«Sono un imbarazzante idiota, a me piace fare le cose in modo diverso», aveva scherzato qualche mese fa Peter Gabriel in un’intervista rilasciata ad Uncut a proposito di i/o, il nuovo album ancora in gran parte inedito, e del tour con il quale lo sta presentando al pubblico europeo. «C’è sempre un compromesso», ha poi puntualizzato di recente attraverso il suo sito ufficiale. «La gente vuole ascoltare quello che già conosce, mentre l’artista generalmente vuole suonare i pezzi nuovi. È una specie di baratto: devi soffrire un numero sufficiente di brani nuovi per poter ascoltare quelli vecchi. Con me è sempre stato un po’ così, ma queste nuove sono canzoni che valgono. Non sono tutte up-tempo, ma certamente le suoniamo con un sacco di cuore».
Senza dubbio è stato così nel secondo e ultimo concerto italiano, andato in scena ieri sera al Forum di Assago. L’emozionante apertura con una versione intima e poco più che acustica di Washing of the Water, con tutta la band seduta spalla a spalla in tre metri scarsi di palco, avrebbe potuto far pensare a un live baciato anche da parecchi ripescaggi dal passato. Invece Peter Gabriel ha notevolmente sacrificato il suo repertorio (due soli pezzi in tutto dai primi quattro album solisti, imprescindibili per i fan ma non più per lui, non in questo momento evidentemente) per puntare decisamente sui nuovi brani, molti dei quali ancora inediti, destinati a essere pubblicati uno alla volta in coincidenza con ciascuna luna piena, come avvenuto nei mesi scorsi.
«Alcune delle canzoni che ho scritto si basano sull’idea che siamo incredibilmente capaci di distruggere il pianeta su cui siamo nati e che, a meno di riconnetterci alla natura e al mondo naturale, siamo destinati a perdere molto. Un modo semplice di pensare a come adattarci a tutto questo è il guardare verso il cielo, e la luna mi ha sempre attirato a farlo», ha spiegato il musicista.
i/o, che poi significa “input/output”, è un album che ancora non c’è, a cui Gabriel ha lavorato anche con la collaborazione di Brian Eno. Non c’è neppure una data prevista di uscita, anche se dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno. Impossibile giudicarlo attraverso un live in cui alcuni dei pezzi si ascoltano per la prima volta in assoluto. Certo alcuni di quelli già noti funzionano molto bene anche sul palco. A partire da Panopticom, il primo a essere pubblicato durante lo scorso inverno, presentando il quale Gabriel dice la sua sull’intelligenza artificiale: «Ha il potenziale di renderci obsoleti ma anche di dare a ogni bambino del mondo la migliore istruzione possibile e cure mediche economicamente affrontabili».
A proposito di intelligenza artificiale, l’unica cosa che veramente non funziona durante il concerto sono i sottotitoli in italiano che compaiono sugli schermi. Dovrebbero tradurre automaticamente le parole in inglese con cui le canzoni vengono presentate, e “trascrivere” quelle in italiano che Gabriel, come fa ormai da decenni, legge da appositi fogli. Quelle che compaiono però sono spesso parole senza senso.
Tra i pezzi nuovi, quello che scivola meglio in un live che va come un treno (e siamo solo alla terza data in assoluto) è la title track. Prima volta che un album di Peter Gabriel prende il nome da una canzone, ma soprattutto apparente manifesto della riconnessione alla natura al mondo naturale di cui sopra: «Roba che esce, roba che entra. Io sono solo una parte del tutto». E in questo tutto c’è spazio, tanto spazio per l’amore. Che può curare, come canta in Love Can Heal, e di cui siamo oggetto fin dalla nascita: è uno dei sottintesi di And Still («dedicata a mia madre, che amava la nostra musica») e di What Lies Ahead («mio padre era un inventore, questa canzone è dedicata a tutti gli inventori»).
Come sempre il palco “suona” assieme alla band, con le sue luci e i suoi visual, mentre la gestualità di Peter Gabriel è funzionale al brano eseguito: i movimenti delle mani, gli sguardi, le minicoreografie che per raggiunti limiti di età sono appena accennate rispetto a quelle dei tour del passato. Tony Levin (basso), David Rhodes (chitarra) e Manu Katché (batteria) stanno a Peter Gabriel come i componenti storici della E Street Band stanno a Bruce Springsteen: irrinunciabili per il suono ma anche per la presenza scenica dell’insieme, ed entrati da tempo immemorabile nel cuore del pubblico. Tony Levin, in particolare, è davvero il Big Man di PG: quando sale sul palco l’ovazione che lo accoglie è di poco inferiore a quella riservata al capobanda. Ma anche gli inserimenti più recenti contribuiscono in maniera notevole alla riuscita dello show. A partire da Ayanna Witter-Johnson, violoncello, tastiere e voce. Una gran voce, che non fa rimpiangere quella di Kate Bush in una Don’t Give Up che parte commovente e termina euforica, l’incoraggiamento che chiunque vorrebbe ricevere dalla propria famiglia nei momenti in cui niente sembra funzionare.
Ottimo anche il trombettista Josh Shpak, che non si limita a striare di funk Big Time e Sledgehammer (uno dei pochi pezzi in cui tutti si alzano in piedi in barba alla scelta all-seater degli organizzatori), ma fa letteralmente urlare il suo strumento durante l’efficacissimo inserto rumorista di Digging in the Dirt. La cosa più bella, però, è vedere Tony Levin e David Rhodes sorridere mentre si gustano il ballettino di Solsbury Hill, nonostante lo stiano ripetendo per la centomiliardesima volta. E mettere un tiro pazzesco in una Red Rain con tutti gli strumenti a tutto volume, in una versione che avrebbero potuto fare i Nine Inch Nails se avessero partecipato a And I’ll Scratch Yours.
Si chiude con Biko, come tante volte nel passato, «per quelli che prendono posizione anche quando rischia di costargli la vita». Con un Gabriel cui il tempo che passa (gli anni sono ormai 73) non sembra affaticare una voce in gran spolvero (come per tutta la serata) mentre inneggia all’attivista sudafricano anti-apartheid ammazzato di botte nella maledetta stanza 619 della stazione di polizia di Port Elizabeth, in un giorno che sarebbe dovuto essere come tanti altri. Uno per uno i musicisti scendono dal palco, lasciando monsieur Katché solo con gli ultimi colpi della sua batteria, che chiudono un concerto che sarebbe stato un peccato perdere, nonostante ciascuno dei presenti in un Forum tutto esaurito avrebbe desiderato una scaletta diversa. Ma con tutta probabilità ciascuno dei presenti è andato a casa contento perché, come ha scritto tanti anni fa il giornalista francese Jean-Michel Dupont, «amare Peter Gabriel non vuol dire amare una canzone o un album, ma amare un personaggio, un discorso, un metodo: una maniera assai rara di combinare felicemente riservatezza e passione, cuore e intelligenza, successo e sperimentazione».