«La mia carriera è partita forte, poi ha avuto una flessione e negli ultimi anni si sta risollevando di nuovo», dice Lloyd Cole in collegamento via Zoom dallo studio di registrazione che si è costruito all’ultimo piano della sua casa di Easthampton, Massachusetts. «Il pubblico non vuole cantanti pop di mezza età: li vuole giovani oppure anziani. Da parte mia, sono grato di aver potuto continuare a fare questo mestiere, di aver potuto dar da mangiare alla mia famiglia. Mi definirei un musicista di culto, di nicchia. Più di quanto vorrei, perché non ho mai cercato di fare musica difficile: ho sempre cercato di fare musica per tutti. Cerco ancora di coinvolgere un numero maggiore di persone, una cosa che per molto tempo non mi è riuscita».
La musica per tutti di On Pain, ultimo album del musicista britannico, è decisamente basata più sui sintetizzatori che sulle chitarre. Non è una novità, se si pensa a lavori come Plastic Wood, Selected Studies, Vol. I realizzato assieme ad Hans-Joachim Roedelius e 1D. «Sono partito da tre canzoni che mi pareva potessero costituire il nucleo del nuovo album», spiega Cole. «Erano Wolves, Warm by the Fire e More of What You Are ed erano tutte basate sul sintetizzatore. Questo ha dettato il tono generale del disco».
Nell’album c’è una canzone intitolata The Idiot che dice: “Andremo a Berlino, smetteremo di drogarci”. Il riferimento sembra evidente.
Non mi piace dire che una canzone parla di qualcosa. Mi piace dire che la canzone è qualcosa. È come una scultura, nessuno domanda qual è l’argomento di quella scultura. La guardi, ti piace, ci trovi degli spunti, utilizzi la tua estetica per apprezzare la scultura, così come fai per una canzone. Probabilmente il riferimento di cui parli riguarda Iggy Pop e David Bowie. Ma ci sono anche persone che non ci hanno riconosciuto la stessa cosa. Non voglio però restringere il campo delle interpretazioni. Anche perché, quando in una canzone troviamo un nostro significato, non vogliamo che l’artista ci dica che ci siamo sbagliati. Inoltre non mi piace che le canzoni abbiano una sola chiave di lettura. Detto ciò, ero abbastanza ossessionato da questo periodo tra il 1976 e il 1977, quando Bowie e Iggy si sono in un certo senso salvati a vicenda. Penso sia una cosa bella: se fossero rimasti a Los Angeles sarebbero morti entrambi, sarebbe bastato anche solo un anno. Quando Blair Cowan (il tastierista dei Commotions, nda) ha scritto questa musica è stato un bel regalo.
Per il video di Warm by the Fire hai utilizzato l’intelligenza artificiale. È il grande tema di discussione di questo periodo, non solo per i musicisti. Secondo Peter Gabriel potrà assicurare istruzione e cure mediche a tutti i bambini del mondo.
Sono d’accordo con Peter Gabriel, senz’altro sarà il futuro della medicina. È però necessario che venga seriamente monitorata e che il suo uso venga regolato. La mia esperienza riguarda l’utilizzo di Pixray, un programma di generazione di immagini che inizialmente ho utilizzato per la copertina del nuovo album. Poi ho capito che avrei potuto utilizzarlo anche per le animazioni, per i video. Sono riuscito a contattare direttamente la persona che ha creato questo programma per chiedergli se avrei dovuto pagare per le immagini che avrei usato. Mi ha risposto che quello che veniva fuori era il mio lavoro, non il suo, e che quindi non avrei dovuto pagare. Capisco che chi si guadagna da vivere con la creatività sia preoccupato, perché il rischio è che l’intelligenza artificiale faccia il suo lavoro. Però questo strumento può servire a creare un’emozione attraverso l’arte e non è molto diverso da quando si utilizza un sintetizzatore. Non credo invece che l’intelligenza artificiale possa sostituirsi al musicista nello scrivere una canzone. Mentre mixavamo il disco, Chris Hughes ha fatto qualche esperimento chiedendo al computer di scrivere qualcosa nello stile di Lloyd Cole ma quello che ne è uscito non mi ha convinto per niente.
Quattro delle canzoni dei nuovo album sono state scritte con Blair Cowan e Neil Clark dei Commotions, che ti accompagneranno anche in tour. Il prossimo anno cade il quarantesimo anniversario dell’uscita di Rattlesnakes, il vostro primo album. Ci sarà una vera e propria reunion?
Non penso. Ne abbiamo parlato con Blair e Neil, ma ci interessa di più fare qualcosa di nuovo. Forse oggi suoniamo come i Commotions quarant’anni dopo. Stare in una band è difficile, ci sono sempre attriti. Stare insieme tanto tempo, come hanno fatto i Depeche Mode o gli U2, è qualcosa che noi non siamo stati capaci di fare. Quando abbiamo fatto i nostri tre album eravamo giovani. Ai tempi della reunion del 2004 eravamo già troppo vecchi. Gli Who hanno pubblicato canzoni per un periodo molto lungo, e quando suonano da vivo possono contare su una grande varietà di pezzi. Ma noi abbiamo solo canzoni fatte quando eravamo giovani. Piuttosto preferirei che a suonare le nostre vecchie canzoni fossero i miei figli.
In questo periodo escono anche le ristampe dei tre album dei Commotions. Come valuti Easy Pieces e Mainstream a quasi quarant’anni dalla loro uscita? Gran parte della critica ha sempre sottolineato la loro distanza dalla bellezza di Rattlesnakes.
Rattlesnakes non ha al suo interno nemmeno un pezzo debole. Se non ricordo male abbiamo registrato solo undici canzoni, dieci delle quali sono finite sull’album. E di queste eravamo contentissimi. Quella di Easy Pieces è una storia più complicata. Ci hanno messo un sacco di fretta per realizzarlo, la casa discografica voleva assolutamente che uscisse entro il Natale del 1985. Ci fecero credere che, se non fossimo usciti entro Natale, il pubblico ci avrebbe dimenticati entro l’anno successivo. Ovviamente non era così: il pubblico ha aspettato Hats dei Blue Nile per cinque anni ed è stato contento di farlo. Noi non avevamo abbastanza tempo e abbastanza prospettiva. C’è anche da dire che su Rattlesnakes tutte le canzoni erano nuove: non ce n’era neanche una che fosse vecchia più di un anno. Abbiamo pensato di poterlo fare di nuovo, di poter scrivere in poco tempo abbastanza pezzi per realizzare un nuovo album, ma ci sono stati dei buchi. Penso che James sia una canzone molto debole e che la produzione sia un po’ stereotipata. Non mi piacciono i sintetizzatori su Cut Me Down, anche se penso sia una buona canzone. E il piano su Lost Weekend sembra quello dei Madness, ma non volevo suonare come i Madness. Ci sono un po’ di elementi che fanno sì che Easy Pieces non sia al livello di Rattlesnakes. Ci sono però belle canzoni come Why I Love Country Music e Perfect Blue, anche se la versione dell’album è troppo veloce.
Comunque è passato abbastanza tempo per potermi voltare indietro e dire che non è un album brutto come pensavo, e le canzoni buone sono davvero buone. Di Mainstream penso la stessa cosa, però Big Snake non dovrebbe stare su quel disco, non è una canzone dei Commotions: siamo solo io e Ian Stanley, con Jon Hassel alla tromba. Metterla nell’album è stato un errore. Ma sono molto orgoglioso di quel disco e non è una cosa che sono abituato a dire dei miei dischi perché non mi piace il concetto di orgoglio. Ma in questo caso il lavoro è stato molto duro. Fare quel disco è stato molto difficile, ma siamo rimasti insieme abbastanza tempo per finirlo, nonostante tutti prima o poi abbiamo pensato che ne avevamo abbastanza della band.
Quelli dei Commotions sono stati album di successo. Hanno ancora un valore commerciale? Nell’era dello streaming sono ancora fonte di guadagno?
Non guadagno cifre significative da quegli album. Quando hanno capito che non potevano battere Spotify, le major se lo sono comprate. Quando ascolti Perfect Skin in streaming, la Universal ci guadagna più di me.
Invece da qualche tempo hai aperto il tuo account su Patreon, una piattaforma che ti permette di ricevere denaro direttamente dai fan. Come vanno gli affari?
Nel marzo del 2020 eravamo ancora in tour con Guesswork. Avevamo appena suonato ad Amburgo e ci eravamo spostati a Goteborg per il concerto successivo quando tutto è stato chiuso. Un paio di settimane dopo sono tornato a casa e ho iniziato a lavorare a questo nuovo album. Ma avevo anche capito che era impossibile sapere per quanto tempo sarebbe durato il lockdown, e di conseguenza per quanto tempo non avrei potuto guadagnare grazie ai concerti, dato che fare un album non mi rende nulla dal punto di vista economico. La mia prima preoccupazione era non perdere la casa. Grazie a Patreon ho potuto pagare le bollette. Non molto di più, ma era già qualcosa. Per più di un anno ho fatto quasi solo quello. Su Patreon ho una sorta di memoir multimediale, ci sono le fotografie dei miei appunti che sono diventati i testi delle canzoni, i brani registrati su cassetta e così via… Ho anche fatto dei concerti qui a casa e ho dato lezioni di chitarra. Ho riscontrato un grande entusiasmo per queste forme di contatto, in un momento in cui le altre forme di contatto ci erano precluse. Continuo a farlo anche perché con questo tour saremo on the road in sette tra musicisti e tecnici ed è piuttosto dispendioso. Anzi: non perderci dei soldi sarebbe già un buon risultato.
In alcuni tuoi post sui social sei stato molto critico nei confronti del sistema sanitario americani, che richiede cifre altissime per poter stipulare un’assicurazione medica. Vivi negli Stati Uniti da oltre trent’anni, quali sono le cose che ti piacciono e quali quelle che non ti piacciono?
Il problema non è solo il sistema sanitario. Quando un ragazzo esce dal college, ha debiti per 200 mila dollari e la sua vita inizia con questa zavorra. È come giocare a Monopoli, è una follia. Il sogno americano diventa reale per meno dell’1% della popolazione. Io vivo qui ma se non fossi sposato con figli farei scelte diverse. Mia moglie è americana, i miei figli sono andati a scuola qui e non voglio che passino quello che abbiamo passato io e mio fratello quando i nostri genitori si trasferivano da una parte all’altra del Regno Unito. Ciò detto, nel Massachusetts mi trovo bene, soprattutto con le persone. In altri stati invece ho incontrato persone apertamente razziste. Ma del resto gli Stati Uniti hanno avuto anche un presidente apertamente razzista. Di sicuro non voglio morire negli Stati Uniti, e quando sarò più vecchio voglio passare più tempo in Europa, anche se la Brexit mi ha spezzato il cuore.