Gérard Depardieu è uno di quei pezzi rari che non stonerebbe in un museo delle curiosità. «Camionista molto attraente» secondo la definizione di Marguerite Duras, attore tra i migliori della sua generazione (condivide la decade di nascita con Robert De Niro, Al Pacino, Diane Keaton, Catherine Deneuve e Meryl Streep, per dire), più francese tra i francesi, cittadino di Russia. Mascella ben squadrata, occhi che passano dall’ira alla dolcezza in un battito di ciglia. Ruoli che, se fosse nato in America, l’avrebbero fatto diventare un Marlon Brando dalla canottiera bianca a costine, però con un pizzico di fragilità umana in più.
No, non è mai stato facile dire chi fosse davvero Gégé e catturarne l’essenza dietro Depardieu. L’ex-moglie Élisabeth Guignot dice di lui che «ha un bisogno spropositato di amore». E, come letteratura insegna, dietro l’amore mancato si nasconde sempre una certa fame di vita, atavica, senza fondo. In parte è lingua bella, metaforica. In parte, quando si parla di Depardieu, la frase è da intendersi nel suo valore immediato, denotativo. Perché se l’uomo ci rimane insondabile, di una cosa possiamo essere certi: nessuno, nello show biz attoriale, ama il cibo tanto quanto lui. Nessuno ha mai indossato i panni del gourmand cosmopolita quanto questo figlio di genitori umilissimi, analfabeti, scappato di casa a tredici anni per vivere con due prostitute, vendendosi lui stesso e rubacchiando in giro – leggasi: persino nei cimiteri – per scampare la fame della giornata (lo racconta l’attore nella sua autobiografia Ça c’est fait comme ça, al momento non disponibile in italiano). In altre parole, tornando a ciò che dice Guignot: se il cibo non è vettore d’amore – e se avere fame d’amore non vuol dire avere, letteralmente, fame – allora non sappiamo più che cosa vuol dire soddisfarsi con un buon bicchiere di vino.
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Gégé, al contrario, lo sa perfettamente, e non è un caso che, nelle rare interviste a cui si è concesso dal 2010 in avanti, il set sia spesso stato un luogo legato al cibo. Come La Fontaine Gaillon, per esempio, istituzione della ristorazione parigina, per alcuni anni di proprietà di Depardieu. O come un campo di crescione nella campagna francese per le riprese di un food show dove l’attore aveva deciso di partecipare in qualità di host – con annesse tirate polemiche contro Jamie Oliver, a quanto pare. Occasioni in cui Gérard, ottimo Mr. Hyde per un superbo Jekyll, non vede l’ora di scansare Depardieu e piantarla, una buona volta, di parlare sempre e solo di cinema, sempre e solo della sua carriera di attore – che conta, a oggi, più di 200 film, quasi sempre nel ruolo del protagonista. Un po’ per le fortune alterne delle ultime produzioni in cui è comparso, e che lo hanno visto gettonista del cinema più che interprete appassionato. Un po’ perché il cibo è un argomento infinitamente più interessante. Quando si parla di Depardieu non si può che parlare di cibo, e il cibo stesso parla della stoffa di cui è ed è stata la sua vita.
Succede quando condivide con il Guardian una ricetta gitana, del tutto particolare, per cucinare a puntino i ricci che, da bambino, il padre metteva sui fornelli quando non c’erano soldi per comprare la carne dal macellaio. Funziona così (astenersi puri di cuore): «Gli infilava una pompa ad aria nel didietro e lo gonfiava per rimuovere gli aculei. Poi lo eviscerava, lo puliva, lo ricopriva di terra umida e lo gettava sul fuoco. Dopo circa un’ora lo tirava via, rimuoveva la terra secca, et voilà, il riccio era cotto». Depardieu giura fosse delizioso, una delicatesse primitiva. Più gustosa forse dei polmoni di maiale, “le mou”, quinto quarto che fece numerose apparizioni sulla tavola della famiglia. Non stentiamo a crederci.
Ma la lista dei cibi da onnivoro radicale dell’attore continua, e include, grazie anche a numerosi viaggi per il mondo, cervello di scimmia, zuppa di pene di tigre e, quando in Cina, «una certa polpetta che a guardarla sembrava merda». Capitolo a parte sarebbe invece da aprire per la carne di leone, che Depardieu sembra aver avuto l’occasione di degustare dopo una scampagnata in Burkina Faso finita male. «Ci siamo trovati due leoni sulla strada. Stavano fermi davanti a noi, senza muoversi di un millimetro. Passavano le ore ed erano ancora lì, non potevamo uscire dalla macchina, e il ragazzo che guidava era molto spaventato. Quindi non abbiamo avuto scelta: abbiamo sparato».
Un palmares gastronomico notevole, anche per uno che ammette di aver accarezzato, per un certo tempo, l’idea di farsi macellaio. Scrive il Guardian: «[Depardieu] È sempre stato affascinato dall’odore e dalla vista dei mattatoi. Ha un ricordo preciso della prima volta in cui ne ha visitato uno: si trattava di quello di Châteauroux [il suo paese natale], e vi era andato a chiedere un po’ sangue da mischiare con l’avena». Poi, la recitazione, che lo intercetta e lo salva da uno sliding door che, dall’altra parte, l’avrebbe trasformato in un criminale fatto e finito.
Depardieu non ha nemmeno vent’anni e, anche se si butta nella lettura e si porta a casa un’educazione fatta in casa, selvaggina rimane, ha il selvatico addosso. E infatti sono ruoli “selvaggi” quelli che il grande schermo gli riserva, tra i piaceri animali e fallocentrici de Les Valseuses (Bertrand Blier, 1974), le astuzie di Cyrano De Bergerac (Jean-Paul Rappeneau, 1990), e poi Novecento (Bernardo Bertolucci, 1976), L’ultimo metrò (François Truffaut, 1980) e Jean de Florette (Claude Berri, 1986). Il cibo, così, non è più sopravvivenza spiccia. E prende una ramificazione diversa, fatta di studio, curiosità, e amore insaziabile per un piatto semplice cucinato come si deve. Uno di quelli che va per mercati e fa il ficcanaso, Depardieu. Che vuole sapere come le cose sono fatte per replicarle come piace a lui. E che si gode, gastronomicamente, ogni centesimo della celebrità che gli è stata donata.
Non è raro, per esempio (ne scrive il New York Times), che si metta in testa di preparare il pranzo per tutti, e che, come un trickster estrae un coniglio dal cilindro, lui tiri fuori dal forno un agnello intero, arrostito alla perfezione, e faccia accomodare alla tavola i più intimi della sua cerchia. Non è un caso che il “suo” La Fontaine Gaillon tenesse in carta i grandi classici di quella cucina nazionale un po’ agée, ma che sa di casa e focolare: pesce San Pietro arrostito con olio d’oliva, coq au vin, blanquette de veau, pot-au-feu, per esempio.
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Non stupisce che sia goloso impenitente di prodotti eccellenti in purezza. Indovinate quale, facciamo un nome? Proprio lui, re tra i re di formaggi, Parmigiano Reggiano delle vacche rosse. E c’è una manifestazione di poesia nello scorrere le prime pagine del libro di ricette che Depardieu ha scritto con l’amico e chef Laurent Audiot, La mia cucina: «Provo un immenso piacere nel toccare le cose a mani nude. Preferisco mangiare usando le dita come posate, lasciando da parte coltello e forchetta. Così sento subito quanto è tenero un taglio di carne, o quanto è fresca una certa verdura. Certe cose prendono un sapore diverso quando le tocco». Oppure: «Il mio occhio si sofferma con uguale piacere sulla faccia di una bellissima donna e sui tagli di carne in mostra nella vetrina di un macellaio».
Nel quadro non poteva mancare, naturalmente, il succo di Bacco. Negli anni, Depardieu ha acquistato vigneti in giro per il mondo, Italia, Francia, Spagna, Cile per dirne alcuni, affidandosi al magnate del Bordeaux Bernard Magrez per gestire le operazioni necessarie a portare il grappolo in tavola, dentro una bottiglia. I risultati sono eclettici nei nomi, quasi mistici: Confiance, Spiritus Sancti, Ma Vérité, Lumière, Sine Nomine, Espérance, La Contemplation. Scelta oscura, per chi professa amore per la lentezza e la genuinità dei prodotti della terra, affidarsi proprio a Magrez, noto per essere un volpone del marketing più che il Carlo Petrini di Francia. Ma anche qui alziamo le mani: come abbiamo detto, è difficile inchiodare Depardieu al muro come una bella, rara farfalla.
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Gérard quindi re di denari, baciato dalla fortuna e da un talento più grande della vita, sbozzato da un’infanzia condotta nella sopravvivenza. Mai educato all’amore, e che farebbe di tutto per (ri)conoscerlo, e spanderlo a sua volta, con quel suo lessico personale che parla di abbondanza, e cibo, e sapore. Re di coppe altre volte, con un motto di vita chiaro: per vivere basta poco, però il bicchiere dev’essere sempre pieno. Una mega-pinta, forse, come ci ha insegnato in tempi recenti Johnny Depp. Mai sufficiente a saziare la sete di un Tantalo contemporaneo, per cui nulla, a tavola ma anche nella vita, è abbastanza. È una china pericolosa. Una che può portare alla caduta anche di un dio gallico manifestatosi in mezzo ai mortali.
Per Gégé, la vita, enogastronomica e oltre, comincia a prendere una piega obliqua nei primi Duemila. Con un appetito diventato vizio, la vita spericolata di Depardieu si trasforma in grosse ubriacature alla guida, incidenti multipli in moto, cinque bypass coronarici impiantati in una notte per problemi cardiocircolatori, tre pacchetti di sigarette al giorno e un record personale di «dodici, tredici, quattordici bottiglie di vino al giorno» (nelle giornate di routine, la media varia tra tre e sei, a seconda dello stress e dell’umore). Ma «non è vero che bevo sempre. Non è vero, nonostante la mia reputazione. La vita è il motivo per cui sono vivo, e vivere mi rende ubriaco».
Le imprese pantagrueliche non mancano neanche al di fuori dei confini della tavola. Per esempio, quella volta che decise di scaricarsi la vescica in una bottiglia di acqua vuota a bordo di un aereo di linea che stava ritardando la partenza. O come dimenticare la controversa fuga dalla Francia che lo portò a spostarsi prima in Belgio, poi nella Russia di Putin, accolto a braccia aperte dallo Zar, per evitare di pagare le tasse al 75% imposte dal Governo francese ai cittadini ad alto reddito? Scrisse bene Agnès Poirier sul Guardian, commentando le ultime dal pianeta Depardieu: «atti scriteriati al confine con il sublime».
Eppure, il (metaforico) conto da pagare viene presentato anche ai semi-dèi. Per Depardieu potrebbe essere già stato, in parte, recapitato da una serie di accuse di abuso e violenza che, negli ultimi anni, diverse donne hanno presentato contro l’attore. La prima fu Charlotte Arnould, in un caso giudiziario aperto, chiuso, poi riaperto. Le ultime giungono invece da un’investigazione indipendente che, questo aprile, ha raccolto le testimonianze di tredici donne che hanno dichiarato di essere state vittime di smanacciamenti e commenti inappropriati da parte di Depardieu nel periodo di tempo tra il 2004 e il 2022. L’altra parte del totale da pagare, invece, proviene direttamente da Depardieu stesso, ed è il corpo immenso che si porta dietro. Che, negli anni, ha ridefinito anche la sua persona sullo schermo, portandolo verso ruoli in cui vita e arte si mescolano e l’uomo sembra mettersi a nudo davanti allo spettatore, in quel mix di farsa e verità che solo i giganti come Depardieu sanno sostenere.
Lo si vede bene ne Il sapore della felicità, il nuovo film di Slony Sow, da oggi nelle sale italiane. Nel lungometraggio, il cui titolo originale è Umami, Depardieu è Gabriel Carvin, più famoso chef di Francia e tra i maggiori al mondo. Carvin ha perso l’ispirazione, e la frustrazione che si porta dentro lo conduce a una vita di eccessi, alimentari in primis, che presto mettono a repentaglio la sua sopravvivenza. Un modo per tirarsi fuori dall’impasse, però, c’è. Si trova dall’altra parte del mondo, in Giappone. È lì che Carvin viaggerà per ritrovare “il sapore della felicità”: l’umami, appunto. Ma, per farlo, dovrà rintracciare una sua vecchia conoscenza. Uno chef giapponese che, anni prima, l’ha battuto in un concorso di alta cucina preparando, semplicemente, una ciotola di ramen.
Il film di Sow è gradevole, strappa risate genuine e rompe con astuzia la quarta parete per creare squarci e connessioni tra Depardieu-Carvin e il Gérard nel fuori-schermo. Per esempio quando, in Giappone, il misterioso amico invita Carvin in una gita fuori città per conoscere ciò che rende il suo ramen così buono – una certa razza di suini. Appena sente la parola magica, “maiali”, Carvin schizza in un allungo fenomenale e stacca il ben più in forma amico lungo la strada per la meta. Oppure quando il personaggio-chef sembra parlare per bocca del Depardieu che abbiamo conosciuto finora, descrivendo le gioie di un piatto di ottimo cibo cucinato per qualcuno che si ama.
Il sapore della felicità ha il vantaggio di essere un film, e, volenti o nolenti, una conclusione alla vicenda si troverà. Per Gégé, invece, la questione potrebbe essere molto più laboriosa. Santo, peccatore, titano, umanissimo: il giudizio è del lettore. Su una cosa, però, si può esser certi: non c’è Depardieu senza cibo. O forse, ché è più corretto: non c’è cibo senza Gérard.