Possono i capolavori distruggere i propri creatori? La storia ci dice di sì: nel momento di massima tensione, quando tutto sembra andare in pezzi e a tutti gli effetti ci va, ecco che l’artista tira fuori un’opera che è come un disperato tentativo di salvarsi, o come minimo di salvare qualcosa di sé mentre la barca affonda. Tra gli album non c’è mai stato esempio più fulgido di Synchronicity dei Police, che oggi compie 40 anni.
Uscito il 17 giugno 1983, è l’ultimo disco dei Police prima dello scioglimento, quello che sembra avere prosciugato tutta la forza creativa del trio. Anche nelle successive reunion (e non parliamo tanto di quelle degli anni 2000, ma di quella del 1986 per la raccolta Every Breath You Take: The Singles che avrebbe dovuto fruttare un album inedito e che invece vide solo una sbiadita nuova versione di Don’t Stand So Close to Me) i tre sembrano bloccati psicologicamente. E sì che Synchronicity nasce dalla tensione verso la psicologia. Sting era avido lettore di Arthur Koestler, autore di Le radici del caso, un libro di parapsicologia che riprendeva il concetto junghiano di sincronicità (cioè la teoria secondo cui eventi contemporanei apparentemente casuali sono collegati attraverso il loro significato) invitando la scienza a non sottovalutare fatti paranormali e coincidenze, ma a studiarle per trattare la “magia” come una risorsa.
Il bassista/cantante aveva già scritto sotto l’ influsso di Koestler. Ghost in the Machine, il disco precedente, era appunto un titolo parafrasato da un suo libro, in italiano Il fantasma dentro la macchina. Synchronicity risulta essere il secondo capitolo di una trilogia probabilmente mancata, anche dal punto di vista sonoro. Neanche The Dream of the Blue Turtles, il primo album solista di Sting, con il titolo che evoca ancora lo spazio del sogno junghiano, può essere un prosieguo, anche se esce simbolicamente lo stesso giorno dell’anno di Synchronicity, il 17 giugno 1985.
The Dream, disco dalle forti influenze jazz, sarebbe dovuto essere pesantemente synth funk, sotto l’egida dei Torch Song di William Orbit. Quelle sessioni furono scartate e ancora oggi sono chiuse in un cassetto. Sting decise quindi di non portare a evoluzione l’esperienza Synchronicity che è, nella storia dei Police, senza dubbio il disco più elettronico, sintetico, artefatto e in ultima analisi il più adatto a proiettarsi negli anni 2000.
In clamoroso contrasto con la location delle registrazioni, ovvero gli Air Studios di George Martin sulla splendida isola di Montserrat, vero paradiso naturale, i Police riducono il calore delle loro influenze reggae e accelerano la fredda artificialità dell’elettronica. Non è la prima volta che registrano lì, anche Ghost era stato concepito in quel luogo da favola, ma Synchronicity è costellato di un uso massiccio e inedito di sintetizzatori, in particolare dell’Oberheim che viene programmato da Sting in persona, al quale fa da contrappunto la chitarra di Andy Summers, anch’essa processata attraverso un guitar synth GR300 della Roland ed effettistica varia, mentre Stewart Copeland collabora alla ritmica dei sequencer.
I tre attuano una sorta di turnover nell’uso dei sintetizzatori, liquidando i contributi individuali in un collettivo “all noises by The Police” nei crediti dell’album. Ma che i Police siano un collettivo, beh, non è più vero. I tre vanno d’accordo, infatti, solo quando pranzano o dicono cazzate. Nel momento in cui si parla di musica scende il buio. Sono tre teste che negli anni hanno sviluppato una propria estetica, una propria idea di come fare musica e paradossalmente questa maturità artistica sta stretta dentro le gabbie del compromesso in una band. Ragion per cui Synchronicity è anche il disco più editato della storia dei Police: gran parte dei pezzi viene assemblata tramite taglia e cuci di diverse session, cercando le parti migliori. I tre suonano contemporaneamente ma in ambienti diversi, ufficialmente per motivi di sound escogitato da Hugh Padgham, in realtà per evitare ulteriori scazzi e permettere loro di concentrarsi solo sui pezzi. Una volta registrati sono restii a riascoltarli, delegandosi a turno a restare soli col sound engineer mentre gli altri si svagano sull’isola.
Eclatante è la storia di Every Breath You Take, che inizialmente sembrava impossibile da chiudere, con Sting e Copeland che vengono quasi alle mani e il produttore che ne viene fuori cucendo tutta una serie di sovraincisioni e abbandonando l’idea di registrarla live in the studio. La band, in primis Sting, sente di essere al centro di un disfacimento cosmico e sa che probabilmente quello sarebbe stato l’ultimo disco dei Police. Tutti rimasero stupiti dal fatto che, riascoltandolo, il disco fosse davvero forte nonostante le premesse. Non solo: non si può chiamarlo del tutto un disco commerciale: il lato A è infatti altamente sperimentale, mentre il lato B, nonostante l’appeal pop, è costellato di tematiche scure, dark, inquietanti.
Si incomincia con la prima parte di Synchronicity, con una sequenza propulsiva e nella sua poliritmia, vagamente afrofuturista, si entra nel concetto junghiano di sincronicità ma anche di inconscio collettivo, lo “spiritus mundi” che lega gli esseri umani e che li fa agire come mossi da forze paranormali, archetipiche. Il fatto che l’umanità non approfondisca le sue risorse inconsce provoca mostri. Walking in Your Footsteps paragona gli umani ai dinosauri: credono di essere padroni del mondo, ma sono solo diretti verso l’estinzione. Lo spauracchio dell’olocausto nucleare fa da sfondo a questo brano tempestato di percussioni elettroniche e ancora una volta si guarda all’Africa, prendendone in prestito le cantilene. A un certo punto il brano si snoda in un contrasto tra preistoria e futuro tecnologico attraverso le svisate free di Andy Summers, che con la sua chitarra aleatoria ricorda il piglio di Adrian Belew. O My God è una sorta di bestemmia verso l’indifferenza del creatore nei confronti delle miserie umane messa in canzone, e – rispetto al brano precedente – torna a una forma più tradizionale, con solo una sostanziosa patina ambient offerta dalla chitarra synth di Summers. Solo verso la fine Copeland alla batteria e Sting al sax si prodigano in una sorta di “free jazz punk inglese”, come direbbe Battiato.
A questo proposito, Mother è uno dei brani più scioccanti del disco, un pezzo ossessivo e paranoico di Andy Summers al quale presta la sua voce schizofrenica, all’interno di un quadretto edipico alla Psyco. È il pezzo più estremo del disco e rappresenta un collegamento con la no wave piuttosto esplicito quanto grottesco. A detta di Andy Summers il punto di riferimento è Captain Beefheart, ma nel suo andazzo mediorientale è impossibile non vederci l’avanguardia rock newyorkese fatta di un meticciato senza limiti. Una specie di monito a chi pensa che i Police siano roba esclusivamente da classifica, col suo humour nero introduce Miss Gradenko, l’unico numero scritto da Copeland, musicalmente più vicino ai Police “classici”, nonostante la bizzarria che contraddistingue i brani del batterista: un testo anti-totalitario che apparentemente si riferisce alla paranoia del Cremlino, ma che in realtà cita 1984 di Orwell. L’amore scardina ogni uniforme e per questo è pericoloso.
Il contrasto quasi comico tra un tema così scottante e la musica “spensierata” (disturbata solo dalle svisate avant di Summers) si riallinea poi nel brano più aggressivo del disco, ovvero Synchronicity II, in cui si descrive il collasso nevrotico di un uomo frustrato da famiglia, lavoro, pressione sociale che avviene nello stesso momento in cui un mostro sorge da un lago (ovviamente quello di Loch Ness), tra Jung e La seconda venuta di Yeats, in cui la fine di una civiltà lascia il posto a qualcosa di inedito, selvaggio e inarrestabile. Un brano quasi noise rock, in cui Andy Summers si prodiga in muri di feedback registrati senza neanche ascoltare una nota.
Il lato B è praticamente una raccolta di singoli. Si parte con Every Breath You Take, da tutti scambiata per una canzone d’amore, col celebre riff di chitarra di Summers prodotto suonando con una gomma da cancellare tra le corde per ottenere uno stoppato “morbido” e peculiare. King of Pain è il proiettarsi dello stato psicologico umano nel mondo dei simbolismi, una macchia nera sul sole diventa l’anima di Sting, esaurito dopo la fine del suo primo matrimonio, e in generale quella di tutti in quanto incapaci di emanciparci dal dolore, un brano in odore world che non sarebbe stato male in un disco di Peter Gabriel. Wrapped Around Your Finger è un reggae elettronico evanescente, dal testo alchemico, pieno di riferimenti mitologici e letterari, sul ribaltare le carte in tavola a chi fino a quel momento comandava il gioco (chiaro il riferimento al momento autobiografico di Sting con la moglie).
Tea in the Sahara è la canzone che chiude l’album. Ispirata a Il tè nel deserto di Paul Bowles (dal quale poi Bertolucci trasse il suo film), narra di queste sorelle che aspettano in eterno un principe arabo per un tè e costui non si presenta. Il principe sembra rappresentare i Police, che se ne vanno per sempre senza tornare più mentre i fan continuano ad aspettarli. Quello che per Stewart Copeland è il pezzo più bello dei Police ha una melodia diafana, una ritmica che sembra fatta di vento e la chitarra di Andy Summers che suona come un arioso pad sintetico ma è solo gonfiata di eco e trattata con un pedale del volume.
Se è vero che Synchronicity è l’album è il più futuristico del gruppo, è altrettanto vero che ci sono riferimenti “classici” sottotraccia, in qualche modo sfruttando quell’idea di inconscio collettivo in senso creativo/evocativo. O My God contiene un riff di basso che cita praticamente Day Tripper dei Beatles, Synchronicity I sembra rielaborare So What di Miles Davis, Every Breath You Take è uno standard doo-wop riveduto in chiave moderna, e sono solo alcuni degli spunti.
La cosa che più stupisce e che i lati B dei singoli sono a tutti gli effetti parte dell’album, scartati all’ultimo momento solo per problemi di spazio su vinile (all’epoca il CD era ai primi vagiti). Mettono in luce come la coppia Sting-Summers sia capace di scrivere cose eterne. Un brano come Murder by Numbers, in cui viene spietatamente rivelata la dinamica del potere che si allena a essere un insensibile assassino per mantenere i propri privilegi, a detta degli stessi autori è parte integrante di Synchronicity, ma è anche un grande pezzo stand alone, tanto che fu poi rifatto live da Frank Zappa proprio con l’ospitata di Sting. Once Upon a Dayream è un altro grande brano della coppia: sognante, spaziale, uno dei migliori numeri romantici dei Police. Andy Summers firma da solo Someone to Talk To, che nel suo andazzo urban reggae è l’altra faccia di Mother (anche qui a cantare è Andy: dove lì c’era l’ossessione per un’ingerenza affettiva soffocante, qui c’è una solitudine vissuta con amara lucidità).
Sarebbe forse stato un brano cruciale di Synchronicity (tanto che sia Summers che Copeland furono piccati dal rifiuto di Sting di cantarla, forse perché non si sentiva all’altezza) dimostrando come i Police erano un insieme di forti personalità individuali, ma anche un’entità che esisteva di per sé. Ascoltandolo oggi, Sychronicity suona sfaccettato e sempre diverso come l’edizione originale della copertina, pubblicata in 36 versioni differenti contenente un vinile all’apparenza nero, ma che una volta esposto alla luce rivelava il suo colore viola. Nel momento in cui la band muore, il successo diventa dirompente. Sì, i Police ci avevano visto lungo: siamo tutti in “a sleep trance / a dream dance / a shared romance”.