È una ballerina invasata che s’agita fino ad essere esausta. È la celebrante di un rito di liberazione dalle paure che esige una partecipazione passionale. È una gentildonna inglese che ringrazia gli ospiti con voce alta e flebile. È la figura eterea d’un dipinto che scende dal quadro e ti prende a calci nel sedere. È una teatrante che ha studiato ogni posa, getta il capo all’indietro, inarca le spalle, forse misura persino il modo in cui i veli del vestito cadono per formare una figura perfetta e instagrammabile. È una presenza da cui è impossibile distogliere lo sguardo.
Il concerto che Florence + The Machine hanno portato ieri sera all’Ippodromo di Milano, prima data degli I-Days, è liberatorio in modo quasi naïf. Dietro alle spalle di Florence Welch c’è una grande tavola con candelabri e chissà cos’altro coperti da un telo. Siamo in una vecchia nave da crociera affondata e adagiatasi sul fondo del mare. Siamo nella casa dell’abbastanza di Miss Havisham, l’abitazione buia e fatiscente in cui il protagonista di Grandi speranze teme d’entrare, dove tutto è «deserto e in disuso». Siamo in un luogo che è stato magnifico e opulento e ora è decaduto e polveroso. Siamo in una favola dark e quella approntata sul palco è la casa dei nostri fantasmi, che Welch esorcizza cantando e ballando e correndo con matta dedizione da una parte all’altra del palco.
Il concerto, così come l’album che l’ha ispirato ovvero il sottovalutato Dance Fever, gira attorno al concetto di movimento e di performance in un periodo – il disco è stato inciso tra il 2020 e il 2021 – in cui ogni cosa pareva immobile e abbandonata, coperta dal telo che è sul palco. Tra una canzone e l’altra Florence evoca la gioia che si prova a tornare a vivere la stagione dei festival nel mese in cui “l’amore diventa un atto di sfida”, come recita June. E quindi c’è questa idea di toccarsi, abbracciarsi, riconoscersi, celebrarsi. Succede sempre ai concerti di Florence + The Machine ed è successo anche ieri sera che Welch inviti a mettere via per un istante i telefonini. Aspetta pazientemente che una ad una le lucine degli schermi si spengano – e si spengono, eccome, quasi tutte. Desidera che tutti abbiano le braccia libere per stringere la persona che hanno a fianco e dirle «ti voglio bene». Al contrario, durante Cosmic Love chiede d’accendere tutte le luci degli smartphone e sarà una scena scontata, ma per poche decine di secondi sembra di stare dentro quella frase del testo, “ho tolto le stelle dai miei occhi e ne ho fatto una mappa”.
C’è qualcosa d’ingenuo e artefatto in tutto questo? Ma certo, però funziona. Welch ti dice: fregatene, buttati, vedrà che starai meglio. Comincia il concerto coordinando i movimenti del corpo con gli staccati potenti di Heaven Is Here e quando attacca King sembra stia cantando non solo il suo dilemma esistenziale di donna che ha superato i 35 e sacrifica una parte della vita alla musica, ma anche un manifesto di empowerment attraverso l’arte: “Non sono madre, non sono sposa, sono re”. È una scelta lessicale (re, non regina) che dice qualcosa della presenza scenica di questa cantante bellissima e femminile che porta sul palco anche un’energia mascolina.
Il concerto non è una favoletta, il percorso che porta ai bis finali è emotivamente accidentato, Florence indossa con fierezza la sua “corona dorata di tristezza”, espone sul palco i saliscendi emotivi (il formidabile “picks me up, puts me down” di Free), narra la sua auto-mitologia in canzoni piene di punti interrogativi, che dal vivo diventano esclamativi. Perché in pezzi come Ship to Wreck oppure Hunger che si sono sentiti ieri sera ci sono dolore, dipendenza, le umiliazioni che uno s’infligge da sé, ma anche un senso di liberazione che si rafforza quando a cantarli sono 30 mila persone, un pienone che rassicura sulla presa che Welch continua ad avere sul pubblico italiano nonostante la sua musica sia considerata fuori moda – io direi fuori dal tempo. È eseguita da musicisti che mediano in modo efficace la storia del pop-rock inglese con quella americana e stanno sempre un passo indietro rispetto all’officiante dalla voce limpida e forte, l’eloquio in equilibrio quasi miracoloso tra potenza ed espressività.
Migliaia di persone saltano alzando un gran polverone e sotto il palco ci sono come sempre ragazze con le coroncine di fiori, c’è una bella energia. Come da copione, Welch interpreta alcune canzoni scendendo dal palco e portandosi a ridosso delle transenne, quasi si volesse dare in modo definitivo al pubblico, cercarne l’abbraccio, celebrare la vicinanza che non può essere solo emotiva, ma deve essere necessariamente anche fisica – avreste dovuto vedere le facce estasiate di quelli delle prime file. Sono cose che accadono da anni ai concerti di Florence e va bene così perché c’è un elemento ritualistico in questo show, ci sono canzoni e frasi e gesti che si ripetono come in una cerimonia che va eseguita in un certo modo affinché assolva la sua funzione.
Mentre assistevo a questo culto che si chiude con la richiesta di sacrifici umani (niente di sanguinoso, è solo l’invito a caricarsi qualcuno sulle spalle), mentre ascoltavo Welch recitare canzoni come se fossero poesie, mentre la vedevo muoversi a tempo di musica agitando i veli trasparenti del vestito Del Core, pensavo che è un sollievo sapere che nel 2023 c’è una come lei, una cantante-teatrante che tiene viva un’idea massimalista di musica e di performance in cui idee ed emozioni sono sbattute in faccia in modo plateale, alla faccia del cinismo, dell’apatia, della distanza emotiva.
Forse andare a un concerto di Florence + The Machine è questa cosa qua, è abbandonarsi allo scandalo dell’empatia e sentire una voce imperiosa che ti dice: vivi intensamente, idiota, o finirai come Miss Havisham.
Set list
Heaven Is Here
King
Ship to Wreck
Free
Dog Days Are Over
Dream Girl Evil
Prayer Factory
Big God
June
Hunger
You’ve Got the Love
Choreomania
Kiss With a Fist
Cosmic Love
My Love
Restraint
Never Let Me Go
Shake It Out
Rabbit Heart (Raise It Up)