La prima cosa che cerco in un rave: chi ne ha bisogno e, tra coloro che ne hanno bisogno, chi riesce a gestirsi questo bisogno?
Mi siedo fuori per un po’. Nel cortile, dove fa più fresco. I miei piedi storpi pulsano. Sono appoggiata a… qualcosa, o qualcuno. Deliziosa stanchezza. Riposare i piedi, bere dell’acqua. Sta facendo giorno. Valuto se tornare a casa. Ho perso il mio gruppo – chiamiamole Z ed E. Credo siano ancora qui, da qualche parte. Va tutto bene. Un momento da sola, senza essere sola.
Guardo la folla. I gruppetti di persone in piedi, sedute. Mi sembra di vedere B e H e forse A. Mi piace: è soprattutto la folla di chi ne ha bisogno. Sono chimicamente predisposta alla simpatia. L’MD ha fatto effetto da un po’ ormai e sono lanciata dritta verso l’orlo del precipizio, da cui poi si rotola nella polvere. Persino in questa luce fastidiosa sembra-no persone con cui voglio stare. Essere una raver palesemente transessuale di mezza età non è sempre facile. In questo momento mi trovo in una situazione in cui non sono né respinta né al centro dell’attenzione.
Questa situazione è iniziata quando ho intravisto la locandina. Non una locandina fisica; la mia amica Q me l’ha girata per DM. Un quadratino di informazione visiva. Ho segnato la data sul calendario e ho annullato gli impegni per il giorno successivo. È un rave queer di New York che esiste dal 2015. Le locandine suggeriscono una certa tasca nascosta di possibilità. Sarà un rave, sicuro. Ci saranno dj incredibili. Forse sarà vagamente a tema. Non si sa dove si terrà ma si può tirare a indovinare.
La grafica, però, lascia intendere anche qualcos’altro. Ogni locandina assume un certo stile e lo riconfigura. Che poi è il punto della questione. Assumere il controllo dello spazio. Assumere il controllo delle macchine. Assumere il controllo della chimica. Circuire dall’interno i simboli, la tecnologia, il mercato immobiliare. Almeno per un po’. L’esterno non esiste più, ma forse insieme all’interno possiamo raggiungere un mondo frattale. Allora sì che è un bel rave.
In una bella serata, in un bel rave, tutto si amalgama in una tensione perfetta tra invenzione e intenzione. Ognuno ha una parte. Per alcunз è lavoro: c’è W al bar che sta servendo un mate soda. C’è N che porta in spalla uno schermo. C’è S il promoter in piena attività, distribuisce biglietti per i drink. Ecco O, un grande abbraccio e un sorriso caloroso. Ma se vieni soltanto per consumare il loro lavoro, nessuno si diverte.
La scena rave newyorkese queer e trans perlopiù lo capisce. C’è chi viene per mettersi in tiro; c’è chi viene per lasciare il proprio sudore sulla pista da ballo. Io sono tra queste. Voglio essere animata e animarmi sulla pista. Un nodo in una reazione a catena di esseri carnali che si aggregano attorno all’aria pulsante.
Questa è la promessa di un bel rave: assorbi la situazione. Aggiungici del tuo. Variala. Aggiornala, rinfrescala. Aggiungici un accento, un movimento, senza fretta. Con o senza il nostro intervento, l’attimo scivolerà nel successivo. Le macchine del ritmo ci sovrastano. Sono implacabili. Hanno destituito quella che un tempo si chiamava Storia. C’è spazio tra i beat, però, per esistere ancora.
I beat mi chiamano. Devo ritornare sulla pista. Ho riposato a sufficienza i miei piedi storpi, posso rientrare e prenderne ancora. Mi faccio strada attraverso la massa di corpi sparsi nel cortile. Oltrepasso la soglia. Dove c’è buio, caldo, rumore, una nebbia infusa di luce gingillante. I beat mi invocano. Mi invocano in questo tempo dentro la macchina che ci contiene tutte, che va avanti indipendentemente da noi, ma all’interno della quale, in questa situazione costruita con amore, frutto dell’arte di molte mani, bruceremo con furia animale, finché non si fermerà.
Ballo sotto la dj Goth Jafar. C’è questa ragazza accanto a me – chiamiamola F. Non so cosa siamo. Scopamiche, forse? O forse adesso siamo soltanto compagne di rave occasionali. Comunque sia, stasera… ci sta dando dentro. E non intendo solo con una varietà completa di funghetti. Puro movimento, pura gioia. Ne ha bisogno. Luccica di sudore. Entro in modalità mamma-rave. Non che lei non sappia badare a se stessa. Nella sua vita precedente, in un altro genere, ha assistito a scontri armati. Le sfioro la spalla. Quando si gira a guardarmi, mimo e urlo: «Acqua?». Cenno. Provvedo.
Accanto a lei c’è quello che la mia amica di rave B definisce punitore ma, come vedremo, non della peggior specie. Il punitore è una persona che, in un modo o nell’altro, ti rende difficile lasciarti andare. Se ne sta impalato davanti alla dj guardando il cellulare. Poi si gira verso un amico, un altro punitore. Chiacchierano a voce alta. Poi uno solleva la lattina di birra e ne spruzza il contenuto sui vicini. Quando torno con l’acqua, F si è allontanata da lui.
I rave rispondono a molti bisogni, interessi, desideri. Distrazione, intrattenimento, esercizio fisico, frequentazioni, cruising, e così via. Ma quelli si possono soddisfare anche con altre pratiche. A me interessa uno specifico insieme di bisogni e una particolare gamma di persone per cui il bisogno è il rave in sé.
Non mi interessano i punitori. Men che meno quelli che H, un’altra amica di rave, definisce lз colleghз: gente che vuole passare una notte fuori solo per poi parlarne in ufficio il lunedì. Dopo aver evitato i punitori, ora siamo bloccate vicino a un collega. Ci dà dentro, ma un po’ troppo. Non che io voglia giudicare – so come ci si sente. Ma ballare accanto a lui è impossibile. Movimenti superveloci, imprevedibili, si lancia ovunque, come se fosse l’unica persona presente. Ci spostiamo di nuovo.
Mi interessano le persone per cui il rave è una pratica collaborativa che rende sopportabile questa vita. Potrei uscirmene con una quantità di metafore: il rave come dipendenza, rituale, performance, catarsi, sublimità, grazia, resistenza. Ma ci arriveremo – al momento, non diamo troppo per scontato. Lasciamo che alcuni concetti sul rave emergano attraverso la partecipazione e l’osservazione. Vi porterò a ballare.
Tratto da Raving di McKenzie Wark (Nero Edizioni, 2023).