Da quando è entrato in carica, il governo Meloni ha dato inizio alla sua (prevedibile, date le premesse) offensiva contro i diritti LGBTQ+ e tutte le concezioni di famiglia che esulano da quella tradizionale – ossia composta da madre, padre e figlio, quella che dal punto di vista della maggioranza di destra rappresenta l’unica famiglia concepibile dal punto di vista della natura e del diritto, insomma.
Visti da fuori, il passo indietro del nostro Paese sul fronte dei diritti civili è più evidente che mai. Ad esempio, secondo la copresidente del gruppo dei Verdi/Ale nel Parlamento Europeo, la tedesca Terry Reintke, c’è «assolutamente il rischio di una “orbanizzazione” dell’Italia», e di recente anche il premier canadese Justin Trudeau si è detto «preoccupato» da alcune delle posizioni «che l’Italia sta assumendo in merito ai diritti LGBTQ».
Anche la stretta attualità sembrerebbe confermare queste sensazioni: ad esempio, la scelta presa dalla Regione Lazio, che nelle scorse ore ha comunicato di non voler patrocinare il Roma Pride 2023 (il motivo? Secondo la maggioranza di destra che sostiene il governatore Francesco Rocca, la manifestazione funzionerebbe da agit–prop inconsapevole alla temutissima Gestazione per altri), si inserisce perfettamente in questo solco.
Insomma, allo stato attuale, il nostro Paese non è certamente percepito come un paradiso dei diritti civili. Proviamo a ripercorrere le principali decisioni prese dal governo nei suoi primi nove mesi di legislatura per comprendere se, alla fine della fiera, l’Italia è diventata un po’ più ungherese di prima.
Coppie omogenitoriali
Partiamo dal provvedimento più discusso, ossia la circolare del ministero dell’Interno che, a marzo, ha chiesto ai comuni di interrompere il riconoscimento e le registrazioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali, complicando ulteriormente un contesto già molto difficile per queste famiglie, che in assenza di una legge sono costrette a muoversi tra regolamenti locali e sentenze giudiziarie. Le argomentazioni del governo, purtroppo, poggiano su basi giuridiche solide, su tutte la sentenza pronunciata nel 2019 dalla Corte di Cassazione secondo cui le anagrafi italiane non possono trascrivere gli atti stranieri di bambini nati attraverso la gestazione per altri (e che costringe quindi i genitori non biologici a procedere con la richiesta di adozione, un processo spesso lungo e faticoso). Nello stesso mese, la commissione Politiche europee del Senato ha bocciato l’adozione di un certificato europeo di filiazione, un documento unico in grado di provare la filiazione dei minori e garantire ai genitori residenti in Unione europea il diritto ad essere riconosciuti come madri e padri dei propri figli in tutti gli Stati membri. Il tema delle trascrizioni è legato a doppio filo a quello della gestazione per altri (GPA), un altro degli obiettivi polemici del governo.
Gestazione per altri
La procedura univoca che l’Europa vorrebbe introdurre – e che, come appena accennato, la commissione Politiche Europee del Senato ha bocciato – semplificherebbe infatti la vita di tutte le famiglie (sì, anche quelle eterosessuali) che hanno fatto ricorso alla gestazione per altri – una forma di procreazione assistita nella quale una donna (detta gestante) porta a termina la gravidanza per conto di una coppia o un singolo genitore intenzionale. In Italia, attualmente, la gestazione per altri è una pratica vietata, e di conseguenza chi vuole avere un figlio ricorrendo a questa procedura è costretto a farlo all’estero. Il governo, però, vuole chiudere le porte anche a questa possibilità residuale, modificando la legge 40/2004 (un’idea che Fratelli d’Italia insegue da anni). L’obiettivo è più vicino che mai: il 31 maggio la Commissione Giustizia della Camera ha concluso il voto degli emendamenti alla proposta di legge che dichiara la gestazione per altri reato universale, ossia perseguibile anche se commesso all’estero.
La condanna dell'Europa
I passi indietro dell’Italia sono evidenti anche dalle parti di Bruxelles: non a caso, ad aprile il Parlamento europeo ha approvato un emendamento presentato dai Verdi alla risoluzione sulla depenalizzazione universale dell’omosessualità; un provvedimento che ha citato esplicitamente Italia, associandola senza troppi problemi a Ungheria e Polonia. Nello specifico, il testo approvato dall’Europarlamento «esprime preoccupazione per gli attuali movimenti retorici anti-diritti, anti-gender e anti-Lgbtq a livello globale, alimentati da alcuni leader politici e religiosi in tutto il mondo, anche nell’Ue; ritiene che tali movimenti ostacolino notevolmente gli sforzi volti a conseguire la depenalizzazione universale dell’omosessualità e dell’identità transgender, in quanto legittimano la retorica secondo cui le persone Lgbtiq sono un’ideologia anziché esseri umani; condanna fermamente la diffusione di tale retorica da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia». Il fatto che il nostro Paese venga associato con così tanta naturalezza al Gruppo di Visegrád racconta molto dell’arretratezza nostrana sul fronte dei diritti civili.
Aborto
I provvedimenti anti LGBT rappresentano solo una parte di un disegno più ampio: il governo Meloni ha alzato gli scudi sul fronte più generale dei diritti civili, in particolare il diritto all’aborto. Che la lotta contro l’interruzione di gravidanza potesse assurgere a cavallo di battaglia del governo era chiaro sin dal primissimo giorno di legislatura, quando sono state depositate non una, ma ben tre proposte di legge marcatamente antiabortiste. La prima, presentata dal senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, prevedeva il riconoscimento giuridico del feto attraverso la modifica dell’articolo 1 del codice civile (in sostanza, calando il feto nei panni di una vittima di reato e la madre che sceglie di abortire come autrice di un omicidio volontario). La seconda. sempre a firma di Gasparri, puntava a istituire la “giornata della vita nascente” ossia una ricorrenza nazionale chiesta da anni da varie associazioni antiabortiste. L’ultima, invece, contemplava la creazione di un fondo per “il sostegno della maternità” che, attraverso aiuti e contributi, dovrebbe convincere le donne a non abortire (è una strada seguita anche da alcune regioni, Piemonte su tutte).
In definitiva: sì, qualche passetto indietro lo abbiamo fatto.