Giorno 1. Chilometri percorsi: 24
Se lo scorso anno il Primavera Sound di Barcellona era partito con una serie di preoccupanti débâcle che avevano animato i social e scaldato gli animi dei presenti (dalla mancanza di acqua alle code chilometriche per bere, dai POS non funzionanti alla cancellazione del live degli Strokes), questa volta il principale festival dell’estate spagnola non ha avuto da preoccuparsi: il giorno 1 è filato liscio come previsto. Certo, il dramma del giorno c’è stato, ma questa volta il Primavera e il suo pubblico ne sono vittime; a causa di uno sciopero, alcune compagnie aere hanno cancellato i propri voli previsti per domenica, consueto momento di rientro dopo la tre giorni festivaliera (con l’aggravante, quest’anno, della concomitanza del Gran Premio di F1), creando un vociare preoccupato già ai gate di partenza. Ci sono stato anche delle defezioni dell’ultimo minuto – Yung Lean, Tems e i Bleachers – ma che sommate comunque non raggiungono il dispiacere di chi si è visto sfumare sotto gli occhi l’occasione di ascoltarsi la band di Casablancas e soci.
L’ultima e unica volta che sono stato al Primavera Sound era il 2009. Certo che quattordici anni sono tanti per la mia memoria, ma di quell’edizione non è rimasto praticamente niente. La nuova macchina del festival – oramai pensata per essere esportata nel mondo da Madrid a Porto fino al Sud America – è strabiliante: funziona perfettamente nonostante abbia da gestire 12 palchi (la trovata qui è aver pensato a dei palchi-gemelli, ovvero stage posizionati molto vicini da azionare e spegnere a turno limitando le consuete grandi migrazioni della folla), centinaia di bar e migliaia e migliaia (e migliaia!) di persone al Parc del Fòrum. Quest’anno tutto gira come deve, quindi passiamo subito alle cose più interessanti: come è andata a livello musicale?
Il primo giorno è stato condizionato dalla più classica tra le sfide in campo musicale: passato vs futuro. Da una parte gli headliner (o vecchie glorie, scegliete voi), artisti over 40-50-60, bianchi bianchissimi, a piena rappresentazione di ciò che intendiamo noi – bianchi bianchissimi europei – per musica (ovvero la musica dell’Occidente). Dall’altro i giovani collettivi, i nuovi suoni e le narrative che coinvolgono differenti etnie, background, esperienze. Non uno scontro tra bene e male, certo, ma una dimostrazione abbastanza palese di come negli ultimi dieci anni anche l’Europa abbia scoperto che ci sono sonorità incredibili al di fuori dei nostri confini (o spesso all’interno di quei confini che abbiamo colonizzato). I New Order e i Blur – sicuramente gli act più attesi di giornata – hanno fatto quello che gli era stato chiesto (con due performance oneste ma non eccezionali, specialmente per la della band di Albarn, a cui si perdona tutto vero, ma Song 2 e Coffee & TV sembravano suonate da una cover band di 50 enni), ma essere sotto il loro palco dava l’impressione di essere venuti a portare i propri omaggi ad un tempo passato piuttosto che ad ascoltare davvero un concerto. L’effetto retromania sfociava nel memoriale, concretizzatosi in maniera palese durante l’ultimo brano dei New Order, la cover di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, in cui sugli schermi (oltre alla foto di Ian Curtis) giganteggiava la scritta “Forever Joy Division“, in un cortocircuito di (auto)celebrazione infinita e indiscussa del passato. Non a caso era difficile scovare ragazzi under-30 o persone di altre etnie sotto il loro palco.
Per trovare il pubblico più giovane, gli afrodiscententi, gli asiatici, i latini, ma anche le persone queer (è piacevole vedere come un festival così grande ora possa riunire un pubblico così eterogeneo), bastava semplicemente evitare il main stage nelle ore calde. Non a caso gli act più intriganti e radicati nel presente-futuro sono stati inseriti negli stessi orari degli headliner in questione. Durante i New Order erano infatti in programma Central Cee, il principe della UK drill, un misto di sangue irlandese, guyanese, ecuadoriano e aruachi, Rema, cantante e rapper nigeriano celebre per Calm Down (brano che vanta anche una versione da miliardi di ascolti con Selena Gomez), le Perfume, trio tutto al femminile giapponese j-pop nonché una delle performance più arty e divertenti della giornata, oltre al set di Juliana Huxtable, dj afroamericana transgender, qui in coppia con Jasss. Nello stesso slot dei Blur invece c’è stata l’occasione di vedere un sorprendere show della Drain Gang, collettivo multietnico cloud rap svedese composto da Bladee, Ecco2k, Thaiboy Digital e Whitearmor. C’è stato inoltre spazio per il k-pop delle Red Velvet, il rap di Loyle Carne (performance di gran lunga superiore a quella di Pusha T), il reggaeton di Isabella Lovestory (uno degli show più crudi e divertenti penalizzato dal posizionamento orario – le 8), il suono UK di PinkPantheress, l’eclettismo di Sudan Archives, l’elettronica ironica e decostruita di Hudson Mohawke e tutta una serie di artisti elettronici e dj che hanno animato senza sosta il primo giorno di Primavera.
Ma al Primavera, come nella vita di ognuno di noi, il passato e il futuro sono indispensabili. La nostalgia è il tornare sicuro in un luogo che conosciamo e che sappiamo ci ha fatto e ci farà del bene per il solo fatto di averlo già vissuto, riattivando un ricordo. Il futuro è invece necessario per la sopravvivenza, per il cambiamento, l’evoluzione. La fortuna di vivere un festival è quella di poter surfare – in maniera più semplice rispetto alle nostre vite private – tra retromania e futurismi, tra guilty pleasure e rendiconti della propria giovinezza. Il primo giorno di Primavera forse ha tirato una linea tra vecchio e nuovo, tra vecchi e giovani, tra passato e futuro. E a dirla tutta questo futuro sembra poter essere molto più divertente della nostalgia dei bei tempi andati.