Giù la maschera, Corey Taylor! | Rolling Stone Italia
Uno, nessuno e vaffanc**o

Giù la maschera, Corey Taylor!

Intervista al cantante degli Slipknot alla vigilia della pubblicazione del suo secondo album ‘CMF2’: la direzione che vuole prendere come solista, la battaglia epocale col pubblico italiano, fare metal a 50 anni con e senza maschera, l’evoluzione del suo personaggio. «Non vogliamo spaventarvi, ma aiutarvi a sfogare frustrazioni e insicurezze»

Foto: Mike Lewis Photography/Redferns

Il più pirandelliano fra i bad boys del metallo getta la maschera, letteralmente. Intercettiamo Corey Taylor nell’unica tappa italiana del Knotfest, il festival messo in piedi dagli Slipknot di cui Taylor è il cantante. Nella chiacchierata, che si svolge in un backstage blindatissimo, si parla del nuovo album solista CMF2 – in uscita domani – ma anche di un quarto di secolo di follie fra clown ultraviolenti, maiali che danno fuoco ad ogni cosa capiti loro a tiro, maschere diventate iconiche e, più in generale, l’armamentario di tamarraggine e facezie che hanno reso gli Slipknot una della band più amate, chiacchierate e di successo nella storia della musica pesante.

Successo che non è stato digerito immediatamente dalla scena metal, anzi. I nove di Des Moines sbarcarono in Italia per il Gods of Metal del 2000 forti della fresca pubblicazione del loro ormai classico omonimo debutto, prodotto da quello che di fatto è il godfather del genere, Ross Robinson, e preceduti da una campagna di lancio stampa imponente. «Ci sono o ci fanno?» è la domanda che in molti si facevano quell’estate, un quesito che troverà risposta – nel bene, nel male e nel malissimo – proprio nella loro ormai leggendaria esibizione allo stadio Brianteo di Monza, dove erano attesi da una contestazione lanciata settimane prima online, rivolta a loro e ai Methods of Mayhem (ve li ricordate? No, vero?) di Tommy Lee che, in fuga dagli scricchiolanti Mötley Crüe, pensò bene di farsi dare un passaggio dal treno del nu metal. Quel concerto si rivelò come una sorta di gigantesca sliding door per entrambe le band: una sparì poco dopo, l’altra ha collezionato successi francamente impensabili in quella calda estate di inizio millennio

Intervistare Corey non è difficile: ha una personalità debordante, una chiacchiera infinita e soprattutto possiede – notoriamente – un’opinione su qualsiasi cosa, letteralmente qualsiasi cosa, dalla geopolitica fino ai cartoni animati (Spongebob è il suo preferito). Ha abbandonato i social network («mi fanno diventare scemo») e questa è una notizia triste. Ma il sospetto è che la sua assenza online durerà poco, data la sua spasmodica voglia di far conoscere a tutti le sua idee, specialmente quando non richieste.

Che tipo di aspettative hai per questo secondo album solista, sempre che tu ne abbia?
Ovviamente spero che piaccia alle persone, voglio che si rendano conto che la mia carriera solista ha finalmente trovato la sua chiave, ho maturato esperienza dopo il primo disco ed aver passato tanto tempo on the road con la mia band. Sul palco siamo in cinque, a meno che non ci sia anche una tastiera, credo che sia il numero perfetto. Gli Slipknot, beh, ci siamo in qualche modo ritrovati ad essere in tanti per via di quello che facevamo. Il primo disco è stato un punto di partenza, in questo caso vorrei che le persone vedessero qual è la direzione, da dove arrivo e dove sto andando, a differenza dell’esordio che era fondamentalmente una raccolta di canzoni che ho scritto negli anni e che speravo di poter registrare. Questo disco rappresenta davvero il senso del mio percorso, la direzione che ho preso, e voglio che i prossimi siano più elaborati, stratificati, e che mi trasportino in direzioni anche sconosciute ma piene di ispirazione.

Anche questo disco spazia in direzioni diverse, tanto è vero che risulta difficile dargli un’etichetta di genere e questa è una cosa positiva. Di solito.
Vero, quando sono cresciuto i dischi erano fatti così. Anche le grandi band metal sfoggiavano questo tipo di diversità, c’erano pezzi più pesanti, altri meno, tracce midtempo e questo è quello che volevo fare. Non voglio tirare fuori un disco che non sia interessante, voglio che il disco stupisca, non è detto che ti debba piacere, ma voglio sorprendere. Questo è sempre stato il vettore della mia carriera: non dare per scontato niente con me, perché ci saranno sempre cose inattese.

Se questo era lo scopo direi che l’hai centrato. Ascoltando il tuo disco ci sono stati almeno un paio di momenti in cui ho pensato: ma che cazzo è!?
Ahahah.

Ho letto online, che non significa necessariamente che la cosa sia vera, perché sai noi giornalisti siamo una manica di bugiardi…
Questo è vero!

Ho letto online, dicevo, che non sei rimasto affatto soddisfatto di come la tua vecchia etichetta, la Roadrunner, ha gestito il disco d’esordio.
È vero ma c’è di più, c’è decisamente di più. Voglio dire, stiamo parlando di un’etichetta dove sono stato per 26 anni: quando il nostro contratto è terminato, non conoscevamo praticamente più nessuno lì dentro. Tutti quelli con cui avevamo iniziato erano stati licenziati nel 2012, noi lo abbiamo chiamato “il grande freddo”. Hanno chiuso tutti gli uffici internazionali, passando da essere questo grande network internazionale ad essere praticamente nulla. A quelli rimasti non fregava un cazzo di me o degli Slipknot.

Lo trovo assurdo, siete uno dei loro nomi più forti.
Lo so, non ha senso. Sembrava quasi che volessero ricreare il nostro successo con qualcun altro, a volte hanno provato a toglierci di mezzo ed erano incazzati dal fatto che abbiamo continuato ad avere successo. Sono congetture, eh (sogghigna).

Posso vedere chiaramente il senso di divertimento sulla tua faccia.
Non riesco neanche a spiegarti quanto siano stati frustranti gli ultimi undici anni.

L’hai vissuto come una mancanza di rispetto?
C’è stata sicuramente una mancanza di rispetto ed è per questo che noi ed il nostro management abbiamo dovuto costruire un’etichetta all’interno del nostro habitat, per promuoverci al meglio, è proprio una delle cose che ha portato alla nascita del sito Knotfest che a sua volta ha generato il festival. Sapevamo che nessuno ci avrebbe aiutato, dovevamo farlo da soli. Quindi quando ero pronto col primo disco solista, ero titubante a farlo uscire su Roadrunner anche se tecnicamente ero obbligato a farlo. Per cui si son presi il disco e… beh, è rimasto lì. Avevo chiesto loro di promuoverne determinati aspetti, ma non ne avevano interesse. C’è una valanga di opportunità mancate nella promozione di quell’album. Ma, allo stesso tempo, c’era anche la pandemia, quindi tutto era molto limitato. Quando finalmente siamo potuti tornare a suonare dal vivo le cose sono migliorate un po’. Quando è arrivato il momento del secondo album, e quelli di Roadrunner mi hanno fatto sapere che non ne avevano interesse, ero entusiasta: finalmente avrei potuto lavorare con un’etichetta realmente interessata a me.

Foto: Giuseppe Craca

Ti ricordi la prima volta che hai suonato in Italia con gli Slipknot? Era il Gods of Met…
Il Gods of Metal!

Esatto. Era il Gods of Metal del 2000.
Ricordo che gli Slayer erano gli headliner e noi eravamo subito prima di loro o forse c’era anche una band italiana nel mezzo..

Ma soprattutto voi suonaste dopo i Methods of Mayhem.
Ero sul palco, di lato, ho visto tutto quello che è successo. Sassi, bottiglie, anche ossa di pollo: è arrivato di tutto. E tutto è iniziato nell’esatto istante in cui sono saliti sul palco.

E pensa che questa roba è andata in tv.
Vero!

Io non c’ero, lo vidi in televisione, appunto.
Follia totale. Sono corso sul loro tour bus per vedere se i ragazzi stessero bene e c’era Tommy che stava urlando al suo booking agent «se provi un’altra volta a infilarci in questi cazzo di festival metal…». Voglio dire, era incazzatissimo, giustamente. Hai messo i Methods of Mayhehm in un festival metal italiano in cui gli headliner erano gli Slayer. Non poteva funzionare. Avrebbe potuto forse funzionare al Dynamo o a festival similari.

Ok, aspetta però. La stessa cosa sarebbe dovuto succedere anche a voi.
Sì.

Però avete combattuto, avete rilanciato le bottiglie che vi tiravano addosso.
Oh sì!

Il clown che si butta nel mezzo alla gente…
A noi non frega un cazzo.

In qualche modo vi siete guadagnati il vostro posto.
Oh, noi sapevamo che sarebbe successo.

Lo sapevate?
Sì.

La cosa era stata organizzata su internet…
In Italia gli ascoltatori sono più tradizionali..

I veri metallari!
C’erano molti preconcetti attorno a noi. Molti ci consideravano come la classica band nu metal del momento, cosa che noi non ci siamo mai sentiti di essere. Ci siamo sempre considerati una band ibrida.

Era quel momento storico.
Noi vedevamo noi stessi come un ponte tra il nu metal e la new wave of american heavy metal. Quello era il nostro posto. Voglio dire, eravamo più pesanti di chiunque facesse parte di quella scena, decisamente più matti e – mettiamola così – non c’erano possibilità che noi si uscisse sul palco per perdere. Pensa anche questo però: noi sapevamo che questo sarebbe successo semplicemente dovendo aprire per gli Slayer, sia che si fosse in Italia o in America o altrove. È difficile. Specialmente all’epoca. Noi ci siamo guadagnati il loro rispetto, per cui perché non dovremmo guadagnarci quello dell’Italia? Quindi quando siamo saliti sul palco eravamo pronti e incazzati e non abbiamo risparmiate niente. E hai ragione tu, abbiamo restituito ogni cosa che ci è stata tirata, col cazzo che li abbiamo lasciati vincere.

È stato incredibile.
E da quel momento, ogni volta che siamo tornati, abbiamo ricevuto sempre più amore.

Slipknot - Live at Gods Of Metal. PRO-SHOT (5 Songs)

Riassumendo: la prima volta che siete venuti qui vi hanno preso a bottigliate, oggi siete headliner del vostro stesso festival. Cosa avete guadagnato e cosa avete perso per raggiungere questo risultato?
Non so se abbiamo perso qualcosa. Ovviamente qualcosa perdi, naturalmente, durante la tua carriera, ma parlerei più di lasciar andare che di perdere. Chiaramente invecchi, anche fisicamente. Le follie di gioventù lasciano spazio alla saggezza dovuta all’età. Abbiamo ancora la stessa passione di sempre, e questo ci viene riconosciuto ma ovviamente abbiamo smesso di darci fuoco a vicenda.

Siete diventati più professionali?
Non direi professionali, ma il nostro approccio è cambiato. Oggi incoraggiamo il pubblico a lasciarsi andare, a dare tutto, e questo è forse il motivo per cui inizialmente lo facevamo noi, quando eravamo più giovani. Dimostrare alle persone che possono farlo anche loro: tutta l’energia negativa che avete portato qui, lasciatela andare, tiratela fuori. Tutta la merda che state vivendo nella vostra vita, tutta la merda che state passando coi vostri amici, tutte le cazzate che vi girano attorno, fatele esplodere. Non c’è spazio qui per quella roba. È quel che facevamo sul palco. Quindi adesso incoraggiamo il pubblico a farlo, possiamo stare più tranquilli e fornire loro la giusta colonna sonora. Ci diamo ancora dentro ma, cazzo, ho 50 anni, non è possibile che possa saltellare urlando tutto il tempo, non è possibile, ci ho provato e mi son fatto malissimo.

Beh dai, sembri parecchio più giovane.
Lo so! Ma non mi sento più giovane, mettiamola così. Cerchi di rimanere in forma e di mantenerti sano per poter offrire il miglior show possibile. Dai quello che puoi dare, e questo è quanto.

Detto questo, il Gods of Metal 2000, è diventato in Italia una sorta di spartiacque che ha creato un prima e un dopo. Era un momento particolare, c’era tutta una nuova ondata di band metal che stavano riscuotendo grandissimo successo e questo non stava bene a tutti.
Giusto.

Non voglio mancare di rispetto a Tommy Lee e alla sua band, ma alla fine qualcuno ce la fa e qualcun altro no.
Vero, non hai torto. Ci sono state molte persone che sono venute a dirmi che sono state ispirate a metter su una propria band la prima volta che ci hanno visto dal vivo. Che fosse qui al Gods of Metal o in America quando siamo stati ospiti da Conan O’Brien o, in Inghilterra, quando siamo andati al TFI Friday. Molte persone ci hanno detto questa cosa, e io non avrei mai pensato di diventare quel tipo di band, quella che ispira altri a fare qualcosa.

E invece…
Esattamente. Ed essere ancora a giro è incredibile. Quando abbiamo iniziato, se anche avessimo venduto un paio di centinaia di migliaia di copie del nostro primo disco, saremmo stati felici, volevamo solo andare in tour e suonare. Era l’unica cosa che ci interessava. Nessuno di noi immaginava quello che poi ci è successo.

Il vostro esordio ottenne il disco di platino.
Lo so! E ancora oggi mi domando come cazzo sia possibile. E poi abbiamo fatto il doppio platino, incredibile amico, cazzo se è incredibile.

Foto: Jonathan Weiner

Oggi il mondo è un posto pauroso. Voglio dire, c’è stata la pandemia, oggi abbiamo la guerra in Europa, in Russia non è esattamente chiaro cosa stia succedendo (il riferimento è alla marcia su Mosca da parte di Prigozhin due giorni prima di questa intervista, ndr). Alla fine voi sembrate i buoni.
Ahah!

Come ti fa sentire? È diventato più difficile spaventare gli spettatori?
No, voglio dire, non è mai stato quello lo scopo. Volevamo essere intensi, per far uscire le nostre insicurezze e le nostre frustrazioni in modo da essere… un po’ più sani? Volevamo fare qualcosa di speciale. Non so se abbiamo mai cercato di essere spaventosi, ma abbiamo sempre cercato un confronto: in un modo un po’ strano, noi siamo fondamentalmente uno specchio proiettato sulle persone, noi siamo fuori quello che voi avete dentro. Forse non somigliate a noi, ma noi diamo forma a quel che sentite. No abbiamo mai cercato di essere i cattivi.

Anche se vi ci hanno etichettato spesso.
Oh sì, al 100%. Ma non dipende necessariamente da noi, non è quello che volevamo fare, noi volevamo ispirare i nostri fan. C’è tanta di quella merda in America con tutti questi conservatori che tornano a uscire fuori da ogni dove e pensi «Cristo, ma in che cazzo di anno siamo!?». Non siamo preoccupati per loro. Siamo preoccupati per il popolo ucraino e per quella parte di Russia che si oppone a questa guerra ma non lo può dire. Cerco solo di far arrivare un messaggio a queste persone, far sapere loro che sono nei nostri pensieri e che, appena sarà possibile, torneremo a suonare in quei posti. Questo è quel che possiamo fare.

Ho visto che hai dato la tua benedizione a Colsefni, il primo cantante del gruppo, a portare in giro i vecchi brani degli Slipknot.
Anders? Sì, quel tipo è super cazzuto.

Devo dire che è stato un bel gesto da parte tua.
Beh, è la verità. Io sono stato al primissimo concerto degli Slipknot, quindi ho visto suonare quel disco (l’autoprodotto Mate. Feed. Kill. Repeat. uscito nel ’96, ndr) nella sua interezza ed è ancora oggi uno dei miei dischi preferiti. E so che la band che ha messo assieme è davvero buona. Ci sono dei momenti in cui penso, cazzo, sarebbe fichissimo poter tornare nel pubblico e godersi un concerto degli Slipknot. Io e lui andiamo molto d’accordo, siamo sempre rimasti in contatto per tutti questi anni.

Avete mai pensato di fare qualcosa assieme?
Ne abbiamo parlato la prima volta che abbiamo rimesso assieme gli Stone Sour, avremmo dovuto chiamarci Project X e registrammo una sorta di pezzo collettivo con tutti i cantanti della nostra zona sopra e c’era anche Andy, ma non è mai uscita ufficialmente. Non so neanche se ne abbia ancora una copia da qualche parte. Abbiamo provato a lavorare assieme, ma io non sto più a Des Moines e quindi è difficile. Spero che se il suo tour passerà altrove possa andare a vederlo e dargli un bel cinque, ma se ci fosse la possibilità mi piacerebbe far qualcosa con lui. Ha un growl fantastico, incredibilmente gutturale, è un tipo intenso, mi piace confrontarmi con lui. Ho imparato così tante cose su come si urla che ancora oggi applico. Io l’ho aiutato su come cantare le parti più melodiche e siamo ancora amici e sono entusiasta che stia facendo quel che sta facendo perché è legato a quel materiale.

Che tipo di rapporto hai, oggi, con la tua maschera? Cosa rappresenta per te adesso?
Adesso, con questa nuova maschera, è un po’ la stessa relazione che ho con me stesso, ogni maschera è stato un passo nell’evoluzione di questo rapporto, e ad ogni nuovo step la maschera somiglia più a me ed io meno alla maschera, sempre che questa cosa abbia un qualche senso. È il riflesso di quello che ho dentro quando suoniamo musica, specialmente questa nuova. Ora, con questa maschera, devo dire che ho fatto una cazzata perché non riesco a vedere quasi niente, i buchi degli occhi sono troppo piccoli.

Davvero? Ricordo che in passato ti sei lamentato del fatto che non riuscivi a respirare con le tue prime maschere.
Vero. Posso vedere un pochino, mi manca la visione laterale per cui devo girare completamente la testa per vedere, per evitare il fuoco sul palco e robe così. Ma alla fine va bene così, perché è un tour diverso e vivrò comunque un’esperienza diversa. E credimi, specialmente sul nostro palco, vuoi sapere cosa cazzo sta succedendo attorno a te perché a finire malissimo è un attimo. In più devo dire che è davvero bella e fa effetto ai bambini! Per cui quando trovo un bimbo lo fisso di brutto fino a quando non si prende paura e a quel punto sono felice (ride).

Foto: Pamela Littky

Quando sei a giro come solista o con gli Stone Sour, come vedi il mondo senza maschera? O forse quello è il momento in cui indossi la maschera di Corey?
Questa è una buona osservazione. Non so se sia necessariamente la maschera di Corey. È come se fossi un pittore e la mia tavolozza avesse tutti i colori al completo: la maschera mi aiuta a connettermi a tutte quelle cose che non hanno necessariamente una faccia nella mia vita, e mi aiuta a diventare quella persona, nella musica, che ha qualcosa da dire. Cose che non farei nella vita normale perché il Corey di tutti i giorni è un compagnone, che non se la tira, è fondamentalmente una persona a modo che cerca di fare la cosa giusta. Quando indosso la maschera ho la possibilità di buttar fuori tutta la merda che normalmente non riesco a condividere o anche solo ad abbandonare. Quindi quando faccio le cose da solo o con gli Stone Sour, sono sicuramente più leggere, ma l’intensità è la stessa.

Nel percorso degli Slipknot ci sono stati tanti cambi di formazione, a volte legati a motivi tragici e in altri casi per motivi di natura diversa. Riesci ad immaginare gli Slipknot senza di te, magari con qualcun altro a cantare sotto la tua maschera?
Sì. Ho sempre detto che il giorno in cui non ce la farò fisicamente mi farò da parte ed aiuterò la band a trovare il mio sostituto. Con una band così intensa, se mi limitassi a rifare sempre le stesse cose in maniera meccanica, finirei per farmi del male. Cosa che avviene comunque, ci facciamo male di continuo, oggi – fra tutti – abbiamo probabilmente collezionato più operazioni chirurgiche che canzoni. L’ho detto alla band: il motivo per cui sono qua è perché ci voglio stare. Il giorno che non sarà più così lo sapranno subito.

Quindi non escludi questa possibilità.
No, può succedere. Non è quel che voglio succeda, ma se dovesse accadere non voglio che la band rimanga impaludata e che non abbia la possibilità di andare avanti. Spero che sentano la stessa cosa e sanno bene che non farei del male al gruppo. Per cui, toccando ferro, spero non accada ma so bene che, se dovesse accadere, troveranno un altro altrettanto cazzuto.

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