Venerdì scorso Aleksandar Vucic, il presidente serbo, ha inviato alcune unità del Kopnena Vojska Srbije (l’esercito locale) vicino al confine con il Kosovo, il piccolo stato riconosciuto come indipendente dagli Stati Uniti e dalla maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea. L’intervento dell’esercito è stato presentato come una reazione dovuta a quanto accaduto poche ore prima, quando nelle città di Zvecan, Leposavic e Zubin Potok, nella parte settentrionale del Paese, le forze di polizia kosovare hanno represso le manifestazioni di protesta della popolazione di etnia serba.
I disordini sono iniziati dopo che gli abitanti serbi del Kosovo (che rappresentano il 5% degli 1,8 milioni di abitanti del paese globalmente inteso, ma sono la maggioranza nei territori del nord) hanno boicottato – con l’appoggio di Belgrado – le elezioni locali dello scorso aprile in quattro Comuni del nord a maggioranza serba.
Il boicottaggio è stato presentato come un segno di protesta contro il rifiuto del governo kosovaro di concedere loro maggiori autonomie, come previsto da un accordo sui rapporti tra Serbia e Kosovo che i due paesi avevano raggiunto a marzo con la mediazione dell’Unione Europea, poco prima della tornata elettorale.
Di conseguenza, i candidati di origine albanese hanno potuto prendere il controllo dei consigli comunali con una maggioranza risicatissima, inferiore al 4%. Alcuni alleati occidentali hanno chiesto al Kosovo di non riconoscere questi sindaci, ma al momento il governo kosovaro non sembra intenzionato ad accogliere la richiesta.
Gli scontri hanno vissuto una escalation nella giornata di lunedì, quando a Zvecan 300 manifestanti serbi si sono radunati presso l’edificio comunale nella speranza di impedire a Ilir Peci, il nuovo sindaco d’origine albanese, di fare ingresso nella sede del municipio. Negli scontri sono rimasti feriti 34 militari in forza alla KFOR – la missione internazionale della NATO presente in Kosovo dal 1999 –, tra cui 14 italiani del IX Reggimento alpini L’Aquila, rimasti feriti dopo il lancio di alcune bombe molotov.
A surriscaldare gli animi, secondo Vucic, avrebbe contribuito un gesto provocatorio, ossia la rimozione delle bandiere serbe dagli edifici comunali, sostituite da quelle del Kosovo. Vucic ha inoltre accusato il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, di aver fomentato le tensioni nel tentativo di creare “un grande conflitto tra serbi e NATO” e la KFOR e di aver “fatto entrare i sindaci di Kurti negli edifici del Comune”, e di averli “protetti dai serbi”. Dal canto suo Kurti ha difeso l’operato della KFOR, sostenendo che i militari abbiano garantito che i sindaci democraticamente eletti potessero esercitare le loro funzioni: «Anche se ci sono manifestanti pacifici, il primo ministro ha valutato che non si tratta di proteste pacifiche, ma di folle di estremisti diretti da Belgrado», si legge in un comunicato.
Secondo diversi analisti, la situazione attuale sarebbe da rileggere come una degenerazione dovuta alla mancata risoluzione della cosiddetta “guerra delle targhe” (è questa, ad esempio, la lettura dell’analista ISPI Giorgio Fruscione).
In sintesi: nel 2021, il governo di Pristina ha imposto alle automobili serbe di esporre delle targhe provvisorie con la dicitura “Repubblica del Kosovo”, della validità di 60 giorni, per poter entrare nel paese. Dal punto di vista di Kurti, si è trattato di una scelta dettata dalla necessità e dalla rincorsa di un senso di reciprocità – la Serbia, infatti, non consente ai veicoli in entrata nel paese di esporre targhe kosovare. E dal 2011 prevede a sua volta l’autorizzazione dei mezzi kosovari sul suo territorio solo a patto che prendano una targa serba temporanea ad un prezzo agevolato di 400 dinari (circa 3 euro e mezzo).
A novembre l’Unione Europea aveva presentato ai due leader, Vucic e Kurti, una proposta di accordo volta a placare le tensioni tra le due parti, ma l’incontro si è risolto in un nulla di fatto.