Da quando è al governo, media e commentatori di varia estrazione provano in tutti i modi ad alimentare il mito di una Giorgia Meloni “moderata” – non più una leader politica di estrema destra che usa in maniera disinvolta teoria del complotto e argomentazioni razziste, ma una statista in pectore rispettata sullo scenario internazionale.
Peccato che la principale avversaria di questa narrazione sia proprio Meloni stessa.
Nel suo ultimo libro – una lunga intervista con il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, in cui la domanda più ostica è: “ma lei si sente Giovanna d’Arco?” – ha rilanciato per l’ennesima volta la teoria cospirazionista della “sostituzione etnica”.
Per la presidente del consiglio, infatti, le “grandi concentrazioni economiche” (chiunque esse siano) favoriscono l’immigrazione “africana” al posto di quella “moldava”, perché la prima è “funzionale al disegno del cosiddetto melting pot, cioè di mescolare il più possibile per diluire”.
Il sottotesto non potrebbe essere più chiaro: diluire significa rendere meno “pura” l’Europa – cioè meno bianca.
Sono parole molto simili a quelle pronunciate nel luglio del 2022 da Viktor Orbán. Secondo il premier ungherese la migrazione incontrollata “rappresenta una minaccia permanente” perché fa “mescolare” i popoli europei con “razze extra-europee”. E gli ungheresi, aveva avvertito, “non vogliono mescolarsi: entro il 2050 in Europa occidentale non esisteranno più nazioni, ma solo una popolazione incrociata”.
Non è un caso che i due siano stretti alleati. E pure di più: Meloni è ormai rimasta l’unica alleata rilevante di Orbán, che a causa delle sue posizioni filorusse è rimasto progressivamente isolato all’interno dell’Unione Europea.
Come ha detto la politologa Zsuzsanna Szelényi alla testata Balkan Insight, il premier ungherese deve dimostrare in tutti i modi al suo elettorale “di avere un peso massimo in Europa schierato dalla sua parte”. Dal canto suo – ha continuato Szelényi – Meloni ogni tanto deve accontentare la base del suo partito, nonché l’ala intellettuale più radicale, che vede nell’Ungheria una specie di terra promessa.
L’occasione per entrambi si è presentata il 14 settembre del 2023 al Budapest Demographic Summit – un convegno sulla detanalità zeppo di antiabortisti ed estremisti di destra, voluto da Orbán in persona e interamente pagato dai contribuenti ungheresi.
Salendo sul palco da ospite d’onore, Meloni ha indossato i panni di un comandante di Gilead e dichiarato che serve “una grande battaglia per difendere le famiglie, difendere l’identità, difendere Dio e tutte le cose che hanno costruito la nostra civiltà”.
Poi ha rivolto lodi sperticate all’alleato, dicendo che il suo paese è il modello da seguire per invertire il calo demografico.
“L’esempio dell’Ungheria dimostra che le cose possono cambiare se abbiamo il coraggio di fare le scelte e gli investimenti necessari”, ha aggiunto, “in Ungheria si è riusciti a fermare la tendenza in calo della natalità, sono aumentati i posti di lavoro, e anche l’occupazione femminile”. C’è solo un piccolo problema: non è proprio così.
La cosiddetta “politica familiare” di Orbán ha fissato come obiettivo per il 2030 il raggiungimento di un tasso di fecondità di 2,1 figli per donna – un numero che assicura uno stabile ricambio generazionale.
Per farlo ha introdotto diversi benefit ed esenzioni, stanziando una cifra enorme: quasi il 5% del Pil all’anno. Le donne che hanno più di quattro figli, ad esempio, vengono esentate dal pagare le tasse; le coppie con più di tre figli accedono a un finanziamento statale di circa 30mila euro e sussidi di vario tipo. Il governo ha anche nazionalizzato le cliniche private per la fertilità, integrandole nel servizio sanitario nazionale.
Finora – e ricordiamolo: Orbán è ininterrottamente al potere dal 2010 – i risultati sono stati piuttosto scarsi. Tra il 2010 e il 2021 il numero medio di figli per donna è effettivamente salito da 1.2 a 1.59, ma nel 2022 è sceso a 1.51. Inoltre, secondo le proiezioni dell’Istituto demografico ungherese, nel 2050 la popolazione ungherese è comunque destinata a scendere da 9.7 a 8.8 milioni di persone.
Oltre a non funzionare, questo programma di natalità ha diversi lati brutali ed escludenti. Si lega infatti alle politiche razziste, omolesbobitransfobiche e misogine del governo Orbán, andando ulteriormente a comprimere i diritti delle donne e delle minoranze in un paese che già è in fondo alle classifiche europee.
Il corollario della “politica familiare” orbaniana è la sistematica persecuzione dei migranti; è la negazione del diritto all’aborto, che tra le varie cose obbliga le donne a sentire il battito del feto prima di effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza; è la legge che vieta la “propaganda omosessuale” nelle scuole e nelle pubblicità; ed è il totale disinteresse sulla violenza domestica, subita da una donna ungherese su cinque.
In altre parole, la fissazione sulla natalità di Orbán è uno dei pilastri della trasformazione dell’Ungheria in un’autocrazia elettorale.
Il che, a ben vedere, non è proprio un grande modello da cui prendere ispirazione.
Esagerando un po’ – ma nemmeno troppo – sarebbe come elogiare Gilead per il tasso di fertilità omettendo l’instaurazione di un regime teocratico, gli stupri ritualizzati delle ancelle e le impiccagioni pubbliche.
Tra l’altro, la storia recente dimostra che la detanalità non si risolve con imposizioni o finanziamenti a pioggia. Secondo varie ricerche, le persone che vivono in Italia vogliono avere figli: non possono però permetterselo per ragioni prettamente economiche, lavorative e organizzative.
Insomma: sull’esistenza di Dio non abbiamo prove certe, e quindi la sua difesa può risultare ostica; sui salari fermi al palo da 30 anni e il costo della vita sempre più insostenibile, ecco, le prove ce le abbiamo eccome.