Pinochet non è morto, ma è un vampiro di 250 anni che vive nascosto in una tenuta in rovina nella gelida estremità meridionale del Sud America e di notte vola a Santiago per placare la sua sete di sangue. Pare lo spunto di un B-movie à la Abraham Lincoln: Vampire Hunter e invece è El Conde (dal 15 settembre su Netflix), il nuovo, pazzissimo e sontuoso film di uno dei pochi, veri Autori di oggi: Pablo Larraín. Che, oltre ad essere forse il miglior regista “di donne” vivente (vedi Spencer e, ancora di più, Jackie; in attesa della sua Callas starring Angelina Jolie) e dopo aver diretto una trilogia che attorno a quel feroce e barbaro regime cileno gravitava (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell’arcobaleno), adesso punta direttamente alla giugulare (pardon) del generalissimo. «Pinochet è morto libero, impunito e milionario. E quell’impunità lo ha reso eterno», dice Larraín. È questo il cuore del film – e di cuori ne vedrete parecchi, credetemi, pure frullati come frappé.
Un nuovo biopic (?), questo ancora più sui generis (e di genere), che è nato da una foto di Pinochet con il mantello: «Ho passato anni a immaginarlo come un vampiro, un essere che non smette mai di circolare nella Storia, nella nostra fantasia, nei nostri incubi», ricorda il regista. «E poi, durante la pandemia, ero al telefono con Guillermo Calderón (già co-sceneggiatore diNeruda, nda), abbiamo avuto parecchio tempo a disposizione per parlare e parlare, come la maggior parte delle persone in quel periodo. Poi ho chiamato Jaime Vadell, il protagonista, e Netflix ha mostrato interesse nel produrlo. Ma è stato un percorso lungo, probabilmente un percorso lungo una vita per me».
“Nunca más” tuonava l’anno scorso proprio dal Lido Santiago Mitre con Argentina, 1985, sui procuratori che perseguirono i responsabili della fase più terribile di quella dittatura militare. «Anche in Uruguay sono riusciti a metterli in prigione in tempo. E questo crea un senso di giustizia, l’idea che qualcosa di simile non debba ripetersi. Quel “mai più” per noi cileni però non esiste. E questo ha tenuto Pinochet in vita, con gente che sostiene la sua eredità e ciò che ha fatto. Ecco perché siamo ancora a pezzi».
Pezzi che, per la prima volta in modo così diretto, il Cinema (e cos’altro, sennò) prova a rimettere insieme. «Pinochet non è mai stato filmato prima, nessuno gli ha mai messo una telecamera davanti. E qui si apre un’altra questione annosa sulla quale ognuno nel mio Paese ha un’opinione diversa: è troppo presto? O troppo tardi? Io volevo farlo, e c’era soltanto un modo: usare gli strumenti della satira – lo aveva già capito Stanley Kubrick con Il dottor Stranamore, girato soltanto vent’anni dopo la Seconda guerra mondiale – per evitare di creare empatia. Che sarebbe stata una cosa pericolosissima».
Il rischio è che la Storia – questa storia – si ripeta? Secondo Marx, si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Ecco, Larraín ci ha scritto il film di cui non sapevamo di aver bisogno: tragico e grottesco insieme, cupo ma anche divertente, splatter e lirico. E, manco a dirlo, così überallegorico da fare il giro ed essere drittissimo: «Credo e spero che possa risuonare nella nostra contemporaneità. Quello che è accaduto in Cile ovviamente ha delle peculiarità, ma vedo quest’aria tirare in molte parti del mondo». Un’urgenza di catarsi nazionale che trova una corrispondenza inquietante in una bad vibe globale: «Il male non è soltanto un tizio tedesco che urla con una svastica sul braccio, il fascismo può avere molte forme, spesso anche nascoste e difficili da leggere: inizia con la seduzione, poi passa alla paura e finisce con la violenza. È qualcosa a cui stiamo assistendo in molti Paesi con l’ascesa della destra, e di cui dobbiamo essere consapevoli». El Conde vuole lanciare un monito? «È soltanto un film che esprime una visione, ma spero che possa inaugurare una riflessione e che possa davvero diffondere l’importanza della memoria».
Una satira horror e politica nel senso più puro del termine, giocata sul ribaltamento del mito romantico del vampiro «che vive per sempre e vuole trovare l’amore, godendo nella consapevolezza di essere eterno. Qui invece il generale ha una crisi esistenziale, sta cercando di sopravvivere ai propri ricordi, ai secoli che ha sulle spalle». Pinochet infatti ha deciso di morire, anche – e soprattutto – perché non sopporta più quello che si dice di lui: non che sia un assassino, quello gli va pure bene. Ma che sia un ladro, questo no: «Sembra una battuta, ma è una sorta di paradosso morale, è quello che tante persone pensano di lui e del Cile: che sia stato sostenuto finché non hanno scoperto che aveva rubato tutti quei soldi, e poi gli hanno voltato le spalle. Il che è assolutamente folle».
Ci sono i figli disfunzionali di Pinochet che vanno dal padre a battere cassa, Doña Lucía (Gloria Münchmeyer) che l’ha persuaso al golpe contro Allende e ora vuole essere morsa per vivere in eterno (e godere della plata), Alfredo Castro alias un maggiordomo parecchio creepy (d’altra parte, di solito, è stato il maggiordomo, no?), una suora esorcista (Paula Luchsinger) e… Margaret Thatcher (Stella Gonet). Ma non come ve la aspettate e qui – seguendo il vangelo del no spoiler – mi limito alle parole di Larraín: «Ha sostenuto fortemente Pinochet. E ora che sono stati pubblicati gli archivi, se pensiamo a come politici tipo lei, Richard Nixon o Henry Kissinger trattavano questi piccoli stati sudamericani… ordinavano di sganciarci una bomba sopra, di distruggere la nostra economia o semplicemente di assicurarsi che non ci fosse nessun socialista al potere. Con qualunque mezzo necessario».
Ad abbagliare, oltre alla musica – una sorta di mappa nascosta del film, con 13 brani che coprono anch’essi 250 anni, da Vivaldi a Bach, da Benjamin Britten ad Arvo Pärt, da György Liget a Andrew Norman –, è la magnifica fotografia in bianco e nero di Ed Lachman: «Volevo creare immagini evocative, belle, poetiche. Che avessero un potenza visiva tale da raccontare la storia, ma allo stesso tempo fossero universali». E c’è riuscito. «Per rendere il film il più “largo” possibile abbiamo girato quasi tutto con un grandangolo netto, molto vicino, la telecamera sta qui, sulla faccia, a questa distanza (gesticola, nda). È molto intimidatoria, non ti puoi nascondere. È un aspetto fondamentale della fotografia, che si integra con la tradizione di alcuni dei registi a cui facciamo riferimento, da Dreyer a Murnau, da Kubrick a Herzog». Un mood fiabesco ed espressionista insieme, «che dà la giusta distanza dal soggetto, ma allo stesso tempo ti permette di vedere la cosa più brutale: il sorriso».