocco e il rubacuori Steven Keats nei panni di una specie di Mick Jagger arrogante su una Plymouth Road Runner del ’71. Eddie Coyle è stato il primo dei film sulla mafia irlandese di Boston: ce ne sarebbero stati altri, ma questo non è mai stato superato. – R.S.
Conoscenza carnale
Mike Nichols
1971Molto prima che la “mascolinità tossica” diventasse un tema caldo, il regista Mike Nichols ha tracciato uno dei più terribili ritratti di uomini cattivi mai impressi su celluloide. Partendo dalla sceneggiatura spietata di Jules Feiffer, Jack Nicholson e “Arthur” Garfunkel interpretano i compagni di college Jonathan e Sandy, ognuno dei quali si strugge per le studentesse più belle e sgomita per dimostrare la propria spavalderia sessuale. La Susan di Candice Bergen diventa la ragazza di Sandy (che in un certo modo è il più sensibile), ma ben presto il perfido Jonathan la vuole per sé. Da qui parte uno studio lungo decenni sulla crudeltà, l’insicurezza e la competitività di questi uomini, che spesso prendono di mira donne innocenti (tra cui Ann-Margret, che ha avuto una meritatissima nomination all’Oscar per la sua performance) e così sfortunate da incrociare le loro strade. Recitato in modo crudele e spietato, Conoscenza carnale suscita risate amare per via della miseria di Jonathan e Sandy: è una satira velenosa che si fa beffe dei fragili ego maschili messi in pericolo dall’allora nascente movimento di liberazione della donna. – T.G.
Sweet Sweetback’s Baadasssss Song
Melvin Van Peebles
1971Verso l’inizio di questo film di protesta di Melvin Van Peebles del 1971, il performer di sex-show Sweet Sweetback uccide un paio di poliziotti che stanno brutalizzando un attivista di colore. Il nostro eroe intraprende così un percorso donchisciottesco nel ventre di Los Angeles, dove si imbatte in truffatori, sex worker, Hells Angels e vari razzisti schifosi, mentre cerca la via della libertà in Messico. L’atteggiamento da lupo solitario del protagonista rispecchia quello dello stesso Van Peebles, che ha rinunciato a un contratto con la Columbia Pictures per girare invece un film indipendente, crudo e rivoluzionario tanto nella forma quanto nel contenuto. Alla fine è diventato uno dei film indipendenti di maggior successo di tutti i tempi, ha contribuito alla nascita di un genere ed è stato citato da tutti, compresi Huey Newton a Spike Lee, come una sorta di rivelazione per il cinema. – K.R.
Zombi
George A. Romero
1978La notte dei morti viventi di Romero, nel 1968, ha dato vita al filone moderno di film sugli zombie dimostrando, anche se accidentalmente, che gli sciami di non-morti possono suscitare riflessioni cupe sull’attualità. Dieci anni dopo, Romero era pronto a sfruttare al meglio le possibilità più dark e satiriche offerte dai morti che camminano, con questo sequel del suo classico dell’orrore. Quattro sopravvissuti si intrufolano in un centro commerciale di Pittsburgh, proprio nel cuore di una zona pericolosa infestata dall’orda di zombie, e lo trasformano in un paradiso del consumismo tutto per loro, facendo del proprio meglio per isolarsi dal mondo esterno. È la metafora perfetta di un decennio che si è lasciato alle spalle l’idealismo degli anni Sessanta e quella dei limiti dei piaceri materialistici e ottusi (e Romero non lesina sugli zombi striscianti o sul gore più scioccante). – K.P.
Sussurri e grida
Ingmar Bergman
1972Il melodramma struggente di Ingmar Bergman è intriso del sangue che sgorga da emozioni inconfessabili. I titoli di testa sono di un rosso acceso, così come le pareti della tenuta svedese del XIX secolo dove una donna, Agnes (Harriet Andersson), sta morendo di cancro. Le sue due sorelle, Maria (Liv Ullman) e Karin (Ingrid Thulin), attendono il suo trapasso, perdendosi nel rievocare traumi passati. Maria ricorda come la sua infedeltà abbia spinto il marito a pugnalarsi; Karin confessa pensieri suicidi, ricordando un episodio in cui si è ferita con un vetro: quando il marito l’ha vista, lei si è spalmata il sangue sul viso. L’opera omnia di Bergman è piena di film sconvolgenti a livello psicologico, ma pochi sono così scomodamente intimi e coinvolgenti come questo. – M.R.
Dusty and Sweets McGee
Floyd Mutrux
1971Questa è una vera gemma del cinema degli anni ’70 che merita di essere riscoperta: il docudrama dello sceneggiatore e regista Floyd Mutrux affronta con empatia, ma senza riserve, la vita dei tossicodipendenti, affidando a una manciata di veri addicted il compito di ricreare scene di spaccio, di furti e di espedienti per tirare avanti. Tra queste sequenze crude, il regista inserisce le testimonianze di altri tossici. Ne esce un quadro straziante della vita di strada di Los Angeles, che diviene anche un’istantanea di come gli anni ’60 idealistici siano scivolati – o meglio, precipitati – negli anni ’70. L’uso straordinario della radio pop di Los Angeles, che fa costantemente da coro greco, quasi sicuramente ha ispirato Quentin Tarantino per C’era una volta a… Hollywood. – D.F.
Coffy
Jack Hill
1973Lei è un’infermiera del pronto soccorso di Los Angeles assetata di vendetta dopo che sua sorella è divenuta schiava della droga… e credeteci, non vorreste mai mettervi contro di lei. Sfoggiando una folta chioma afro e tacchi altissimi, Pam Grier ci regala niente di meno che la prima supereroina di colore che si scontra con i papponi, gli spacciatori, i poliziotti corrotti e i politici che proliferano nei centri urbani d’America. Con gran cazzotti, calci volanti, un fucile a pompa a canne mozze e battute ammiccanti pronunciate con disinvoltura sfrenata, Grier ha dimostrato che l’arena dei film blaxploitation non era solo per i maschi: anche le donne nere potevano distruggere il sistema. – R.D.
All American Boys
Peter Yates
1979Questa storia di formazione divertente e commovente, d’ispirazione sportiva, segue quattro amici che cercano di capire cosa fare delle loro vite durante l’anno successivo al diploma di scuola superiore. Dave (Dennis Christopher) tenta disperatamente di sfuggire alla sua deprimente vita da “tagliapietre” (il soprannome dispregiativo che gli atleti della vicina Indiana University danno ai ragazzi del quartiere) e inizia a parlare, recitare e pedalare come i grandi ciclisti italiani che ammira. Alla fine, lui e i suoi amici (tra cui un Dennis Quaid giovane e sexy come non mai, nei panni di un ex quarterback rancoroso) si ritrovano a gareggiare contro i loro rivali del college nella gara ciclistica Little 500. Un film adorabile che funziona a tutti i livelli, con un gran lavoro di Paul Dooley e Barbara Barrie nei panni dei genitori amorevoli, ma perplessi, di Dave. – A.S.
Stalker
Andrej Tarkovskij
1979Questo dramma sci-fi enigmatico di Andrej Tarkovskij liberamente tratto dal romanzo Picnic sul ciglio della strada, racconta un viaggio epico che per i protagonisti si dipana sia a livello fisico che psicologico. Un tizio conosciuto semplicemente come Stalker (Aleksandr Kajdanovskij) guida due uomini – lo Scrittore (Aleksandr Kajdanovskij) e il Professore (Nicolai Grinko) – attraverso un paesaggio post-apocalittico e spoglio, la Zona, alla ricerca della Stanza, un regno misterioso in cui i desideri degli individui possono essere esauditi. Lasciate che il ritmo lento e meditativo di questo film vi assorba (e che la sua parabola ambigua su religione, morte e rinascita si faccia strada nella vostra mente e nella vostra anima): Stalker vi apparirà così come una delle metafore più ossessionanti di Tarkovskij della tendenza umana a farsi domande. Questi tre uomini entrano nella Zona pensando di sapere cosa troveranno, ma le loro aspettative vengono infrante: vedendo Stalker capirete esattamente come si sentono. – T.G.
Barry Lyndon
Stanley Kubrick
1975Dopo i suoi capolavori che hanno definito lo Zeitgeist (Il dottor Stranamore, 2001: Odissea nello spazio e Arancia meccanica), Stanley Kubrick ha realizzato questo adattamento di un’opera di William Makepeace Thackeray: un dramma storico-letterario che per certi versi è il suo lavoro più “normale”, ma anche il più impegnativo. Ryan O’Neal interpreta un furfante irlandese che vive una serie di avventure attraverso l’Europa della metà del XVIII secolo, osservando in prima persona l’assurdità del sistema classista mentre cerca di conquistarsi un posto al caldo in seno a un’aristocrazia diffidente. Gli interni a lume di candela e gli esterni crepuscolari sono sorprendentemente belli e il film si prende il tempo necessario per permettere allo spettatore di viverci dentro per un po’, sperimentando il ritmo lento e la ferocia sociale di un passato lontano. – N.M.
Mikey e Nicky
Elaine May
1976La paranoia e il bieco interesse personale sono le forze trainanti di questo film di metà anni ’70 caratterizzato da una chimica eccezionale tra le star Peter Falk (Mikey) e John Cassavetes (Nicky). Tecnicamente è un gangster movie, ma l’attenzione è più incentrata sui personaggi rispetto a quanto la definizione implicherebbe. L’azione si svolge nell’arco di una sola notte, mentre i due protagonisti si aggirano per il centro di Philadelphia cercando di evitare il sicario che Nicky è convinto di avere alle calcagna. Il film mescola la commedia sardonica della regista Elaine May con l’interesse di Cassavetes per la mascolinità instabile, partendo da un disagio incancrenito e arrivando a una rassegnata accettazione. Come per molti altri lavori di May, i contrasti con gli Studios hanno creato gravi frizioni dietro le quinte, cosa che le è costata un decennio di esilio dalla regia. Oggi il film è considerato il suo capolavoro. – K.R.
Shampoo
Hal Ashby
1975La rivoluzione sessuale non è mai sembrata così estenuante (o esausta) come nella satira di Hal Ashby sui costumi di fine anni ’60. Non sorprende che George Roundy – un parrucchiere motociclista interpretato dallo sceneggiatore-produttore-star Warren Beatty, che per il ruolo si ispira alla sua stessa reputazione di stallone della New Hollywood – sia in grado di corteggiare in modo convincente qualsiasi donna di Beverly Hills (insomma, già solo quella sua testa di capelli è afrodisiaca!). Ma a colpire è il modo in cui quest’uomo bellissimo ma molto sciocco sembra essere perennemente perso e distratto mentre passa da una conquista all’altra, con il suo asciugacapelli infilato nella cintura come fosse un pistola. Il brivido è svanito, ma l’inseguimento continua. Beatty e il suo sceneggiatore, Robert “Chinatown” Towne, infondono una deliziosa amarezza a questa farsa da camera del “Decennio dell’Io”: perché il film sarà anche ambientato nel 1968, alla vigilia dell’elezione di Nixon, ma è molto simile a una pellicola da post-sbronza degli anni ’70, con gli occhi gonfi per le conseguenze delle nuove libertà assaporate. Il cast – in cui troviamo Julie Christie, Goldie Hawn, Jack Warden, una giovanissima Carrie Fisher e Lee Grant, che ha anche vinto un Oscar – è perfetto. Il film stesso, per citare George, è «grande, baby. Semplicemente fantastico». – D.F.
Rocky
John G. Avildsen
1976Sylvester Stallone ha scritto questa sceneggiatura – che parlava di un pugile di fantasia che doveva affrontare un improbabile match per il titolo contro il famosissimo campione Apollo Creed (Carl Weathers) – come biglietto da visita per un’industria che apparentemente non sapeva bene cosa farsene di lui. Ma la storia è esplosa fino a vincere l’Oscar per il miglior film nel 1976 (battendo Tutti gli uomini del presidente e Quinto potere), a trasformare Stallone in una star di prima grandezza e a inventare, sostanzialmente, il genere dei film sportivi sui perdenti così come lo conosciamo oggi. Tra la colonna sonora entusiasmante di Bill Conti, le sequenze di allenamento e combattimento memorabili del regista John G. Avildsen e la notevolissima somiglianza di Stallone al Marlon Brando di Fronte del porto, non c’è da stupirsi che il franchise (con la serie di film Creed) sia ancora vivo e vegeto quasi cinquant’anni dopo. – A.S.
Halloween
John Carpenter
1978La trama è semplice: un paziente psichiatrico mascherato (Michael Myers) che ha ucciso la sorella (il giorno di Halloween, ovviamente) scappa da un istituto di cura. Torna nella sua città natale e inizia ad accoltellare le babysitter. La trama scarna, unita all’interpretazione eccellente della scream queen e nepo baby Jamie Lee Curtis (nel ruolo di Laurie Strode), ha trasformato questo film low-budget in un blockbuster inaspettato. La storia non spiega mai perché Myers sia così infuriato – i retroscena che coinvolgono lui e Strode sono stati raccontati poi nei vari sequel – ed è proprio l’assoluta casualità, insieme alla fotografia claustrofobica del film e alla colonna sonora fuori dagli schemi del regista John Carpenter, a colpire gli spettatori: chiunque poteva diventare una vittima di Myers, una cosa così orribile poteva accadere a tutti. – K.G.
I giorni del cielo
Terrence Malick
1978In questo melodramma malinconico e incantevole, Richard Gere e Brooke Adams interpretano una coppia di lavoratori stagionali che progetta di truffare un agricoltore che sta per morire (Sam Shepard) in modo da sottrargli la sua fortuna, temendo però di essere cacciati dalla sua tenuta bellissima se lui dovesse scoprire il loro piano. Il regista Terrence Malick descrive questo triangolo amoroso tragico con le parole di un’adolescente aggressiva (Linda Manz) che racconta la storia senza capirla veramente. L’ironia caustica del film sull’avidità, sul desiderio e sul vero significato di “paradiso” è supportata da alcune delle immagini più affascinanti del cinema degli anni ’70, opera dei direttori della fotografia Haskell Wexler e Néstor Almendros. Il risultato è un capolavoro unico, che ha convolto il suo creatore a tal punto da indurlo a non girare un altro film per vent’anni. – N.M.
Grey Gardens
Albert e David Maysles
1975Il documentario in stile cinéma vérité di Albert e David Maysles ci porta da Big e Little Edie Bouvier Beale, due parenti di Jackie O che, allora, vivevano immerse nello squallore più decadente nella loro villa degli Hamptons. La vita delle due Edie descritta in Grey Gardens è estremamente desolante, ma i Maysles (e il pubblico) restano affascinati dallo spirito incontenibile di Little Edie. I suoi abiti stravaganti, le sue performance musicali e alcune parole del suo vocabolario ancora sopravvivono negli spettacoli di drag queen e nelle parodie, ma il film contestualizza tutti i suoi numeri patriottici. Si tratta di un atto di adattamento a quella che è, sostanzialmente, una situazione compromessa e degradante. Le sue buffonate sono divertenti ma anche piene di dolore, e in quel dolore c’è l’immagine del declino di quella che molti vedevano come una grande famiglia americana. – E.Z.
Qualcuno volò sul nido del cuculo
Miloš Forman
1975Si potrebbe dire che Qualcuno volò sul nido del cuculo è stato il momento in cui il Jack Nicholson attore protagonista di grande complessità si è trasformato in “Jack”, nuova star nella costellazione di Hollywood, sorridente e vincitrice di un Oscar. Questo adattamento del bestseller di Ken Kesey del 1962 ruota attorno a Nicholson nei panni del piccolo criminale Randle McMurphy, che si fa ricoverare in un ospedale psichiatrico dell’Oregon per evitare di finire in prigione per aggressione. Lui è in quasi tutte le scene, più di Louise Fletcher nel ruolo dell’infermiera Ratched, affascina gli altri pazienti (fra cui Brad Dourif e Danny DeVito) e fa sapientemente l’amore con il pubblico. Anche se non tocca le profondità tormentate di successi precedenti come Cinque pezzi facili e Chinatown, è comunque straordinario nella sua ribellione a un sistema che, inevitabilmente, lo schiaccia. – M.R.
A Venezia... un dicembre rosso shocking
Nicolas Roeg
1973Una coppia inglese (Donald Sutherland e Julie Christie) perde la sua unica figlia, che muore annegata in un tragico incidente. I due si recano a Venezia per tentare di alleviare il senso di colpa e il dolore, ma una catena di omicidi seriali sta attanagliando la città. Che legame hanno le due cose? Nel thriller psicologico agghiacciante di Nicolas Roeg, i personaggi hanno lo stesso incubo, in cui compare sempre un impermeabile rosso, e sono legati dal rapporto inquietante tra un passato che vogliono dimenticare e un presente che continua a ricordare alla coppia il trauma vissuto. Lo stile di montaggio associativo e audace di Roeg raggiunge l’apice in una delle scene di sesso più hot dell’epoca – in cui un rapporto viene inframezzato con sequenze della coppia che si riveste – e in una rivelazione da infarto. – S.T.
Perché un assassinio
Alan J. Pakula
1974Ci sono film che attingono alla paranoia dei tempi e poi c’è la madre di tutti i thriller cospirativi di Alan J. Pakula: una pellicola incentrata su un giornalista (Warren Beatty) che si imbatte nel mistero dell’omicidio di un importante senatore durante un evento pubblico. Il profilo dell’assassino corrisponde a quello tradizionale del “killer solitario”… solo che sembra coincidere un po’ troppo bene. E il fatto che tutti i testimoni vengano presto trovati morti rende il tutto ancora più sospetto. L’investigatore interpretato da Beatty inizia a tirare le fila e identifica una corporation che potrebbe essere responsabile di una serie di uccisioni per conto dello Stato. Ma indovinate chi ha un bersaglio sulla schiena, ora, dopo questa scoperta? Girato un decennio dopo le indagini della Commissione Warren sull’assassinio di Kennedy e alla vigilia dello scandalo Watergate, questo sguardo sul modo in cui i poteri forti mantengono il proprio status non potrebbe essere più attuale e contemporaneo di così. E la scena del lavaggio del cervello, in cui un’accozzaglia di immagini rimescola il senso del bene, del male e di sé di un potenziale assassino resta una delle sequenze più agghiaccianti di tutti gli anni ’70. – D.F.
I tre dell’Operazione Drago
Robert Clouse
1973Se vi dicono “film di kung fu”, qual è la prima immagine che vi viene in mente? Bruce Lee a torso nudo, con le ferite sul petto e le mani in posizione di combattimento. Dopo aver lavorato in tv come spalla del Calabrone Verde, all’inizio degli anni ’70 la star sino-americana si è recata in Oriente per recitare in una serie di produzioni della Golden Harvest di Hong Kong. I film – Il furore della Cina colpisce ancora (1971) e Dalla Cina con furore (1972) – l’hanno reso famoso in tutta l’Asia. A quel punto Hollywood, nel tentativo di riprendersi la più grande star del continente, gli ha cucito addosso una storia che parla di un agente sotto copertura che si infiltra in un torneo di combattimento di un terribile cattivo. Il resto è storia. I tre dell’Operazione Drago avrebbe consolidato l’eredità di Lee rendendolo una specie di supereroe; e vederlo mentre travolge decine di uomini – in un turbinio di pugni, calci, bastoni e nunchaku – fa capire come lui abbia trasformato le arti marziali in un fenomeno di risonanza mondiale. La battaglia finale, in cui Lee combatte contro la sua nemesi dagli artigli metallici in una sala degli specchi, resta un pezzo da novanta immortale. – D.F.
Una moglie
John Cassavetes
1974È la più lacerante delle tante collaborazioni fra il regista John Cassavetes e l’attrice Gena Rowlands, e questo dramma esplosivo costituisce uno dei più grandi ritratti del naufragio mentale e della conflittualità coniugale. Rowlands interpreta Mabel, una mamma della California del Sud in grandissima difficoltà: i figli e Nick (Peter Falk), il marito irascibile, sono preoccupati che lei abbia un crollo da un momento all’altro. Il realismo teatrale e disordinato di Cassavetes non è mai stato così potente: è così che sua moglie – bravissima – può esplorare tutto il dolore, la confusione e il desiderio bruciante d’indipendenza di Mabel, con la macchina da presa che cerca disperatamente di stare al passo con l’imprevedibilità appassionata della protagonista. Ma sotto il caos superficiale di questo film si nasconde una riflessione compassionevole e attenta su un’epoca in cui le donne si scontravano con l’imposizione di restrizioni patriarcali. Mabel e Nick litigano così violentemente perché, nel profondo, si amano tantissimo: Rowlands e Falk fanno sì che ogni lamento angoscioso e ogni recriminazione lacerante colpisca con forza sconvolgente. – T.G.
Gimme Shelter
Albert Maysles, David Maysles, Charlotte Zwerin
1970La bellezza dei Rolling Stones derivava dal loro abbracciare edonisticamente l’ethos tutto sesso e pericolo del rock. L’orrore di questo documentario scaturisce dalla visione lucida della potenza inarrestabile della band dal vivo, che poteva essere ipnotica e terrificante nella sua intensità. Gimme Shelter è ricordato soprattutto per il suo finale raggelante – la morte dello spettatore Meredith Hunter durante lo show gratuito degli Stones ad Altamont, nel 1969 – ma per tutta la durata del film i registi Albert Maysles, David Maysles e Charlotte Zwerin restituiscono l’energia ammaliante e oscura della band, che evocava idee di liberazione e nichilismo. E quell’inquadratura finale con la reazione di Mick Jagger è struggente. – T.G.
Il rompicuori
Elaine May
1972Un film che fa sembrare ridicolo l’innamoramento può essere definito ugualmente una commedia romantica? Col suo secondo lavoro da regista, la notissima comica Elaine May ha dissezionato senza pietà i costumi e i rituali di accoppiamento della classe media americana, basandosi su un racconto di Bruce Jay Friedman adattato dallo sceneggiatore Neil Simon. Charles Grodin è esilarante e confuso nei panni di un neosposo che pensa di aver finalmente trovato l’anima gemella (Cybill Shepherd) mentre si trova in luna di miele con la moglie (Jeannie Berlin). Nell’era dell’amore libero, questa satira sociale graffiante metteva in scena in modo brillante il modo in cui alcuni ragazzi prendevano il motto “se ti fa stare bene, fallo” come una licenza per rendere infelici le donne. – N.M.
Richard Pryor: Live in Concert
Jeff Margolis
1979Nessun altro interprete, negli anni ’70, ha contribuito al cambiamento dell’arte della stand-up comedy come Richard Pryor, che, da imitatore acerbo di Bill Cosby nel decennio precedente, si è trasformato in un talento che infrangeva tutti i tabù unico nel suo genere, sempre clamorosamente sincero nelle sue analisi dei mali della società e dei problemi personali. Il suo tour del 1978 è stato filmato dal regista Jeff Margolis, che ha catturato il comico al top della forma e ha fornito a tutti gli ascoltatori dei suoi comedy album degli anni ’70 l’accompagnamento visivo di cui avevano bisogno. Pryor non si limita a raccontare barzellette o storie divertenti, ma diventa il protagonista del suo materiale, trasformandosi in cani, cavalli, scimmie, pneumatici d’auto, i suoi figli e (questa è la cosa più devastante) i bianchi. Pauline Kael l’ha definito “la più grande di tutte le performance mai immortalate su pellicola”, e non aveva torto. – J.B.
Scene da un matrimonio
Ingmar Bergman
1973Massimo rispetto per la bellissima versione cinematografica da 167 minuti uscita negli Stati Uniti, ma la sconvolgente cronaca di una coppia che si disinnamora, a opera del maestro svedese Ingmar Bergman, raggiunge vette ancora più alte nella sua forma originale di miniserie della durata di 281 minuti. In entrambi i casi, Liv Ullmann ed Erland Josephson danno vita ai loro personaggi infelici, Marianne e Johan, esprimendo il dolore e il bisogno di due persone che, anche dopo l’implosione del loro matrimonio e l’arrivo di nuovi partner, restano legate l’una all’altra. Bergman ha attinto dal malcontento che vedeva intorno a sé – anche nelle sue relazioni fallite – per raccontare questa storia cruda, ma umana, che tratta il divorzio come un fenomeno affascinante quanto il colpo di fulmine. Nonostante il male che si sono fatti l’un l’altra, Marianne e Johan hanno difficoltà a lasciarsi. E Bergman, senza dubbio, capiva a fondo le loro emozioni complicate. – T.G.
Non aprite quella porta
Tobe Hooper
1974Il debutto di Tobe Hooper del 1974 è permeato da un’atmosfera stagnante, come se aleggiasse odore di carne marcia (a quanto pare, anche il set del film, su cui regnava un’incoscienza ingenua tipica dell’epoca, puzzava parecchio). Questa produzione indipendente è arrivata nei drive-in esattamente al momento giusto, stabilendo il modello per il nascente cinema slasher con la sua storia di cannibali dei boschi (guidati dal massiccio e grottesco Leatherface di Gunnar Hansen) che inseguono degli adolescenti urlanti nella macchia del Texas orientale. Il film ha anche stabilito un archetipo, grazie all’interpretazione convincente di Marilyn Burns nel ruolo della “final girl” Sally Hardesty. – K.R.
L’uomo che cadde sulla Terra
Nicolas Roeg
1976Il debutto di David Bowie sul grande schermo è arrivato nel momento perfetto per fargli interpretare un personaggio estraneo alla vita sulla Terra, ma in pericolo di restare vittima della forza di gravità. Realizzato in un’epoca in cui Bowie seguiva una dieta a base di cocaina, latte e rituali magici, questo film di Nicolas Roeg lo vede nei panni di Thomas Jerome Newton, extraterrestre che giunge da un mondo gravemente colpito dalla siccità: è sulla Terra per cercare di salvare il suo pianeta natale e la famiglia che ha lasciato là. La storia di partenza, un romanzo di Walter Tevis, utilizzava questa premessa per esplorare il modo in cui la genialità viene travolta dalla dipendenza e dagli altri piaceri terreni. L’adattamento di Roeg mantiene questi temi aggiungendo strati allucinatori che trasformano l’America degli anni ’70 in una fantasia in cui il passato e il futuro continuano a collassare nel presente, il tutto visto attraverso gli occhi di una creatura che crede erroneamente di essere solo un visitatore e non un prigioniero. – K.P.
Strada a doppia corsia
Monte Hellman
1971Questo road movie indipendente di Monte Hellman è un classico ed è anche l’ultimo noir esistenziale sulle hot-rod, con due rockstar a bordo di una Chevy 150 del 1955 come protagonisti: James Taylor è il guidatore e il batterista dei Beach Boys, Dennis Wilson il meccanico. Sono due hippie che vivono di espedienti: arrivano in una città nuova, girano nei locali per appassionati di muscle-car in cerca di polli da spennare e poi truffano alcuni concorrenti di una grossa gara di accelerazione. Laurie Bird è l’autostoppista che raccolgono sulla Route 66 e Warren Oates lo sconosciuto a bordo di una GTO che li convince a farlo unire al loro viaggio. In una scena ad alta tensione, Oates salva i due da un gruppo di redneck che odiano gli hippie ricorrendo all’ironia. Sia per Wilson che per Taylor si è trattato di un incontro sporadico col cinema, ma entrambi sono convincenti. Se conoscete solo il Taylor di Sweet Baby James, il suo carisma cupo potrebbe sconvolgervi: non a caso Joni Mitchell è andata a trovarlo sul set e ne è uscita con le immagini poi trasposte in For the Roses. Strada a doppia corsia parla di gare che nessuno vince, su una strada da cui nessuno scappa. – R.S.
Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno
Martin Scorsese
1973Robert De Niro fa cinema da così tanto tempo che è facile dimenticare il periodo in cui era una giovane star irrequieta, imprevedibile e con un magnetismo quasi pericoloso. La sua entrata in scena nel film della svolta di Martin Scorsese, quando fa il suo ingresso in un bar al rallentatore sulle note di Jumpin’ Jack Flash e abbracciato a due ragazze, è uno dei momenti cinematografici più galvanizzanti del decennio e dà il via a una collaborazione che ha sempre sprigionato energia e potenziale esplosivo. Il suo Johnny Boy, un poco di buono che arriva dai recessi più malfamati della Little Italy di Scorsese, porta alla rovina il delinquentello interpretato da Harvey Keitel, che gli dà sempre una seconda possibilità finché il caos che lo accompagna costantemente non li inghiotte entrambi. – S.T.
Oltre il giardino
Hal Ashby
1979Attenti al santo sciocco. La satira favolistica di Hal Ashby ci mostra Chance (Peter Sellers), un sempliciotto con un ritardo mentale che ama i piccoli piaceri come guardare la televisione e curare il giardino del suo tutore. Costretto ad andarsene dalla casa dove vive da tantissimo tempo, viene investito dalla limousine di una riccona (Shirley MacLaine), che lo accoglie come ospite in casa propria, dove vive anche il marito, un magnate malato terminale (Melvyn Douglas). Chance il giardiniere diventa così “Chauncey Gardiner”, un personaggio di riferimento per l’alta società di Washington D.C.; il suo ripetere slogan televisivi e luoghi comuni sul piantare cespugli di rose è visto come espressione di una saggezza politicamente assennata, e persino il Presidente degli Stati Uniti (Jack Warden) inizia a chiedere il suo parere. Il romanziere e sceneggiatore Jerzy Kosinki ha chiaramente qualcosa da ridire sulla cultura della celebrità, sull’influenza della televisione sulla vita quotidiana e sui potenti così desiderosi di essere sul pezzo da arrivare a scambiare per intellettualismo da think tank i discorsi ingenui di un disabile mentale. Tuttavia, la gentilezza che Ashby e Sellers (soprattutto Sellers) mostrano verso questo personaggio controbilancia l’enorme cinismo in campo. La sequenza culminante, messa in scena con enorme disinvoltura, è comunque abbastanza sconcertante da scatenare discussioni su cosa Ashby & Co. intendessero comunicare con la parte “sacra” dell’equazione. Possiamo solo dire che questa chiusura era ammissibile solo alla fine dell’era cinematografica degli anni ’70, prima che il decennio successivo spingesse ai margini elementi come le sfumature e l’ambiguità. – D.F.
Guerre stellari
George Lucas
1977Nella prima metà degli anni ’70, Hollywood ha trasformato western, horror, gangster movie e praticamente ogni altro genere di film di serie B in racconti a tinte fosche e socialmente rilevanti. Poi è arrivato George Lucas con una saga di fantascienza frizzante e piacevole ispirata ai samurai, ai supereroi e ai piloti di caccia della Seconda guerra mondiale. La sua storia di un ragazzo di campagna spericolato di nome Luke Skywalker (Mark Hamill) che impara le vie della Forza e aiuta a salvare la galassia da un Impero oppressivo ha dato il via a un franchise multimiliardario e ha cambiato tutta l’industria dei blockbuster. E tutto ciò grazie a una semplice idea: cosa succederebbe se qualcuno applicasse l’intelligenza, il mestiere e l’entusiasmo dei film d’autore all’intrattenimento pensato per il grande pubblico? – N.M.
Cabaret
Bob Fosse
1972Fin dalla prima volta che si vede il riflesso inquietante del Maestro di Cerimonie interpretato da Joel Grey, che ha il volto dipinto coi colori bizzarri dei clown, è chiaro che il dramma di Bob Fosse ci sta trascinando in un mondo sotterraneo unico. Se All That Jazz – Lo spettacolo comincia è l’esorcismo personale di Fosse, Cabaret è la sua evocazione demoniaca che riporta in vita il mondo della Repubblica di Weimar mentre viene lentamente infettata dal nazismo. Il regista ha adattato con le musiche di John Kander e Fred Ebb la produzione teatrale del 1966, a sua volta tratta da una pièce ispirata ai racconti di Christopher Isherwood, e ha inventato un nuovo modello per il musical cinematografico. La storia di Sally Bowles (la leggendaria Liza Minnelli) si dipana su due piani: c’è il mondo del Kit Kat Club, una sorta di spazio liminare per le esibizioni di musical, e il mondo tra virgolette “reale”, dove l’edonismo spensierato della vita di Sally cede il passo al fascismo. È un film tanto agghiacciante quanto divertente. – E.Z.
Quel pomeriggio di un giorno da cani
Sidney Lumet
1975Il 22 agosto 1972 tre rapinatori di banche hanno tentato di mettere a segno un colpo per pagare l’operazione di cambio di sesso dell’amante di John Wojtowicz. E hanno finito per combinare un gran casino. Ma il regista Sidney Lumet ha intuito il fascino potenziale cinematografico di questa vicenda di cronaca, e nel suo film ha avuto il buon senso di affidare i ruoli principali ad Al Pacino e John Cazale, entrambi reduci dai film del Padrino. Quel pomeriggio di un giorno da cani però sembra molto più di una storia di rapine, dato che mostra in modo olistico tutti gli errori (da parte dei ladri e dei poliziotti), ma anche il caos in casa quando la moglie e la madre del personaggio di Pacino si rendono conto di ciò che sta accadendo e il suo amante (Chris Sarandon) confonde i poliziotti. La tensione cresce man mano che i rapinatori conquistano i passanti di Brooklyn e affascinano i media, per giungere poi al finale rapido e sanguinoso. – K.G.
Touki Bouki – Il viaggio della iena
Djibril Diop Mambéty
1973Con questo primo grande successo del cinema africano, il regista senegalese Djibril Diop Mambéty è esploso sulla scena internazionale come allievo di Jean-Luc Godard che combinava l’inventiva e la sperimentazione irrequieta della Nouvelle Vague francese con una storia di amour fou tipica del suo Paese. I giovani innamorati di Touki Bouki – un mandriano (Magaye Niang) con una moto con le corna da toro e una studentessa (Mareme Niang) di Dakar – sono stufi della vita in Senegal, così escogitano piani criminali per raccogliere il denaro necessario per andarsene a Parigi. Le loro buffonate da fuorilegge conducono a una fuga dalle autorità tesa e tortuosa, ma la loro avventura dà a Mambéty la libertà di giocare con il colore, il movimento e le convenzioni del road movie, offrendo al contempo un diario di viaggio vibrante che racconta il Paese che la coppia è così ansiosa di lasciarsi alle spalle. – S.T.
L’ultimo valzer
Martin Scorsese
1978«Peccato che Marty non fosse gay», ha detto la produttrice ed ex fidanzata di Scorsese, Sandy Weintraub, nel succoso libro-verità di Peter Biskind Easy Riders, Raging Bulls. Come la generazione sesso-droga-rock’n’roll ha salvato Hollywood. «La migliore relazione che abbia mai avuto è stata probabilmente quella con Robbie». Parla di Robbie Robertson, il frontman carismatico della Band che Scorsese ha ricordato affettuosamente in questo documentario-concerto chiassoso sull’ultima esibizione del gruppo. Combinando le interviste con le riprese del loro show del 1976 al Winterland Ballroom (con tanto di camei di Joni Mitchell, Bob Dylan, Neil Young, Van Morrison ed Eric Clapton), L’ultimo valzer non è solo un tributo al quintetto americano, ma anche a un’era del classic rock che sarebbe stata presto spazzata via da punk, disco e rap. Ogni componente della band ha spazio per brillare (riposa in pace, Rick Danko: la tua interpretazione di It Makes No Difference è meravigliosa), ma l’adorazione di Scorsese per il suo vecchio amico Robertson è palpabile, visto che gli punta addosso i riflettori sia sul palco che nei segmenti di intervista. Il frontman vedeva la sua band come un mito e L’ultimo valzer incoraggia gli spettatori a imprimere la band nella leggenda. – T.G.
Il conformista
Bernardo Bertolucci
1970Nella sua carriera, Bernardo Bertolucci avrebbe girato diversi film su personaggi travolti dalle forze della storia (L’ultimo imperatore, Novecento), ma questo thriller incredibilmente evocativo sul fascismo che si è insediato in Italia, ambientato durante la Seconda guerra mondiale, si concentra sulle anime passive che l’hanno reso possibile. Nei panni di Marcello, agente della polizia segreta di Mussolini, Jean-Louis Trintignant non interpreta un infervorato fedele alla causa, ma un uomo debole la cui missione di assassinare un suo ex professore è intralciata da un interesse adulterino per la moglie di lui (Dominique Sanda). Pochi film dell’epoca sono più belli da vedere, ma il vero successo del Conformista deriva dalla capacità di esplorare gli anfratti più oscuri dell’anima di Marcello. – S.T.
Incontri ravvicinati del terzo tipo
Steven Spielberg
1977Un regista meno dotato di Steven Spielberg avrebbe avuto difficoltà nel girare il film successivo a Lo squalo, ma lui è riuscito a non far trapelare alcun segno della pressione che sicuramente ha subìto. Incontri ravvicinati del terzo tipo è un mix di fantascienza e family drama del tutto convincente e di rara intelligenza, con il ritorno della star dello Squalo, Richard Dreyfuss, nei panni di un elettricista la cui vita viene irrimediabilmente sconvolta da un incontro con gli alieni. Quando il film è arrivato nelle sale, nell’autunno del 1977, l’amico di Spielberg George Lucas aveva già cambiato per sempre la fantascienza (e il cinema in generale) con Guerre stellari, uscito nell’estate. Ma l’emozionante ritratto by Spielberg di queste persone comuni che si imbattono in eventi straordinari è una sorta di viaggio da brivido a sé stante: riflessivo, pungente, impegnativo e sorprendente. – J.B.
Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles
Chantal Akerman
1975Lo scorso dicembre, la rivista inglese Sight & Sound ha definito Jeanne Dielman di Chantal Akerman il più grande film di tutti i tempi, spingendo un’ondata di aspiranti cineasti a correre a guardare questo classico del femminismo. Quello che hanno visto è una riflessione ammaliante di due ore e mezza su come i lavori domestici e la mancanza di opportunità distruggano la vita delle donne, anche di quelle più operose come la Dielman di Delphine Seyrig, madre vedova che si ingegna per guadagnare un po’ di soldi extra. Il film è incentrato sull’arco di tre giorni nella vita di Dielman, ma l’effetto più efficace è dato dal modo in cui il regista belga manipola il tempo e lo spazio angusto dell’appartamento, investendo di una tensione incredibile anche atti banali come pelare le patate e spremendo fuori la tragedia da una vita ordinaria andata storta. – M.R.
All That Jazz – Lo spettacolo comincia
Bob Fosse
1979Non si potrebbe certo accusare del reato di modestia il regista/coreografo/deus ex machina di Broadway Bob Fosse. E nemmeno lo si potrebbe tacciare di essere pigro o disinteressato ai piaceri edonistici: ha dato prova di grandissima genialità creativa, ha bruciato decine e decine di ponti e si è consumato in nome di una vita vissuta a 200 chilometri all’ora. All That Jazz parla di questa ricerca incessante: di donne, di lavoro, d’ispirazione e d’oblio. E parla anche del tributo che esige dall’artista, dai suoi collaboratori e dai suoi cari. Il Joe Gideon di Roy Scheider sta lavorando contemporaneamente a un musical di Broadway e a un film su un comico (ogni somiglianza con la produzione originale di Chicago di Fosse o con il suo biopic su Lenny Bruce è del tutto casuale). Lui è un figlio di puttana bugiardo, traditore, fumatore incallito, che s’ingozza di pillole: in pratica il regista sta trasponendo la propria autobiografia sullo schermo. Ma sta anche prendendo una forma teatrale che ha contribuito a rivoluzionare per portarne ancora più all’estremo le qualità fantastiche in nome dell’autocritica. Solo Fosse poteva trasformare la resa dei conti del suo stile di vita autodistruttivo in un ritratto d’artista, con Jessica Lange nel ruolo della Morte. E solo Fosse poteva regalarci il numero conclusivo di Bye Bye Love, in cui Scheider e Ben Vereen condividono il palco danzando mentre il nostro uomo abbandona le sue spoglie mortali. Una sequenza finale che ha ancora il peso di uno schiaffone in piena faccia. – D.F.
Il lungo addio
Robert Altman
1973«Per me va bene». Con questa frase, pronunciata tra una boccata e l’altra dell’immancabile sigaretta, Philip Marlowe (Elliott Gould) comunica la stanchezza di una generazione per la quale la permissività si è trasformata in cinismo. Il detective indaga su quello che sospetta essere l’omicidio di un vecchio amico, incarnando la versione dell’investigatore di Raymond Chandler nei panni dell’ultimo uomo di sani princìpi in quel nido di vipere che era la Los Angeles degli anni ’70 (e di sicuro è l’ultimo uomo a indossare una cravatta, laggiù). L’aura da uomo fuori dal tempo di Marlowe deriva anche dal team creativo intergenerazionale del film: Il lungo addio è stato scritto da Leigh Brackett (che nel 1946 aveva adattato Il grande sonno per Bogey e Bacall) e diretto da Robert Altman, che ha descritto la sua visione iconoclasta del classico antieroe come quella di «un perdente in tutto e per tutto». – K.R.
L’esorcista
William Friedkin
1973Anche a mezzo secolo di distanza, L’esorcista resta il film più spaventoso di tutti i tempi per il modo in cui Ellen Burstyn ha messo in scena l’impotenza di una madre. Il personaggio dell’attrice, Chris MacNeil, pian piano capisce che la figlia dodicenne (Linda Blair) non solo si sta comportando in modo bizzarro, ma potrebbe essere posseduta dal diavolo. Così Chris, esausta, deve superare il proprio agnosticismo e chiedere aiuto alla Chiesa, mentre la figlia gira la testa di 360° come un gufo, vomita zuppa di piselli e si pugnala l’inguine con un crocifisso. I sacerdoti interpellati si sentono altrettanto impotenti, per quanto vadano ripetendo la formula «il potere di Cristo ti espelle», e il ponte che costruiscono tra fede e incredulità funziona bene come gli effetti speciali del film (che sono ancora oggi scioccanti e visivamente sorprendenti), fino a rendere l’horror di William Friedkin un classico intramontabile e ineguagliabile. – K.G.
Apocalypse Now
Francis Ford Coppola
1979«Volevo una missione, e per i miei peccati me ne hanno assegnata una». Francis Ford Coppola inizialmente aveva deciso di trasformare la sceneggiatura di John Milius (che riambientava il romanzo di Joseph Conrad Cuore di tenebra in Vietnam, durante la guerra) in un’epopea vecchio stile. Il risultato è invece un sogno cinematografico febbrile, pieno di surfisti fanatici scavezzacollo, conigliette di Playboy, colonialisti francesi spettrali e Marlon Brando col trucco verde mimetico in faccia. Martin Sheen riceve l’ordine di addentrarsi nella giungla e «sterminare, con estremo pregiudizio» un ex berretto verde che è impazzito e si fa credere una divinità. In barca, insieme al suo equipaggio, attraverserà alcune delle ambientazioni più surreali che abbiano mai caratterizzato un film di guerra a budget elevato, fino a raggiungere il rifugio dell’ufficiale pazzo. Qui le cose si fanno davvero strane. Il caos che si vede sullo schermo è ampiamente paragonabile a quello scoppiato dietro le quinte e Coppola, come noto, ha affermato che il film non parlava del Vietnam, ma era il Vietnam. Eppure rimane un punto di riferimento e un ultimo sussulto di autorialità della New Hollywood, oltre a rappresentare perfettamente la follia, la caduta libera della morale e l’orrore della vita in tempo di guerra. Anche se è disponibile in versione normale ed extra-croccante, noi raccomandiamo caldamente il più recente “Goldilocks cut”. – D.F.
Céline e Julie vanno in barca
Jacques Rivette
1974Il miglior lavoro del regista leggendario della Nouvelle Vague francese Jacques Rivette parte da Alice nel paese delle meraviglie e da Henry James e finisce per trasformarsi in un nuovo tipo di film che nessun altro sarebbe stato in grado neppure di sognare. Céline (Juliette Berto) è una bibliotecaria, Julie (Dominique Labourier) una maga. Si incontrano in un parco parigino e subito diventano amiche affiatatissime, entrando l’una nell’immaginario dell’altra e condividendo le fantasie più surreali. Insieme inventano la loro nuova realtà e arrivano a sognare un’avventura in cui salvano una bambina in una casa infestata. Il film è una lettera d’amore gioiosa all’idea di amicizia come “folie à deux”, un gioco elaborato e una riflessione unica nel suo genere su come gli esseri umani possano donarsi reciprocamente dei poteri magici. E, nonostante le tre ore e 20 minuti di durata, finisce troppo presto. – R.S.
Eraserhead – La mente che cancella
David Lynch
1977Girato in modo discontinuo, nell’arco di diversi anni e man mano che tempo e denaro lo consentivano, il lungometraggio di debutto di David Lynch annunciava l’arrivo di un regista già completamente formato, più interessato a spingere gli spettatori in uno strano territorio di sua creazione che a incontrarli su un terreno familiare. Henry (Jack Nance) è un uomo normalissimo e timido che vive in una terra desolata (ispirata al periodo in cui Lynch ha vissuto in un quartiere industriale in decadenza di Philadelphia) e che è del tutto impreparato ad affrontare le responsabilità del matrimonio e della paternità, entrambi rappresentati da Lynch come incubi cupamente comici da cui Henry non potrà mai fuggire. Eraserhead mostra una purezza e una lucidità di visione che lo fanno sembrare una sorgente per i film di Lynch successivi. Le sue immagini sorprendenti, il sound design aggressivo e il surrealismo disinvolto e casereccio l’hanno reso un cult nel circuito dei “film della mezzanotte”. – K.P.
Monty Python e il Sacro Graal
Terry Gilliam, Terry Jones
1977Quando si sono cimentati in un lungometraggio che si è trasformato in un trionfo dell’assurdità, i Monty Python, grazie a un lavoro a sei mani, avevano già cambiato la comicità allontanandola dal vecchio schema legato a preparazione e battuta e portandola verso territori molto più bizzarri. Nella loro rilettura surrealista della leggenda arturiana, il re sciocco (Graham Chapman) non ha un cavallo, ma un lacchè che sbatte gusci di noci di cocco; i cavalieri malvagi chiedono… un arbusto; degli investigatori dei giorni nostri indagano su tutte le vittime del film. E, almeno nella realtà dei Python, i francesi sono ancora sgarbati. Il film non è stato il blockbuster che i suoi finanziatori (i Led Zeppelin, i Pink Floyd e Ian Anderson dei Jethro Tull) probabilmente speravano, anche se il successo mancato è stato «solo una ferita superficiale». Infatti è diventato un vero cult la cui influenza continua a crescere (avete presente Spamalot?). – K.G.
Tutti gli uomini del presidente
Alan J. Pakula
1976È rischioso girare un film che mette in scena un evento storico solo quattro anni dopo che è accaduto. Ma Alan J. Pakula non solo ha dimostrato che si può fare, ma anche che lo si può fare in modo da superare il test del tempo. Oggi sappiamo molto di più sullo scandalo Watergate rispetto al 1976, quando è uscito Tutti gli uomini del presidente (compresa l’identità di Gola Profonda), eppure tutto ciò non impedisce al thriller di Pakula sull’inchiesta rivoluzionaria di Woodward e Bernstein per il Washington Post di essere il capolavoro ansiogeno che tanti altri film sul giornalismo aspirano a essere. Robert Redford, con la sua aria da WASP, trasforma Bob Woodward nel perfetto contraltare dell’energia nervosa che Dustin Hoffman sprigiona nei panni di Carl Bernstein; insieme, fanno sembrare il semplice rispondere al telefono l’attività più eccitante mai vista sul grande schermo. Questo procedural di stampo giornalistico si è rivelato intramontabile, ma è anche uno dei film più rappresentativi degli anni ’70: non solo per l’argomento trattato, ma anche per il senso di paranoia che trasmette. – E.Z.
Alien
Ridley Scott
1979I componenti dell’equipaggio dell’astronave Nostromo vengono risvegliati inaspettatamente dall’ibernazione prima della fine programmata del loro viaggio: hanno a malapena riaperto gli occhi che iniziano già a lamentarsi. Come Dark Star (un altro film con Dan O’Bannon in veste di sceneggiatore), Alien descrive il viaggio interstellare più come un lavoro di routine noioso che non come una meraviglia cosmica. Fino al momento in cui l’equipaggio imbarca un passeggero inaspettato sotto forma di una creatura parassita. All’inizio l’alieno si annida nel corpo di uno dei membri del team, per poi uscire fuori dal suo petto facendolo esplodere; poi, lentamente e metodicamente, inizia ad ammazzare tutti gli altri. Lo spazio, a quanto pare, non è un luogo così avulso dalla lotta darwiniana per la sopravvivenza. Il contrasto tra le scenografie metalliche e artificiali di Alien con uno xenomorfo che risponde all’imperativo biologico di uccidere è solo uno degli elementi che fanno sì che questo film di Ridley Scott si insinui negli incubi di tutti coloro che lo vedono (un altro è l’aspetto delle creature ideate da H.R. Giger, un mix inquietante di ossa, muco e immagini di natura sessuale). Il tenente Ripley di Sigourney Weaver inizia il film come uno dei tanti personaggi minacciati dall’intruso, ma alla fine si conquista un posto nell’elenco dei più grandi eroi della fantascienza. La vita è per i sopravvissuti. Anche gli xenomorfi lo sanno. – K.P.
La conversazione
Francis Ford Coppola
1974Nell’intervallo fra i primi due film della saga del Padrino, Francis Ford Coppola ha girato un altro capolavoro, ma differente, che si nutriva della paranoia imperante in quel periodo. Gene Hackman interpreta Harry Caul, un esperto di sorveglianza di San Francisco il cui ultimo incarico (origliare i discorsi di una coppia che passeggia in un parco affollato del centro) rappresenta un’irresistibile sfida professionale e minaccia di trascinarlo dentro un mistero mortale. È un thriller elegante che esplora il modo in cui i progressi tecnologici stanno distruggendo i limiti della privacy; ma anche una rappresentazione ossessionante dell’alienazione in cui Harry scopre che le mura che ha eretto per proteggersi dal resto del mondo in realtà possono essere una trappola. – K.P.
I compari
Robert Altman
1971Tanti, di fronte alla città mineraria di Presbyterian Church, non avrebbero visto altro che un cesso di frontiera. John McCabe, invece, ci vede un’opportunità. Insieme a un’altra nuova arrivata, una donna inglese di nome Constance Miller, fonda un bordello di alta classe e soddisfa le esigenze carnali dei lavoratori e della gente del posto. Il business model dei due ha successo e attira l’attenzione di una società mineraria che vuole acquistare l’attività. McCabe e la signora Miller rifiutano l’offerta. A quel punto la faccenda si fa violenta. Il tentativo di Robert Altman di fare ai western ciò che aveva fatto ai film di guerra con M*A*S*H è all’insegna del suo sguardo peculiare: un grande cast, dialoghi che si sovrappongono e che sembrano provenire da ogni parte e da nessun luogo, un obiettivo zoom che agisce quasi come un guardone. Tuttavia, la sua consueta irriverenza è intrisa di un fatalismo che né la coppia di star del cinema Warren Beatty e Julie Christie né gli sprazzi di umorismo dissacrante riescono a lavare via. Il film prende il genere più americano di sempre e ne confonde le acque (e l’immaginario), celebrando un senso di comunità improvvisato e anticonformista per poi schiacciarlo sotto il tacco dell’establishment. Il risultato è uno sballo tossico o la morte. Questa è l’America. – D.F.
Lo squalo
Steven Spielberg
1975Il fenomeno horror firmato da Steven Spielberg ha segnato il momento del Big Bang che ha dato il via all’era dei blockbuster, ed è tuttora una masterclass su come costruire la suspense alimentando nel pubblico il terrore per qualcosa che, perlopiù, non si vede. Ma attribuire a Lo squalo semplicemente l’avvento dell’intrattenimento con budget astronomici ed effetti speciali significa non cogliere ciò che di grandioso c’è in questo film. I ben noti problemi tecnici del regista con uno squalo meccanico l’hanno costretto ad adottare una strategia brillante: suggerire la presenza di uno squalo bianco senza necessariamente trasformare le spiagge di Amity Island in un macabro buffet. Grazie alle inquadrature in primo piano di occhi sbarrati, all’azione tenuta fuori campo e alle parti minacciose di archi della colonna sonora di John Williams, Spielberg riesce a fare in modo che le sequenze meno costose siano le più efficaci del film, imponendosi come il regista dal talento naturale più spiccato di tutta la sua generazione. Il fatto che abbia anche rivoluzionato il panorama della cinematografia e regalato un tocco di brivido alle tipiche vacanze americane in spiaggia è solo un bonus. – S.T.
Taxi Driver
Martin Scorsese
1976Il capolavoro di Martin Scorsese è molte cose allo stesso tempo: uno studio di precisione chirurgica sui personaggi, un ritratto devastante della solitudine, un commento arguto sulle conseguenze psicologiche della guerra del Vietnam, un film violento e sanguinario, una “commedia da ufficio” stravagante (il Tom di Albert Brooks e la Betsy di Cybill Shepherd erano gli equivalenti dell’epoca di Jim e Pam di The Office). Ma, soprattutto, è un’istantanea di New York nella sua incarnazione peggiore di inferno urbano, scattata durante la famosissima estate torrida del 1975, nel bel mezzo di uno sciopero dei netturbini, di proteste della polizia e di una crisi di bilancio (quell’autunno sul New York Daily News apparve il titolo “Ford dice alla città: muori”). Il film di Scorsese vanta una caratterizzazione perfetta e una verosimiglianza che ti porta proprio lì, mostrando la Grande Mela in decomposizione con uno sguardo di stupore misto a terrore. L’interpretazione di Robert De Niro nei panni del tassista disturbato Travis Bickle, poi, è ancora una delle sue più folgoranti. – J.B.
Chinatown
Roman Polański
1974Ci sono molti film su Hollywood, ma pochi catturano il peccato originale di Los Angeles con una precisione da far accapponare la pelle come il neo-noir di Roman Polański: ambientato negli anni ’30, spacca il terreno arido di L.A. e scava a fondo fino a rivelare il pozzo nero umano che anima la città. Scritto da Robert Towne, il film racconta di Jack Nicholson nel ruolo di Jake Gittes, un investigatore privato alle prese con un semplice caso di marito fedifrago. Viene però trascinato nell’inferno della politica idrica di Los Angeles mentre pedina l’affascinante e misteriosa Evelyn Mulwray (Faye Dunaway), i cui segreti sono molto più oscuri di quanto lui possa immaginare. Towne e Polański usano le attività criminali legate alla gestione dell’acqua nella città afflitta dalla siccità per analizzare il marciume che si accompagna all’avidità. Le immagini sono scarne, l’illuminazione violenta combinata con la trama noir crea una luce quasi opprimente. È un film che lascia una sensazione di disgusto, come se i buoni non potessero mai vincere. Ed è solo l’inizio. – E.Z.
Il padrino
Francis Ford Coppola
1972Se fosse nato in un’altra famiglia, forse la vita di Michael sarebbe andata diversamente. Ma è un Corleone, e per lui c’è solo una strada possibile. Negli ultimi cinquant’anni, il primo straordinario capitolo dell’immortale epopea di mafia firmata da Francis Ford Coppola è stato celebrato con ogni superlativo esistente (il film è così leggendario che la sua realizzazione è stata trasformata in una splendida miniserie di Paramount+). Eppure, potreste ancora non essere pronti alla brillantezza dell’interpretazione di Al Pacino nei panni di Michael, un uomo che insiste nel dire al suo grande amore Kay (Diane Keaton) di non essere affatto come gli altri del suo clan mafioso. Eppure lui è lì, sedotto dal potere e dagli obblighi, a ristabilire il ruolo dei Corleone dopo che l’amato padre Vito (Marlon Brando) viene ucciso dai loro nemici. Ormai, i temi e le idee del Padrino sono stati completamente assorbiti dalla cultura, tanto che li conosce a memoria anche chi non ha mai visto questo capolavoro. Ma se si guarda oltre l’esplorazione del lato oscuro del sogno americano, si scopre un crime drama avvincente, divertentissimo ma al contempo serio e cupo, che è anche una delle saghe più agghiaccianti di coming of age mai realizzate. Accanto a futuri titani come James Caan e Robert Duvall, Pacino all’epoca era relativamente sconosciuto, ma con questa interpretazione ha lasciato il suo segno indelebile nel cinema americano. Il pubblico ha sussultato guardando l’orribile ascesa al trono di Michael, e allo stesso tempo si è emozionato nel vedere uno dei più grandi attori americani annunciare il suo arrivo. – T.G.
Nashville
Robert Altman
1975A partire dai titoli di testa in stile pubblicità fino alla campagna onnipresente per il candidato del “Partito della Sostituzione” Hal Philip Walker, il capolavoro di metà carriera di Robert Altman parla della svendita dell’America, mostrando come fama, denaro, sesso e politica si intreccino sul palcoscenico metaforico rappresentato dalla capitale della musica country. È tutto spaventosamente attuale (in particolare i “Tennessee Twirlers”, una banda di giovanissime sbandieratrici e majorette che fanno allegramente volare dei bastoni a forma di fucile). Tra bandiere confederate e insulti razzisti, ci sono anche molti altri elementi di disturbo. Ma c’è davvero poco di gratuito nella sceneggiatura di Joan Tewkesbury. E, anche se nella musica della colonna sonora è difficile discernere la parodia dalla sincerità, bisogna riconoscere un gran merito agli autori delle canzoni, tra cui troviamo Ronee Blakely, Karen Black e Keith Carradine (che è entrato in classifica col pezzo It’s Easy). Con i suoi 180 minuti e una ventina di personaggi principali, questo film è un capolavoro di compressione narrativa degno di una miniserie. – Will Hermes
Killer of Sheep
Charles Burnett
1978Charles Burnett ha iniziato il suo film più importante, Killer of Sheep, mentre ancora studiava alla UCLA (dove era parte di un gruppo di registi di colore che lo studioso Clyde Taylor ha poi esaltato come il movimento L.A. Rebellion) e l’ha terminato per la sua tesi di laurea. L’ha girato in un bianco e nero scarno e meraviglioso, incentrandolo su una trama essenziale: Stan, interpretato dal caratterista Henry G. Sanders, lavora in un mattatoio, un’occupazione che gli lascia poche energie per prendersi cura di una moglie amorevole ma frustrata, interpretata dalla compianta attrice Kaycee Moore, e dei loro due figli ribelli. Il film dura 80 minuti ed è movimentato da una manciata di scene, tra cui una sequenza in cui Sanders e il suo amico Eugene (Eugene Cherry) cercano di portare le loro partner a trascorrere una giornata alle corse, ma la loro auto si rompe a metà strada. Però Burnett non è tanto interessato alla narrazione convenzionale, quanto piuttosto a descrivere la sua città natale, Watts, una comunità operaia ancora segnata dai disordini del 1965 e animata da bambini pieni di inventiva, adulti stanchi ma risoluti e piccoli crimini sporadici. L’autore riempie le inquadrature con attori non professionisti, presi dalla strada, dando vita a momenti celebri come un gruppo di ragazzi che saltano spensierati sui tetti di una serie di appartamenti, divertendosi e giocando praticamente solo con lo spirito. – M.R.
Mezzogiorno e mezzo di fuoco
Mel Brooks
1974Nel dopo-sbornia causato dal Vietnam e dal Watergate negli anni ’70, ogni mossa dell’America sembrava l’ultimo gesto di un uomo disperato. Ma questa parodia dei western di Mel Brooks è un racconto burlesque rivoluzionario della storia degli Stati Uniti, che dipinge il vecchio West come una caricatura piena di razzisti, rapinatori, idioti, mezzi idioti, imbecilli e metodisti. Cleavon Little è Black Bart, il nuovo sceriffo afroamericano della città di Rock Ridge. Gene Wilder è la sua spalla Waco Kid, un cowboy ebreo. Insieme, calpestano i miti più cari che caratterizzano l’America: persino le dolci vecchiette sono bigotte odiose. Questa è stata anche la prima volta di Richard Pryor al tavolo degli sceneggiatori, dove ha creato in gran parte il personaggio di Bart; la sua passione, tuttavia, era il teppista Mongo di Alex Karras. Madeline Kahn, una cantante virtuosa che aveva debuttato a Broadway in Kiss Me, Kate, interpreta la sciantosa stonata da saloon Lili Von Shtupp, con il suo lamento tragico I’m Tired. Brooks era già una leggenda della commedia fin dai tempi del classico televisivo Your Show of Shows, ma è qui che si è guadagnato gli allori (e una calorosa stretta di mano). A quasi cinquant’anni di distanza, Mezzogiorno e mezzo di fuoco è ancora il film più esplosivo del cinema degli anni ’70. – R.S.
Il padrino – Parte II
Francis Ford Coppola
1974Questo film è la risposta de facto alla domanda “quali sono i sequel all’altezza o migliori degli originali?”. È anche e uno dei pochi sequel di una pellicola già vincitrice dell’Oscar che ha finito per aggiudicarsi il premio come miglior film. Pensare alla continuazione della saga dei Corleone da parte di Francis Ford Coppola come a una semplice “seconda parte”, tuttavia, significa fare un torto sia al film che al suo creatore. Lo sceneggiatore e regista non era affatto intenzionato a realizzare un semplice seguito del suo film campione d’incassi; ma ha ricevuto talmente tante pressioni da parte dei produttori e degli Studios per bissare il successo del suo gangster movie che, alla fine, gli è stata fatta un’offerta di quelle che non si possono… be’, lo sapete. Per fortuna, aveva un asso nella manica. «Stavo accarezzando l’idea di fare un film su un uomo e suo figlio, cercando di confrontare le loro storie quando entrambi avevano la stessa età», ha detto Coppola alcuni anni fa. «Era solo un’idea che mi girava per la testa… completamente diversa dal primo film del Padrino. Ma ho pensato che avrebbe potuto funzionare». Quello che il regista è riuscito a fare, intrecciando la storia del giovane Don Corleone (interpretato da Robert De Niro) in cerca di fortuna all’inizio del Novecento e quella dell’anziano Michael Corleone (Al Pacino) che consolida il suo impero alla fine degli anni ’50, è a dir poco miracoloso. Assistiamo agli inizi di quella che diverrà una dinastia criminale, fondata da degli immigrati per proteggere e rafforzare la propria comunità. Vediamo anche cosa è accaduto poi a quella dinastia, mentre il capo dei Corleone precipita nella paranoia e si isola dal mondo che lo circonda. E il punto in cui lasciamo entrambe le storie, con un patriarca che torna a casa per una cena celebrativa e l’altro completamente solo, seduto in cima a un regno di polvere, dice tanto sul carattere conflittuale dell’America, proprio come l’originale faceva a proposito del sogno americano. Come il primo Padrino, la seconda parte offre interpretazioni incredibili (in particolare l’astuto Hyman Roth di Lee Strasberg e John Cazale, il cui Fredo questa volta è particolarmente straziante), scene indimenticabili per ironia e violenza, un’abbondanza di battute da citare («Siamo più grandi della U.S. Steel»). Ma ciò che si ricorda maggiormente è il modo in cui traccia il divario tra un passato ottimista e il presente cinico e caustico. Una volta, in America, un uomo faceva quello che doveva per prendersi cura della sua famiglia. Una generazione dopo, un uomo avrebbe ucciso i suoi parenti per proteggere gli “affari di famiglia”. I dirigenti degli Studios avevano chiesto la replica di un successo con un sequel. Invece Coppola ha regalato loro una saga in miniatura e una Grande Tragedia Americana scritta col sangue e le lacrime. – D.F.