«Queste non le vedevo da tantissimo tempo», dice Jonathan Davis dei Korn dal palco, indicando la sua tuta Adidas viola scintillante, vero e proprio marchio di fabbrica del cantante nella seconda metà degli anni ’90, quando la band di Bakersfield, California inaugurava un movimento, poi ribattezzato nu metal, che a cavallo tra quel decennio e il successivo avrebbe primeggiato nelle classifiche di tutto il mondo.
A quei tempi sembrava che qualunque band proponesse un sound fatto di chitarre ribassate, ritmiche pulsanti e strofe rappate, oltre a un armamentario di pantaloni oversize, canotte da basket, piercing e tatuaggi a volontà, fosse destinata a vendere milioni di copie. Quella è stata l’ultima volta in cui il rock (in alcuni casi anche piuttosto pesante) ha effettivamente dominato le classifiche. Il rock, a quei tempi, mainstream lo era davvero. Un’altra era geologica, insomma.
Nel mettere insieme un evento come Sick New World, la consapevolezza di scatenare un effetto-nostalgia diffuso domina le strategie di marketing. E in effetti, non appena è stata rivelata dagli organizzatori, la line-up è rimbalzata sui social alla velocità della luce. I biglietti, tantissimi (si dice più di 80 mila, anche se non ci sono ancora conferme ufficiali), sono finiti anch’essi in tempi record, nonostante prezzi non proprio alla portata di tutte le tasche. Parliamo di 250 dollari per un biglietto semplice fino a 550 per la zona vip. Più vari upgrade. C’era anche la possibilità, in tipico stile americano, di noleggiare una delle tante cabanas poste ai lati del palco, per chi volesse godersi il concerto come se si trovasse su una spiaggia caraibica.
Siamo però a Las Vegas, non alle Bahamas, e alla vigilia del festival la domanda ricorrente fra chi si apprestava a raggiungere la capitale del gioco d’azzardo che sorge nel bel mezzo del deserto del Nevada era una sola: come faremo a sopravvivere al caldo? Le previsioni davano in effetti 35 gradi, non proprio confortante quando si è in procinto di passare una dozzina di ore su una distesa di asfalto. Non appena però facciamo il nostro ingresso negli immensi Festival Grounds, ci rendiamo conto che l’organizzazione ha davvero preso il problema di petto: per il pubblico generalista ci sono zone d’ombra enormi, ventilatori industriali, nebulizzatori e, soprattutto, molte aree in cui si può fare scorta d’acqua in maniera assolutamente gratuita. Nelle zone vip, invece, si va oltre: prato sintetico, ombrelloni, divani e bottigliette d’acqua fresca a volontà.
Evidentemente ci vogliono vivi per consentirci di poter dare fondo agli stipendi una volta raggiunte le aree di ristoro. Lì vige il più totale principio di uguaglianza, vip o non vip: 18 dollari per un hot dog, 18 dollari per tre tacos microscopici, 18 dollari per una birra media annacquata, giusto per citare gli articoli più popolari. A meno di quelle cifre si può comprare solo un churro (una specie di frittella messicana) o una lattina di Monster Energy a una decina di dollari cadauno. Noi preferiamo digiunare.
Ci rifugiamo dunque nella musica: già dal primo pomeriggio riusciamo ad assistere alle esibizioni dei nostri Lacuna Coil (che ai palchi così prestigiosi sono abituati, visto che li calcano da un quarto di secolo) e di due band che un tempo erano ai vertici della scena nu metal: i Coal Chamber, che non si esibivano da circa otto anni («Love is in the air!» urla il cantante Dez Fafara alla vista di una folla che già a quell’ora era nell’ordine delle decine di migliaia di persone) e i Papa Roach (la loro Last Resort rimane un inno generazionale per il popolo del crossover). C’è comunque una buona rappresentanza di più generi musicali: ci godiamo i Melvins, che ci deliziano le orecchie con la versione di I Want to Hold Your Hand dei Beatles più pesante che sia mai stata concepita, e la nuova incarnazione dei Mr. Bungle. Quando ci avviciniamo al palco principale per assistere al concerto di questi ultimi, scorgiamo subito un tipo strano al centro della scena: cappello da marinaio, tatuaggi fallici, rossetto e una canotta con scritto “I’m not gay” (e più in piccolo, “but $20 is $20”): è proprio Mike Patton. E quella dei Mr. Bungle una delle performance più folli e coinvolgenti della giornata.
Col passare del tempo, la densità di persone per metro quadrato aumenta considerevolmente, tanto che a metà pomeriggio, seguire tutti e quattro i palchi è pressoché impossibile. Anche per noi fotografi, muoversi fra uno stage e l’altro diventa un’impresa titanica. Dobbiamo infatti ingegnarci e qualcuno ha la bella idea di aggirare la folla servendosi delle uscite di emergenza (non facciamo nomi). Fortunatamente riusciamo a essere nel posto giusto quando suonano i Turnstile, band hardcore punk da poco salita alla ribalta, e i redivivi Evanescence, con una Amy Lee vocalmente in grande spolvero.
Nel momento in cui tocca agli Incubus entrare in scena, l’eccitazione è già alle stelle e fra il pubblico femminile aumenta ulteriormente non appena Brandon Boyd, sornione, decide di togliersi la maglietta. Qualcuno definì gli Incubus una sorta di Maroon 5 del nu metal: hanno il cantante belloccio, sono rassicuranti e sanno sfornare hit. Prendiamo questa definizione per buona ma, soprattutto, prendiamo atto del fatto che non riusciamo a resistere dal canticchiare le varie Drive, Wish You Were Here o Pardon Me.
Con i Deftones si cambia radicalmente registro: il loro è uno show molto fisico, incredibilmente potente, e nascono dunque i primi problemi di sicurezza: il frontman Chino Moreno deve interrompere i compagni già al quarto o quinto pezzo, intimando di indietreggiare a una folla esagitata. I Deftones picchiano duro sia con i brani più recenti come Genesis, sia con i classici come Be Quiet and Drive e Around the Fur, indifferentemente. E i Korn, che seguono, non sono da meno. Anche loro erano e rimangono una band straordinaria, che va ben al di là del declino di popolarità di un genere. Here to Stay è il titolo profetico di un brano tratto da un album dal titolo altrettanto profetico, Untouchables, del 2001. Dopo averlo eseguito, anche i Korn devono fermarsi e invitare i ragazzi davanti al palco ad andarci piano.
Nella concitazione del momento, escono dal nostro radar molte band che avremmo voluto vedere: ci sono leggende dell’industrial come Ministry, Skinny Puppy e KMFDM. Ma anche Ice-T e i suoi Body Count. Il tempo passa e, una bottiglietta d’acqua dopo l’altra, cerchiamo di arrivare a fine giornata senza farci troppo male. Forse più di 50 band di quel calibro sono un po’ troppe da far suonare in un giorno solo. Per accelerare i tempi, sui due palchi principali si va avanti ininterrottamente, con una band che inizia sul Green Stage non appena sull’adiacente Purple Stage finisce quella prima. Gli altri due palchi hanno invece pedane rotanti che consentono ai tecnici di preparare il set successivo mentre un gruppo si esibisce. Insomma, una macchina da guerra, a dir la verità piuttosto efficiente se consideriamo che si parla di un festival alla sua prima edizione (e ancora non si capisce bene se ce ne saranno altre).
Verso sera, quando caldo e stanchezza cominciano a lasciare il segno, ci accorgiamo che sullo Spiral Stage ci sono i Placebo. Fa strano vedere una band come loro, un tempo fenomeno da MTV, esibirsi di fronte a poche centinaia di persone. Brian Molko tiene il capo chino sulla chitarra, con baffo e capelli lunghi a coprirne il viso. La sua voce è ancora ben riconoscibile, altrimenti ci sembrerebbe una band alternative rock qualunque. Anche Ville Valo, che dopo lo split degli HIM è da poco tornato in veste solista, non sono in tanti a cag… ehm seguirlo.
D’altronde, sul palco principale è quasi ora degli headliner System of a Down. La band di Los Angeles non pubblica un nuovo album da ormai 18 anni, suona dal vivo solo sporadicamente, ma ogni volta che i quattro musicisti di origini armene decidono di rimetterla insieme, il successo è assicurato. A Las Vegas i SOAD propongono una scaletta di ben 31 brani, tra vecchi cavalli di battaglia come Chop Suey!, Aerials e Toxicity, e tracce che in alcuni casi non venivano proposte dal vivo da molti anni (Peephole da addirittura dieci). I SOAD si muovono con disinvoltura in un campo minato al confine tra il serio e il faceto, tra impegno politico e goliardia, con il frontman Serj Tankian molto abile nel passare dalle arie classiche alle nenie death metal. «Siete stanchi?», chiede più volte il chitarrista Daron Malakian a un pubblico visibilmente stremato, che nel frattempo stava in parte abbandonando la location.
Quando i SOAD terminano il loro set, su due degli altri palchi ci sono ancora i Sisters of Mercy nel pieno del loro show e i Cradle of Filth che ancora devono cominciare. A quel punto, però, riusciamo soltanto a seguire il richiamo della doccia.