Ieri il Consiglio dei ministri ha deciso di aumentare a 18 mesi il limite massimo di permanenza dei migranti all’interno dei Centri di permanenza per i rimpatri (CPR), i luoghi detentivi dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno e in attesa di un provvedimento di espulsione.
L’estensione del tempo di detenzione sarà valida per gli stranieri non richiedenti asilo «per i quali sussistano esigenze specifiche», come i casi in cui «lo straniero non collabora al suo allontanamento o per i ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione da parte dei Paesi terzi».
La misura è stata letta come una risposta di Meloni a quanto accaduto a Lampedusa negli ultimi giorni, quando più di 6 mila persone sono arrivate sull’isola e l’hotspot locale ha superato di dieci volte la sua capacità di carico.
L’aumento del tempo di detenzione non è l’unica novità introdotta dal governo: il ministero della Difesa costruirà infatti dei nuovi CPR «in zone scarsamente popolate e facilmente sorvegliabili», probabilmente caserme ed ex basi militari. L’istituzione di nuove strutture du questo tipo in zone poco popolate e lontane dai centri, tendenzialmente difficili da raggiungere per giornalisti e organizzazioni umanitarie, è stata molto criticata perché rende più facile la proliferazione di abusi e violenze.
Ciclicamente, il tema delle condizioni igienico sanitarie che vigono nei CPR finisce al centro di diverse inchieste, che puntano l’obiettivo sulle condizioni disumane e degradanti in cui si trovano le persone detenute: una di queste, realizzata dai giornalisti Luca Rondi e Lorenzo Figoni e pubblicata su Altreconomia, aveva portato alla luce metodologie non proprio edificanti, come la somministrazione di antiepilettici, antipsicotici, antidepressivi e metadone «per stordire la e uomini in modo che mangino di meno, restino più tranquilli e resistano di più al sovraffollamento, nelle gabbie in cui vengono stipati».
Nei nove CPR italiani attualmente in funzione, a fronte di 744 posti totali disponibili, nel 2021 sono transitate quasi 6 mila persone con una permanenza media di 36 giorni. Lo scopo di questi centri sarebbe il rimpatrio, ma avviene in meno della metà dei casi. Mentre a conti fatti gli psicofarmaci hanno inciso per il 31% sulla spesa totale dei farmaci.
È tanto? È poco? Per capirlo Rondi e Figoni, in collaborazione con l’associazione Naga e l’Asgi, hanno lavorato sui dati forniti dal Sistema Sanitario Nazionale e controllato migliaia di fatture e scontrini perché «in alcuni casi le amministrazioni non hanno questo tipo di dati, in altri casi non li elaborano». E siccome «da ottobre 2021 a dicembre 2022 sono state effettuate solo otto visite psichiatriche nei Cpr», Altraeconomia ha deciso di confrontare la spesa in psicofarmaci nei CPR con quella effettuata dal «Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio delle Asl, che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno (non iscrivili quindi al sistema sanitario nazionale) e segue una popolazione simile a quella dei trattenuti del Cpr anche per età (15-45 anni), provenienza e condizione di “irregolarità”». Ebbene, «a Vercelli la spesa in psicofarmaci rappresenta lo 0,6% del totale: al Cpr di via Corelli a Milano, invece, questa cifra è 160 volte più alta (il 64%), al “Brunelleschi” di Torino 110 (44%), a Roma 127,5 (51%), a Caltanissetta Pian del Lago 30 (12%) e a Macomer 25 (10%)», hanno evidenziato i cronisti nell’inchiesta.
Benzodiazepine come il Tavor, antiepilettici come il Rivotril, antidepressivi come il Zoloft e perfino metadone vengono somministrati in grandi quantità e, secondo le voci raccolte da Rondi e Figoni, in modo «troppo spesso arbitrario, eccessivo e non focalizzato sulla presa in carico e sulla cura degli individui trattenuti». «A Roma in tre anni (dal 2019 al 2021) sono state acquistate 3.480 compresse di Tavor su un totale di 2.812 trattenuti, cui si aggiungono,tra gli altri, 270 flaconi di Tranquirit da 20 millilitri e 185 fiale intramuscolo di Valium». E poi, una volta usciti, dopo essere stati sedati per settimane, a volte per mesi, questi migranti vengono abbandonati a loro stessi. «Spesso – concludono i due giornalisti – devono continuare a prendere psicofarmaci, perché ne sono ormai dipendenti, e diventano insicuri per se stessi e per gli altri».