Immaginate di essere a bordo di un lago, la mattina presto, o all’ora del tramonto. Si è alzata una leggera bruma e i confini sono sfocati. Delle voci dialogano, ma non è possibile vedere le persone dietro a quel suono, afferrare completamente le strutture del loro discorso. C’è un senso di mistero, di ambiguità, mentre tutt’attorno la natura continua il suo canto quotidiano.
Questa è un’immagine con cui si potrebbero descrivere le composizioni di Image Langage, il dodicesimo lavoro in studio di Félicia Atkinson, compositrice francese poco più che quarantenne che negli ultimi anni si è guadagnata una certa attenzione internazionale nel mondo della musica ambient grazie a pubblicazioni come Limpid As The Solitudes (con Jefre Cantu-Ledesma) e The Flower and the Vessel. Non solo compositrice, ma anche scrittrice e visual artist, nonché proprietaria della Shelter Press, casa discografica ed editrice che dal 2021 è diventata una realtà di riferimento per amanti del genere (ha pubblicato anche Say Goodbye to the Wind del nostro Valerio Tricoli) e delle dissertazioni successivef (in particolare grazie alle uscite letterarie della stessa Atkinson e del saggista e musicista Francois J. Bonnet).
Dalla sua casa in Normadia, vicino a Le Moint-Saint-Michel, Félicia si divide tra le sue varie occupazioni artistiche e il ruolo di madre. Viaggia molto, lasciandosi ispirare dall’ambiente circostante (e dal suo amato giardino), dai film (dalla Nouvelle Vague ad Antonioni «ho sempre amato il suo uso dello spazio») e dagli artisti morti che più ama (in Image Langage ha dedicato brani alla poetessa Sylvia Plath e alle pittrici Agnes Martin e Georgia O’Keefe) perché – come titola un suo brano – il mondo è pieno di significati abbandonati.
In Italia arriverà questo lunedì 15 maggio all’Auditorium San Fedele di Milano all’interno della stagione elettro-acustica di Inner Spaces. L’abbiamo intervistata per farci accompagnare nei misteri del suo mondo sonoro.
Partiamo dal concerto che terrai lunedì. Cosa dobbiamo aspettarci?
Ogni mia performance è di per sé differente. Per quest’occasione ho preparato una composizione di 45 minuti, da trasmettere in pura diffusione, su cui posso improvvisare con pianoforte e voce. È un dialogo tra ciò che ho composto in studio e ciò che vivo al momento. Ciò che mi interessa è la co-abitazione tra questi due livelli. Mi posiziono a metà tra compositrice e ascoltatrice, divento una traduttrice dell’energia che si genera nell’ambiente.
E come si alternano composizione e improvvisazione?
Al brano ho lavorato molto in viaggio, in treno. Mi muovo spesso e questo mi permette di comporre e tenere una sorta di diario di viaggio. La parte di improvvisazione sarà invece una trasposizione dell’espressione del momento.
L’improvvisazione è anche un modo per imparare qualcosa su di sé e sul proprio modo di suonare? E magari sperimentare qualche via che si vuole percorrere in futuro?
In qualche modo è una meditazione perché l’obiettivo è non pensare troppo, se no sarebbe impossibile improvvisare. Per me la musica elettronica deve essere composta precedentemente (come da tradizione della musica elettroacustica e della musica diffusa). Però nei miei show ho sempre bisogno di un elemento live, qualcosa da contrapporre a questa tradizione. È un po’ come il jazz che improvvisa sugli standard: la processione di accordi è sempre la medesima ma sei tu a variarne il risultato con l’improvvisazione. È come se, in qualche modo, nelle improvvisazioni io stessi cercando qualcosa, un qualcosa che lo stesso pubblico sta cercando con me. Ascoltare è un processo attivo, ogni volta che ascolti qualcosa – anche di pre-registrato – è differente (e questo dipende al tuo mood, dal tuo corpo, dall’ambiente circostante).
A tal proposito l’autore e musicista David Topp, nel suo saggio Oceano di suono, scrive che la musica ambient è un modo di ascoltare.
Sono completamente d’accordo. Un’altra cosa importante di Topp è che dice che la musica ha uno spazio e questo per me è stato illuminante. Ora che è primavera sto passando molto tempo nel mio giardino e questo mi stimola ad immaginare nuovi suoni. L’approccio che ho alla musica è da ascoltatrice, più che da compositrice. Non sono una virtuosa, il mio modo di suonare è limitato e devo confrontarmi con questo. Ma sono un’ottima ascoltatrice, questa è la mia qualità più importante come musicista.
Qual è il tuo processo compositivo?
Mi piace avere un contesto, un perimetro concettuale da cui sviluppare la mia idea. Solitamente lavoro in MIDI perché mi permette di avere libertà su che tipo di suono e di strumento utilizzare, come avessi una piccola orchestra a portata di click; è divertente e il divertirsi è fondamentale. Lavorare con delle regole, o delle limitazioni economiche, mi intriga.
E ci sono delle tecniche che ti divertono più di altre?
Registro molto in giro, voci e field recordings. Per i testi invece faccio spesso dei mash up tra differenti passaggi di libri che ho qui nella mia libreria.
Parli di perimetro concettuale e quindi mi viene da chiederti cosa deve avere un concept per stimolarti.
Mi piacciono le vite degli altri. Mi toccano le persone che decidono di dedicare la propria vita all’arte. Per questa ragione spesso dedico brani a poeti o pittori. Mi piace l’idea di conversare con questi artisti morti. Spesso è questa la mia chiave per entrare in una composizione. A volte invece l’ispirazione è data dalla natura, come dicevo vivo circondata dalla natura. Ogni cosa che compongo è connessa a qualcos’altro: le mie composizioni sono una risposta. Comporre è costruire uno spazio che ti renda viva, che ti dia libertà. Tutto è sempre connesso alla quotidianità, alla vita.
Qual è l’idea di spazio all’interno della tua musica?
Ti prendo l’esempio del mio giardino. Adesso è primavera. Se lo guardo vedo che ogni fiore e ogni pianta ha il proprio ritmo. Non puoi accelerare questi ritmi, ogni specie ha il proprio. Ed è interessante da osservare perché noi non possiamo fare altro che piegarci a questo ritmo naturale. Qualcosa di simile accade lo stesso con il suono: quando componi devi guardare agli strumenti che hai e comprendere quello che possono dare. È osservazione della materia. Io sono anche una visual artist e forse questo mi condiziona: devo vedere i materiali con cui lavoro. Quando compongo cerco di trovare la logica che unisce i suoni che ho, e questo spesso lo faccio attraverso una storia, con un significato poetico.
Oltre che compositrice, sei anche una scrittrice. Cambia il tuo modo di scrivere tra i testi dei tuoi brani e le tue composizioni letterarie?
Quando scrivo un libro, scrivo davvero. Quando improvviso con la voce, invece, ciò che dico accade, non posso riprenderlo e cambiarlo in seguito. A volte però, dopo un’improvvisazione mi rimangono in mente delle cose che ho detto durante il live e che riutilizzo nella scrittura. Come dicevo: tutto è connesso.
Dicevi che la tua scrittura è spesso un collage. Ci spieghi meglio?
Non ho mai un piano quando scrivo, mi lascio sorprendere. La sorpresa è l’oggetto in sé della mia arte. Ti faccio un esempio. Nel mio disco The Flower and The Vessel c’è un brano intitolato You Have To Have Eyes in cui ripeto “Devi avere gli occhi anche dietro la testa”, una frase che ho estrapolato da un’intervista all’architetto St. EOM. Ma non mi interessava il significato in sé, e il suo contesto, ma ero attratta dal suono di quella frase e da cosa potesse significare per me. E quel passaggio mi è tornato in mente mentre ero nel deserto in California. Ero con mio marito e gli dissi “Cosa devo fare con il fuoco?”, e non so perché queste due frasi si richiamavano nella mia testa e le ho registrate così, sul momento. A livello testuale i miei brani si compongono per assemblaggio.
Image Langage apre con due brani (La Brume e The Lake is Speaking) che – già dal titolo – contengono un velo di mistero. Oltretutto nelle tue composizioni la tua voce è spesso sussurrata; è vicina ma non sempre riusciamo a captare tutto ciò che ci vuole dire. È come se nei tuoi lavori ci fosse un velo, una leggera nebbia che lascia l’ascoltatore nel dubbio. Che ruolo ha il concetto di mistero nella tua musica?
Fondamentale, soprattutto ora che crediamo di saper tutto grazie alle informazioni online. Il mistero – che è differente dal segreto – ti permette di non percepire il tutto. Lascia uno spazio d’immaginazione. Come facevi notare il mio modo di utilizzare la voce sussurrata serve da questo punto di vista. Ti fa percepire qualcosa, ma non tutto. Crea mistero. A volte è più facile ricordare qualcosa che non si è capito totalmente rispetto a qualcosa che era molto chiaro. E questo mi affascina: perché accade? È come guardare un tramonto che si riflette sul mare: è impossibile da toccare, o da raggiungere, ma allo stesso tempo ti ci trovi connesso, ti emoziona. La musica è un mistero perché non puoi mai capirla completamente.
Tornando all’utilizzo della voce, hai dichiarato che questo tuo ultimo disco è ispirato anche dalle voci fuoricampo dei film della Novelle Vague. Di quali opere parli?
Penso a Les Mains Négatives di Marguerite Duras o ai lavori di Jean-Luc Godard e Chris Marker; nei loro film segui le immagini tramite le voci (spesso fuoricampo), sono loro a condurre. Sono attratta da questi monologhi. Noi sentiamo differenti voci nella nostra testa e a me in musica interessa farle parlare tutte, ma in maniera pacifica.
Negli ultimi anni, probabilmente anche a causa della pandemia, la musica ambient ha trovato sempre più spazio e ascoltatori grazie alla sua forza calmante e, in un certo senso, guaritrice. Anche tu credi in questa capacità intrinseca del genere? È qualcosa che ricerchi nelle tue composizioni?
Sono interessata al potere guaritrice di molte cose in verità. Non è mai stato il mio obiettivo, ma la cosa che mi importa maggiormente è prestare la giusta attenzione. In un’intervista Eliane Radigue (pioniera francese dell’ambient music, ndr.) sosteneva che i suoni devono essere trattati con cura, come fossero qualcosa di prezioso. E penso che se tu ti poni così verso il suono, questo è ciò che arriva a chi ascolta.