Altrove l’estate è la stagione dei filmoni – e, col tempo sempre di più, anche delle serione – e invece da noi tutti vogliono andare al mare a mangiare gli spaghetti con le arselle: già questo spiegherebbe tutto. Ora poi l’estate da 40 gradi percepiti comincia ad aprile, gli spaghetti con le arselle diventeranno il piatto tipico dei rifugi valdostani.
Vogliamo tutti scappare ma siamo costretti in città, e – a parte dire di sì a tutti gli inviti gli aperitivi i concerti pur di uscire e non stare su quel benedetto divano con quella benedetta aria condizionata sulla testa a vedere quelle benedette serie – ogni tanto tocca fare l’aggiornamento, soprattutto a chi come me fa questo disgraziatissimo mestiere.
Mestiere che però ormai resta chiuso in sé stesso: guardiamo cento film, cento serie, ci facciamo le pippe sui titoli dei festival, prevediamo goduriosi quello che vedremo alla prossima Mostra di Venezia, e al massimo ne parliamo fra i soliti quattro; anzi, ormai siamo diventati tre.
Io, d’estate, non voglio far parte nemmeno di quei tre. Di quella FOMO presso noi stessi che dobbiamo sempre vedere tutto nel momento stesso in cui esce. L’altro giorno, su quel benedetto divano con quella benedetta aria condizionata sulla testa, invece di attaccare la nuova stagione della pur bellissima The Bear ho messo su MUBI un Assayas di una quindicina d’anni fa che m’ero perso. Che bellezza, che liberazione.
Che poi, appunto, il dibattito non lo fa più nessuno. Non conosco un amico del mondo vero che sia realmente appassionato a, che so, la tossicità di The Idol (da noi su Sky e in streaming su NOW). Sono cose che ormai ci scriviamo e diciamo tra di noi sui giornali o quel che ne resta, pronti per il prossimo titolo, il prossimo presunto caso. Next!, e di quello precedente già non frega più niente a nessuno, neanche a quelli che sembravano morire se non vedevano il tal episodio della tal serie in contemporanea cronometrata con gli Stati Uniti.
(The Idol che, parentesi, è l’unica cosa diciamo attuale che ho guardicchiato. The Idol che non ho manco trovato così brutta come tutti – vabbè, tutti: quei soliti tre su quei soliti giornali – vanno borbottando. Conferma del fatto che il dibattito non serve – non esiste – più, che l’importante è guardare per guardare, e se la Twitter-vulgata ha deciso che la tal cosa è una ciofeca allora lo sarà, punto. Boh, a me tutta quella Los Angeles così losangelina diverte sempre, quella simil-Britney stupidissima che però vuole dire la sua la trovo deliziosa, The Weeknd non sarà Marlon Brando ma le spalle – Hank Azaria, Jane Adams, Rachel Sennott, pure Troye Sivan e Moses Sumney – sono eccezionali. E poi è una storia che è una storia, e basta, da vedere su quel benedetto divano con quella benedetta aria condizionata sulla testa e con l’attenzione che si può rivolgere a qualsiasi cosa esca d’estate, cioè pari a zero. Fine della parentesi. Anzi, no: aggiungo che ho sempre cordialmente detestato Sam Levinson, che non mi sono mai strappato i capelli per Euphoria, e che bisogna andarci piano sull’urlare “genio!” a qualcuno. Noi vecchietti che non ci sorprendiamo/indigniamo più di fronte a niente e proviamo a guardare le cose per quello – tanto, poco – che sono senza il condizionamento delle Insta-shitstorm; ecco, penso che noi vecchietti forse viviamo un po’ meglio della Gen Z sempre in guerra. Fine della parentesi, adesso per davvero.)
Dicevo, mentre pensavo ossessivamente alle arselle, che non me ne frega più niente di niente. Che promuoverei una legge per far cessare la programmazione di tutte le serie, di tutto e basta, almeno d’estate. Che lo sciopero gli sceneggiatori americani lo stanno facendo perché anche loro sono stufi di scrivere cose che poi animeranno solo una “Opinion” di Variety, se va bene – o se va male: che comunque è un bene, almeno se ne parla, in un momento in cui nessuno vuole più parlare di niente.
Vedrò in sala il nuovo Mission: Impossible perché mi diverto sempre moltissimo, e Barbie che mi sembra l’unica cosa in grado di creare se non un dibattito almeno un po’ di hype (scusate). Al massimo, vado là dove so già quello che troverò. Ho amato l’ultimo Muccino perché amo Muccino, mi mancheranno Mrs. Maisel e quegli stronzi di Succession (ma dove li troveremo altri fighi così), l’altra sera su quel benedetto divano con quella benedetta aria condizionata sulla testa ho cominciato Sex and the City (ora si chiama And Just Like That…, sempre Sky/NOW) solo perché in fondo è rassicurante, è come scrivere a una vecchia amica “cosa fai quest’estate?” e sapere già che, come sempre, andrà sulla solita isola greca con la solita cumpa solo un po’ più acciaccata. (Altra parentesi, stavolta più rapida: manco ’sto nuovo Sex and the City è così orrendo come vanno scrivendo/dicendo tutti – i soliti tre. Ma stavolta non proseguirò oltre.)
Voi direte: ma non è vero che non guardi niente, vedi un sacco di roba. E certo, se no dovrei cambiare mestiere, e ne ho vista/ne vedo molta di più di quella citata, solo che, per quella cosa dell’Io vero e dell’Io scrivente, mento un po’. Però una cosa è vera per davvero. La cosa più bella di tutte. La serie delle serie. Il capolavoro dei capolavori. Ecco, io la sesta (quinta? settima? ho perso il conto) stagione di Selling Sunset, su Netflix dal 19 maggio scorso, che detto di questi tempi è come dire da tre secoli; ecco, io la sesta stagione di Selling Sunset non l’ho ancora vista. E questo è il segno inequivocabile che è finito tutto, che non me ne frega più nulla sul serio, che devo andare subito a procurarmi degli spaghetti con le arselle – o almeno invitatemi a mangiarli in un triste dehors milanese in mezzo alle macchine, prima di andare tutti finalmente al mare a non guardare più niente di niente, splash.