L’organismo vivente più grande della Terra è un fungo di genere Armillaria (i chiodini, per intenderci) cresciuto in Oregon, negli Stati Uniti. Il suo micelio (il fungo vero e proprio, quello che noi raccogliamo e mangiamo, è solo il suo corpo fruttifero), un intreccio di filamenti sotterranei, si espande per 890 ettari (quasi dieci chilometri quadrati). Si stima che la sua età sia di circa 2800 anni ed è stato scoperto solo nel 1998. In quell’anno Björk era in tour con il suo album Homogenic e con il visionario regista Chris Cunningham stava preparando uno dei video più significativi di quel decennio, All Is Full of Love, in cui due cyborg vengono assemblati mentre si scambiano effusioni.
Due mondi, quello dei funghi e quello della robotica, che sulla carta hanno poco da dirsi, ma che nel genio creativo di Björk – tecnoentusiasta e ambientalista – riescono a convivere in maniera creativa. Basti pensare a Fossora, l’album techno-fungino dell’artista, o a Cornucopia, lo show che l’artista islandese sta portando in giro per il mondo e che ieri è atterrato al Forum di Assago, a Milano.
Cornucopia, basandosi su una pièce teatrale naturalista del 2017 della stessa artista, non si focalizza sulle ultime uscite di Björk: gran parte dello show (11 brani, più del 50% di quelli in scaletta) è costruito su Utopia, il disco del 2017 prodotto da Arca, lasciando a Fossora, l’ultimo lavoro in ordine cronologico, solamente 4 tracce. Il passato (o la nostalgia?) è quasi assente, con soli 5 brani a rappresentare i precedenti 8 dischi. Come è facile immaginare, quindi, niente hit, niente Army of Me o Big Time Sensuality, Human Behaviour or It’s Oh So Quiet; eccezion fatta per Venus As a Boy da Debut. Homogenic, Volta e Biophilia vengono invece lasciati da parte nella loro interezza.
Un concerto pop in chiave sci-fi, come lo ha definito la stessa Björk, che gioca con maestria su vari livelli di profondità visiva. I musicisti (una decina tra cui un suonatore d’arpa e le Viibra, un ensemble di sette flautiste: «i flauti spaccano», dirà Björk in uno dei suoi rari momenti parlati) si muovono tra una serie di piattaforme di un ecosistema a tema fungino pensato dalla scenografa Chiara Stephenson (molto vicino all’estetica di Fossora), mentre le proiezioni video vengono sfruttate con grazia tra un gigantesco back screen, due schermi a colonna laterali e un sipario semitrasparente che si apre e chiude mostrandoci o negandoci quello che accade sul palco. La fruizione così cambia in maniera importante a seconda del posto sedere.
Chi è sulle tribune (e in particolare in quelle centrali) è come se stesse vedendo il concerto in un cinema IMAX: le incredibili creazioni visive digitali firmate dai media artist Tobias Gremmler, Andy Huang, Nick Knight e M/M sono di un’altra categoria. Il tema dei visual è quello di una natura che flirta con la tecnologia, un terzo paesaggio digitale, un’Utopia estatica, e ci immerge negli ideali politici ambientalisti di Björk. Una Björk che – a questa distanza – non è più la protagonista dello show, nonostante continui a riproporsi sotto diverse forme: di persona, prima con un immaginifico costume tondeggiante e nel bis con un bianco outfit ninfeo (ma sempre mascherata), ma anche come proiezione, video-in-real-time, avatar. Björk nel complesso è quasi assente, eppure c’è sempre. Possiamo perderci nelle follie visive e dimenticarcene, ma lei è lì, instacanbile; un po’ come la natura, un po’ come il Capitale. Per i fortunati che invece sono riusciti a godersi il concerto dai posti in parterre, l’esperienza è sicuramente stata diversa. Da lì l’universo idilliaco di ninfe e fauni di Björk e i suoi musicisti (tra flauti, arpe, batterie distorte e percussioni acquatiche) recuperava una certa centralità nella messa in scena, dando una lettura e una visione più umana del concept ambientalista.
Ma si può entrare in contatto con la natura stando seduti su delle seggiole di plastica all’interno di un’arena? Costretti in questa posizione davanti a un apparato video così importante, è la vista a predominare tra i nostri sensi. Immersi in questo documentario Netflix in versione tridimensionale, il corpo viene stordito, dimenticato. Non ci è dato di ballare, non ci è dato di interpretare con il nostro corpo quanto stiamo provando; siamo limitati a guardare, in modo passivo, per un’Utopia che a maggior ragione diventa irrealizzabile nelle nostre vite. Entrare in contatto con il nostro corpo è il modo più efficace per stimolare una riconnessione sensibile con la Natura, essendo il nostro corpo – prima di tutto – Natura stessa. Intrappolati su una sedia di plastica, siamo interdetti come sul divano di casa, addomesticati come un giardino all’inglese, imbambolati di fronte alla spettacolarità di ciò che possono mostrarci la tecnologia e la creatività.
«Dobbiamo immaginare cose che non esistono», esorta Björk in un manifesto che appare sui maxischermi, «immaginare un futuro dove natura e tecnologia collaborino». Posizione ribadita anche da Greta Thunberg, chiamata in causa con un video-intervento di alcuni minuti: «Se le soluzioni sono impossibili da trovare, allora forse dobbiamo cambiare il sistema stesso». È tutto giustissimo e bellissimo in questi messaggi, in questa idea di Utopia (che ben dista dall’Utopia ego-riferita di Travis Scott), però mentre tutto questo accade è difficile distaccarsi dall’idea che siamo diecimila persone dentro un’arena (a dover di cronaca, uno show del genere avrebbe reso di più in un teatro, cosa però resa impossibile dall’imponente struttura richiesta dal live), un’arena in cui tutte le bevute (le bottigliette d’acqua e i bicchieri per birra e cocktail) e le sedute (obbligatorio era anche sedersi) sono di plastica. Se l’Utopia di Björk – almeno sul palco – è un tripudio di possibilità e di evoluzioni per il nostro pianeta, la sua messa a terra resta quantomeno complicata. Probabilmente è vero che ogni utopia, in quanto tale, può essere splendida, ma non può che rimanere irrealizzata avendo in sé il seme del suo stesso fallimento. Immaginare, forse, ora non basta più (come sostiene in un cortocircuito la stessa Greta).
Ma quale dovrebbe essere la giusta forma e dimensione di un concerto naturista (e politico)? Se non c’è alternativa al capitalismo, come si può costruire un tour mondiale senza adagiarsi nelle regole del capitalismo stesso? Come portare un messaggio a migliaia di persone senza cadere nei tranelli del Capitale? Quello di cui pecca Cornucopia, rimanendo a livello estetico e sonoro (ma solo se amate l’espressività della voce di Björk) un lavoro clamoroso, è proprio questa sua ingenua leggerezza nel tradurre un messaggio così necessario e imminente; simbolico che questo sia il primo tour di Björk a non poter essere eseguito in Islanda perché troppo impegnativo a livello logistico (ergo con un impatto ambientale fuori portata per l’isola). Se nemmeno uno show ambientalista riesce ad arrivare nella sua stessa patria e a cambiare non dico il mondo, ma quantomeno il servizio bar di un’arena, quali sono davvero le nostre possibilità? Il rischio è che di questa Utopia rimangano solo delle belle immagini, dei bei suoni. Immaginazione, sì, ma niente più.