Una cosa è certa: La Prima Estate è un festival diverso rispetto agli eventi musicali che si tengono in Italia negli ultimi anni. Cosa che è la sua forza e la sua zavorra al tempo stesso. Da un lato non è il megafestival da decine di migliaia di persone (quelli dove viene usata la parola rock per un mesto riflesso condizionato un filo démodé per il cui il rock è la musica dei giovani e/o tutto quello che non è jazz, non è classica, non è musica da mummie sanremesi in piazze estive di provincia); dall’altro non è però nemmeno un boutique festival, formato che in questo 2023 sta avendo una fioritura impressionante dalle nostre parti: quei festival cioè dove la line up non è da numeri, ma è da intenditori, dopo ci si trova in mille a sera o poco più, dove si sta in posti ameni e non convenzionali, dove tutto quello che è troppo mainstream viene centellinato o direttamente escluso in modo imperativo.
Pensavamo che l’Italia fosse incapace di fare festival di un certo tipo, una nazione dove la ricerca e il gusto sofisticato fossero appalto solo di quattro sfigati e tutti gli altri invece in piazza ad ascoltare la merda propinata da qualche assessore incompetente: il numero enorme di boutique festival di quest’estate pare smentire tutto ciò (a meno che non sia proprio il loro numero ormai altissimo – eccessivo? – ad ammazzare questo ottimismo, ritrovandoci a fine estate tanti, troppi promoter di belle speranze ed idee a leccarsi le ferite per l’eccesso di garibaldina fiducia in un bacino d’utenza sofisticatone di accettabili dimensioni). In mezzo a tutto questo, tra il grandissimo e il boutique, ci sta La Prima Estate. «Più che un festival, una vacanza» recita il claim. Ed è un claim azzeccato. Nei lati positivi e, volendo, anche in quelli meno elegiaci.
È infatti un festival dove si respira moltissimo l’aria di mare e d’estate (sei letteralmente a cinquanta metri dalla costa, e il parco dove si svolge tutto – il Bussola Domani a Lido di Camaiore, in Versilia – è bello, alberato, ombreggiato, comunica proprio un’idea di rilassatezza e picnic); ed è anche un festival dove da un lato si parla agli appassionati di musica e non agli occasionali, perché non ci sono i nomi-del-momento sulla bocca di tutti, quelli più prevedibili, ma roba più ricercata, però al tempo stesso non si cercano (solo) gli appassionati incalliti e fissati, ma si vogliono titillare gli istinti di chi ha gusti consolidati e non per forza acrobatici. Ci sono insomma i grandi nomi delle nicchie: quelli che partendo dalla nicchia sono diventati talmente famosi (per merito, eh, non per culo o per Maria De Filippi) da poter entrare anche nella mappa del consumatore più dozzinale e meno accanito nell’essere informato ed aggiornato.
Gli Alt-J partono dalla nicchia dell’indie. Bon Iver, pure. Jamiroquai partono dalla nicchia dell’acid jazz anni ’90. Nas era il re dell’hip hop sì ma negli anni ’90, quando nel nostro paese il rap era un fenomeno per pochi fissati. Insomma: il pattern sugli headliner è questo. Non si cercano i mostri sacri, i “grandissimi”, i mega-consolidati o i molto chiacchierati, ma si cerca chi comunque incontri i favori di un pubblico vasto e trasversale ma informato, per hype recenti o per meriti acquisiti negli anni. Il problema è che questa specifica fascia di mercato – scusateci la parentesi da addetti ai lavori, ma è necessaria – all’estero è diventata mainstream a tutti gli effetti, con richieste da mainstream. Leggi: cachet enormi. La Prima Estate è il festival che vuole costruire una “classe media” dei festival: nomi grandi ma non troppo, nomi di gusto ma non ostentatamente di nicchia. L’idea è ottima. Accade però nel momento forse peggiore: quando cioè il mercato della musica live è arrivato a livelli di crescita ed avidità per cui tutti fra gli artisti e i rispettivi management – ciascuno a suo modo e per la sua scala d’impatto, i grandi come i piccoli, gli esordienti come i sopravvissuti – vogliono farsi pagare molto di più rispetto al passato. Davvero: il momento meno opportuno per sperimentare, questo. Il momento meno opportuno per tentare una “terza via”, alla ricerca di nuovi equilibri e nuove vie, ora che da una parte – quelle degli artisti e delle strutture che li gestiscono/comandano – si cerca solo il soldo e l’incasso.
Oh: La Prima Estate i mezzi economici li ha. Dietro a questo evento ci sta infatti chi costruisce il Lucca Summer Fest – lì sì che ci sono i nomoni, i più grandi di tutti – e chi da anni opera ai livelli più alti, anche economicamente. Ci sono insomma le spalle abbastanza larghe per tentare un esperimento e, parlando con gli organizzatori, che sono la seconda generazione delle grandi famiglie di promoter che hanno creato quanto sopra, la convinzione c’è, il disegno strategico pure.
La sfida è stanare una fascia di pubblico ben precisa: quella diciamo dei trentenni/quarantenni che a vent’anni erano accaniti scopritori di ogni novità, e oggi non si sono arresi al mainstream, quello no, però ecco, vogliono sentire i nomi un minimo consolidati, rassicuranti, affidabili, e non solo quelli che circolano nei forum, nelle chat e nei trending topic di YouTube più imprevedibilmente giovanilisti e di nicchia. Poi sì: fra i non headliner puoi azzardare volendo, sbizzarrirti, ma senza mai esagerare. È un festival confortevole, La Prima Estate. Ti fa stare bene. Appunto: dà questa idea di vacanza, che è anche una vacanza dal dover essere sempre aggiornatissimo, espertissimo, avantissimo (un po’ il destino frequente e forzato di chi in Italia vuole approcciarsi alla musica senza seguire bovinamente le masse).
Vabbé, direte: ma a noi che ce ne importa, di tutto questo? I concerti sono stati belli o no? Il festival è stato bello o no? Calma, calma. Questa contestualizzazione è necessaria. Il punto è che La Prima Estate è tarato su un pubblico di cinque, seimila persone, e chiama ospiti che radunano – in Italia – effettivamente quella quantità di gente, ma ne dovrebbero radunare almeno il doppio, se guardiamo a quanto costa oggi farli suonare; e quando allora per aggiustare un po’ i conti vuoi creare la serata a-colpo-sicuro, in questo caso quella di sabato 25 giugno con Jamiroquai headliner e Nu Genea subito sotto, perché sai che così almeno puoi rimettere in equilibrio i conti di tutta l’operazione e di tutte le sei giornate, è vero che raduni 18 mila persone, sì, ma le cose vanno a finire male.
Senza girarci attorno: nella serata del trionfo di pubblico, prendersi da bere o da mangiare poteva costarti fino a due ore di sfiancanti file prima per ritirare i famigerati token, poi per andare a rifocillarti nei troppo pochi punti di ristoro. Due ore. Due. No: così non va bene. Bisogna ringraziare la qualità del pubblico – educatissimo, signorile – se non si è arrivati a situazioni preoccupanti, dato che tutti sono sempre rimasti ordinatamente e pazientemente in fila manco stessero andando a visitare il British Museum. Bastava che qualcuno (lecitamente!) perdesse la pazienza per scatenare un effetto-domino di disordine ed anarchia che poteva diventare davvero difficile da gestire. A rendere il tutto ancora più fastidioso, il fatto che lo spazio fisico per aggiungere altri punti-ristoro ci sarebbe stato; ma evidentemente non si poteva o non si voleva fare un’aggiunta extra per una singola serata su sei.
Altro errore: aver costruito una imponente struttura proprio sopra la sede abituale dei banchi mixer, struttura che copriva pesantemente la visuale a chi stava dietro. La struttura era imponente perché in cima aveva una terrazza deputata ad ospitare vip e sponsor (che alle fin non c’erano, e i vip che abbiamo visto in giro erano tranquillamente a zonzo per il prato, tipo il premio Oscar Alfonso Cuarón che vedeva l’esordio della propria figlia Bu appena maggiorenne su un palco). Bisognava costruirla di lato. Non dava minimamente fastidio quando si era regime sui cinque, 6000 presenti (stavano tutti tranquillamente davanti o a lato rispetto alla suddetta struttura), ma nel momento in cui i presenti sono diventati il triplo sì, è stato un problema, che si sommava alle code inaccettabili. E in questi casi, la «vacanza» diventa quella classica vacanza in cui pensavi di stare a tuo agio in un quattro stelle gestito bene vista mare, e ti sei invece trovato in un due stelle così scomodo e così raffazzonato che ecco, del mare non te ne frega più un cazzo. Più che un festival, un’imprecazione.
Ora. Non vorremo che una serata andata male a livello organizzativo e con troppi problemi logistici sottovalutati “ammazzasse” tutto il resto di buono, e ce n’è tanto, che c’è ne La Prima Estate. Accidenti, se avremmo bisogno di festival così, di questa “terza via” colta ed educata, di eventi musicali da vivere in relax sia come modalità di fruizione – palco unico quindi niente corse, ti puoi sdraiare sull’erba, sotto l’ombra degli alberi, e senti il profumo del mare vicino – che come approccio intellettuale. Tutto questo sperando che nel frattempo il mercato si aggiusti, e gli artisti di qualità e i loro management non chiedano più prezzi da strozzini con la scusa che l’industria dei festival musicali tira.
La Prima Estate è un format che ci piace parecchio. Ed è anche un format che fa suonare bene gli artisti, sia l’edizione dell’anno scorso che questa l’hanno detto chiaramente: perché il palco è una struttura di altissima qualità e imponenti dimensioni, l’impianto è ottimo (quando non ha suonato bene è perché i fonici di alcune band non l’hanno saputo interpretare: ma è successo solo un paio di volte). Per i gruppi non-headliner diventa emozionante ed anche una bella prova artistica poter suonare su una struttura del genere, è così che ci si fanno le ossa: vedere talenti come Ele A o Studio Murena non “perdersi” dentro un palco gigantesco ma confermare la nitidezza della loro visione e la loro qualità è un segnale importante, è un po’ come quando butti un ragazzo della Primavera a giocare un quarto di Champions, giusto per fare un paragone calcistico: meno male che ogni tanto succede. Ma pure i big comunicavano chiaramente col linguaggio del corpo e la sciolta intensità delle esibizioni che sì, erano a loro agio, eccome. Erano a loro agio e, occhio, catturavano l’attenzione e l’amore dei presenti senza fare affidamento a quei mega-schermi, mega effetti speciali, mega produzioni che oggi invece paiono necessarie, e invece no, proprio non lo sono. I visuals dei Jamiroquai facevano schifo (avanzi di magazzino di una serata drum’n’bass in un centro sociale di provincia del 1998), ma la band suonava talmente bene che non se n’è accorto nessuno, ma proprio nessuno. E pure l’apparato visuale degli Alt-J era irrilevante ed un po’ scolastico, purtuttavia hanno tirato fuori un live assolutamente adeguato e convincente. Non si vive di sole luci e scenografie, ma (anche) di gente che sa suonare.
Insomma: a La Prima Estate, di regola, si sta bene. Parecchio. Ed è un festival che per mille motivi può fare del bene a tutta la scena e all’industria della musica live italiana, come abbiamo cercato di spiegare. Qualcosa insomma per cui fare il tifo. E a cui stavolta perdonare una giornata, per ora una sola, di gravi ed incomprensibili errori di sottovalutazione logistica. Non deve accadere di nuovo, ovviamente. Ma una via di mezzo tra i grandi eventoni massificati e le adunate sofisticate dei saputi, serve. La Prima Estate lo è.