Come molti dei dongiovanni americani, Roy Harold Fitzgerald (nato Scherer Jr.) ha mosso i suoi primi passi a Hollywood dopo la Seconda guerra mondiale, cogliendo al volo l’occasione di badare al fratello di un amico per poi ritrovarsi in balìa della sterminata e insidiosa Los Angeles. L’ex meccanico della Marina aveva i tratti perfetti da divo delle matinée, la genuinità di chi è venuto su a granturco e un fisico da fustacchione; chiunque avesse dato anche solo uno sguardo a Fitzgerald, avrebbe pensato: “Questo qui deve fare cinema”. A quel ragazzo, però, era stato detto che recitare era “roba da femminucce”, quando era un bambino del Midwest destinato a diventare un poliziotto o un pompiere… insomma, lavori decisamente “maschi”. Ma di punto in bianco si ritrovò fra gli ingranaggi della Fabbrica dei Sogni, e il talent scout Henry Wilson intuì che sarebbe potuto diventare una grande star.
Il fatto che Fitzgerald fosse gay non era un problema – era Hollywood, dopotutto –, a patto che lui lo tenesse segreto. C’era un protocollo da rispettare, dagli appuntamenti con le starlette organizzati ad hoc alle storie che uscivano sui rotocalchi da far subito sparire dalla circolazione. Il vero problema, pensava Wilson, era quel maledetto nome. Perciò lo ribattezzò Rock Hudson. Chi aveva bisogno di diventare un poliziotto, quando aveva un nome “macho” come quello?
Due cose vengono subito in mente, quando pensiamo a Hudson oggi: che è stato l’epitome dell’era dei grandi Studios americani di metà ’900, passando dai western di seconda fila ai ruoli da grande protagonista in progetti di Serie A; e che è morto di AIDS nel 1985, cosa che fece assai discutere il pubblico dell’epoca. Il documentario Rock Hudson: All That Heaven Allowed, appena arrivato negli Stati Uniti su HBO, è meno interessato alla sua carriera e più concentrato sulla sua vita privata e quel “segreto di Pulcinella”. È affascinato dall’uomo che vediamo sullo schermo, ma molto più intrigato dal vero Hudson. In particolare, dalla persona che aveva cercato in tutti i modi di mantenere quel teatrino, continuando però a vivere una vita tutto sommato alla luce del sole. Una contraddizione vivente.
Sul fronte carriera, Hudson viene definite nel documentario “il Tom Cruise della sua epoca”: all’inizio, tutti infatti lo volevano solo per il suo sorriso. Nel 1942 fu ingaggiato in una modesta commedia dal titolo Has Anybody Seen My Gal? (in italiano tradotto con Il capitalista, 1952, ndt), che gli fece conoscere il grande regista Douglas Sirk. L’immigrato tedesco richiamò Hudson in una serie di splendidi melodrammi a partire da Magnifica ossessione (1954), che lo introdusse alla Serie A del cinema. Finì anche in una serie di commedie che, riviste oggi, sembrano piene di messaggi in codice sulla sua vita “in the closet”: provate a riguardare il celebre Il letto racconta… e capirete cosa voglio dire.
Se avete visto Rock Hudson’s Home Movies, il documentario sperimentale di culto diretto nel 1991 da Mark Rappaport che mette insieme tutte quelle scene e quelle frasi allusive, sapete di cosa sto parlando. Quello che però mancava in quel film e che invece è centrale in All That Heaven Allowed sono i filmini di famiglia dello stesso Hudson, a cui il regista Stephen Kijak ha avuto pieno accesso. Grazie alle testimonianze dirette di tanti amici dell’attore, dei suoi amanti, dei fidanzatini e dei flirt di una notte, questo ritratto postumo è insieme una sorta di “correzione” storica e anche un’esperienza a suo modo triste, per come descrive la vita degli omosessuali del tempo. Svelare quello che è successo dietro il sipario permette di farci scoprire l’altra metà dell’esistenza di quell’idolo dello schermo.
Hudson era, secondo le testimonianze raccolte, un “gladiatore del sesso” che dava continuamente feste al “Castello”, la sua villa di L.A. diventata uno spazio sicuro per la comunità gay che lavorava nell’industria del cinema. La maggior parte della vicenda pubblica di Hudson in quanto omosessuale ruota attorno alla sua morte, che occupa il terzo atto del film, quello in cui Hudson viene definito “un attivista riluttante”. Ma il tuffo nella vita passata di Hudson ci permette di scoprire che l’attore era sempre stato un omosessuale piuttosto libero e disinvolto. E qui viene la parte che vuole “correggere” l’immagine di Hudson che conosciamo.
Vediamo scorrere sullo schermo le sue relazioni sentimentali, le vacanze fra soli maschi, le amicizie in cui si condivideva “la comune desolazione di questa vita da nascondere”. Lo scrittore Armistead Maupin, che ebbe un flirt con Hudson proprio quando il suo Tales of the City (da noi uscito come I racconti di San Francisco, ndt) stava diventando un caso letterario, dice di aver provato a convincere la star di McMillan e signora a fare coming out: secondo lui, più che una morte professionale sarebbe stata una liberazione personale. Sulla prima parte di questa affermazione potremmo discutere, ma sulla seconda certamente no.
Hudson sentiva il bisogno di essere visto come il simbolo e la sintesi dell’eterosessualità, e per questo è diventato il mentore di altri attori gay costretti a nascondersi. Ma anche se era costretto a condurre un’esistenza doppia, era tutto sommato felice di quella metà di vita che doveva tenere lontana dai riflettori. Anche se in questo film non ci sono rivelazioni sensazionali, c’è tantissimo materiale che farà felici gli appassionati di gossip. Per fare un esempio: i talenti prodigiosi – in tutti i sensi… – di Hudson sono confermati da vari aneddoti a riguardo. E ancora: il divo che consentì a Il gigante di diventare una pietra miliare del cinema americano e che recitò in tutte quelle famosissime commedie romantiche accanto a Doris Day è anche quello che pagava gli uomini per andare a letto con lui.
È meglio guardare a All That Heaven Allowed non tanto come a un documentario su Rock Hudson, ma come a una cronaca sul sistema di sotterfugi a cui Hollywood costringeva chi preferiva la compagnia del proprio sesso. Hudson fu obbligato ad apparire in pubblico con molte colleghe, e addirittura costretto a sposare Phyllis Gates. Una semplice foto che lo ritraeva in un bar in compagnia di un uomo veniva immediatamente fatta sparire dal suo manager. Rotocalchi come Confidential si chiedevano se attori come Hudson facevano cose che il pubblico avrebbe disapprovato; e Wilson allora diede in pasto agli sciacalli da tabloid un altro cliente, Tab Hunter, per allontanarli dalla “pista” che li portava a Hudson.
Come moltissimi altri colleghi, Hudson ha dovuto pagare un prezzo carissimo, per continuare a giocare la sua partita. Hollywood lo permetteva. E, con esso, tutta l’America.