Philippe Garrel ha sempre fatto, pure consapevolmente, un cinema per pochi. Dunque, nell’era delle sale d’essai mezze/tutte vuote, non fa grande differenza: è, semplicemente, diventato per pochissimi, e sicuro gli sta bene così, o più probabilmente nemmeno se ne cura. Dopo una vita di cinema, a 75 anni è ancora instancabile, e dall’ultima Berlinale arriva con questo Il grande carro, Orso d’argento per la regia, ora nelle nostre sale (pochissime, appunto).
Una vita di cinema che, forse per necessità, è diventata anche la vita della sua famiglia. Il figlio più famoso, Louis, ha esordito come attore a 6 anni in uno dei film del padre più noti degli anni ’80, Les baisers de secours, poi stacco di 16 anni (Les amants réguliers, 2005) e da lì altri sei film insieme, fino a questo che un po’ li somma tutti, e somma tutta la storia del clan.
Nel Grande carro Louis si chiama Louis, è un aspirante attore che, ci dice la voce narrante, “sta per diventare molto famoso”. Anche Léna, la sorella più piccola nella vita e sorella anche nel film, resta Léna, mentre Esther diventa Martha. E poi c’è il “padre”, così senza nome, ma chiaramente una sintesi di Philippe (lo interpreta Aurélien Recoing, già splendido in A tempo pieno di Cantet, stessa storia nera che ispirò L’avversario di Carrère), un uomo d’arte, regista non d’attori ma di burattini che muore e lascia in eredità ai figli Le Grand Chariot del titolo, cioè la compagnia di famiglia.
C’è Louis che, per l’appunto, sogna di fare l’Amleto a teatro, e le sorelle che tentano di traghettare quel mondo di pupazzi e d’artigianato nella modernità, e la nonna (la veterana Francine Bergé) che piano piano svanisce; e un elemento di disturbo e insieme d’unione, quel Pieter che non riesce a fare il pittore (bravo Damien Mongin) che chissà chi è stato nella vita dei Garrel, se c’è stato.
Ma probabilmente è solo autofiction, termine che Philippe giustamente non userebbe mai ma che ben descrive il suo cinema ieri e per sempre, storie della sua famiglia di sangue che s’accompagnano a quelle della famiglia di cinema (dietro il copione ci sono i padri/madri nobili Jean-Claude Carrière, per sempre legato a Buñuel e morto due anni fa, e la pialatiana Arlette Langmann), pezzi di vita reale che combaciano perfettamente con l’irrealtà di storie però sempre possibili, universali.
Qui: la morte (due funerali), la nascita (un parto), gli amori (molti, tutti intrecciati), le illusioni, i risentimenti, i legami di famiglia che sono anche le catene, e l’arte come destino e come prigione, come scelta e come destinazione ultima – sono spettacoli, a loro modo, anche le due cerimonie funebri, con gente che entra ed esce dalle quinte della vita.
Il racconto di Garrel qui è più piano, largo, sta dentro precisi quadri di vita (i vecchi giochi dei mimi attorno al tavolo, le nuvoe proteste anticapitaliste a seno nudo con le Femen) dove i buchi temporali servono a renderci ancora più credibili le storie. Fino a un finale dove arriva la pazzia, un raptus in metropolitana; ma una pazzia gioiosa, vitale, del resto Pulcinella nello spettacolo di burattini non muore mai, e così non morirà il cinema di Garrel, di tutti i Garrel.