Cosa erano e cosa sono rimasti i CCCP dopo 40 anni? «Uno stato della mente e una disciplina della carne», li definisce Ferretti. E chi, se non lui, che anche se il tempo passa rimane il solito straordinario salmondiante, in grado di incantare i giornalisti alla presentazione della stupefacente mostra Felicitazioni! allestita nei Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia visitabile da domani, 12 ottobre, fino all’11 febbraio 2024. E dove, se non nella «provincia più filo-sovietica dell’impero americano»?
Tutto torna e sembra combaciare in ogni dettaglio. Un progetto che la Fondazione Palazzo Magnani ha dedicato ai CCCP, con Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici, Danilo Fatur che hanno aderito per «rimettere ordine al caos» e che è solo una delle tante iniziative per celebrare il quarantennale dall’uscita del primo EP Ortodossia. A questo si aggiungono un box antologico con 18 brani raccolti in due vinili e un CD (e nel cofanetto un libro con i bozzetti originali della mostra, foto dei live, spillette, cartoline e i ritratti del fotografo Guido Harari alla storica sede del PCI a Palazzo Masdoni), il catalogo della mostra Felicitazioni! CCCP Fedeli alla linea 1984-2024, la ristampa dal 13 ottobre della loro opera omnia.
Ma è solo l’inizio, perché sembra che stavolta intorno al gruppo punk-situazionista che sconvolse la scena musicale negli anni ’80 si stia muovendo qualcosa di più ampio di una semplice celebrazione. Non poteva mancare un party, che viste le richieste è già stato raddoppiato (con biglietti a ruba in pochi minuti): sabato 21 ottobre e domenica 22 ottobre i CCCP saranno al Teatro Municipale Valli di Reggio con un doppio Gran Gala Punkettone di parole e immagini. Un appuntamento nell’ambito di Festival Aperto, che vedrà la regia di Fabio Cherstich e i quattro protagonisti a raccontarsi al pubblico. Ma lo spirito con cui hanno presentato questi progetti è stato talmente carico di gioia e del gusto di essersi ritrovati «senza che sia cambiato niente» che in molti spifferano sia possibile persino un ritorno, in qualche forma, a qualcosa di musicale insieme.
A questa possibilità ha risposto Massimo Zamboni, durante la conferenza stampa in mattinata: «Abbiamo ritrovato molti brani e testi inediti, chissà se usciranno. Potrebbe succedere come non succedere». Il sorriso, però, è di quelli maliziosi che qualcosa lascia intendere. Intanto uno di questi inediti è la colonna sonora di una delle installazioni, si intitola Onde e viene incarnata da una serie di casse stereo “impiccate” al soffitto. Un percorso stupefacente, che abbiamo avuto la possibilità di visitare in mattinata, e che è ben più di una mostra soltanto sulla band. È una vera autoanalisi collettiva per un territorio che ha incarnato un’utopia che si è sgretolata di fronte alla realtà. Quella del Muro di Berlino crollato nel 1989, di cui è stata riportata una parte all’interno del chiostro. «Mentre veniva installato ho visto gente che piangeva», ha detto Zamboni, specificando che «non era solo un muro, ma un insieme di significati. Il comunismo emiliano è stata un’altra cosa, liberazione e affrancamento, non negazione. È la nostra storia e in questo modo possiamo affrontarla».
Mentre Fatur ci ha accolti mentre faceva stretching in ciabatte all’ingresso, da buon “artista del popolo”, Annarella ci indirizzava con sguardo severo ma amorevole fra le sale. Due piani nei quali sembra di essere catapultati nel film Good Bye, Lenin!, non girato da Wolfgang Becker, ma dai CCCP stessi all’epoca, quindi dove tutto ha un risvolto apocalittico. Così si passa dalla Trabant della Germania dell’Est alla sala Tomorrow dedicata alla collaborazione con Amanda Lear, si attraversano nicchie che ora celebrano il culto cicicipiano con foto in bianco e nero talmente saturate da apparire ancestrali, ai costumi di scena di Annarella ispirati dal mondo islamico. E ancora un enorme tavolo ottagonale che sorregge solamente un busto di Lenin e un telefono grigio che anticipa un lungo corridoio buio con le proiezioni dei giornali dell’epoca, dove riemergono titoli come “Nudi sul palco e sputi al pubblico”, “Rock demenziale staliniano” e “Fra liscio e Stalin”.
Si prosegue in un altro cunicolo con enormi striscioni con i faccioni enormi dei presidenti russi, per arrivare a stanzette più appartate dove è contenuta la memorabilia e spiccano due foto. Una di Fatur con scritto: “Venditi a caro prezzo” mentre batte su un incudine, e una signora a fianco commenta: «Fatela vedere ai giovani di oggi». E sotto una immagine di Annarella titolata: “Donna. Più caro ancora”. Un cammino attraverso la memoria collettiva.
«Direi che la mostra non è molto diversa da quello che succedeva ai concerti», spiega Giovanni Lindo Ferretti, che appare pacificato e non più riottoso, come si è definito, nell’avvicinarsi a questa parte della sua vita che «ha segnato tutto il resto». Ha poi trovato la definizione condivisa su cosa era e cosa è rimasto di questa “ultima avanguardia” del Novecento. «Eravamo uno stato della mente e una disciplina della carne. Non possiamo fare finta di essere giovani, io sono vecchio, loro sono anziani. Annarella è l’amministratore delegato e l’esecutore testamentario dei CCCP. Ci siamo ritrovati come se ci fossimo lasciati il giorno prima e resi conto di essere una cellula dormiente. Ma cosa dovremmo fare oggi, ci siamo chiesti. Uno spettacolo stabile, il trovare un ordine dove l’ordine non c’è mai stato».
Dall’altra parte ha ritrovato Annarella e Zamboni già pronti con le idee chiare, di questa mostra e non solo. «Non ho mai smesso di spostare e catalogare quello che conservavo», dice lei. «Grazie a un’amica ho scansionato foto e video e messo tutto in un armadio. Oggi quell’armadio è stato aperto. In questo modo ho voluto salvare la parte femminile del CCCP, mi spiaceva che andasse persa, dopo il tanto lavoro fatto. Una faticaccia».
Per arrivare a quello che da domani potranno vedere anche i visitatori, infatti, ci sono voluti 13 mesi. Più di un anno che, però, sembra essere stato speso benissimo. E se nel 1990, nel momento dello scioglimento della band, «la nostra dote fu di 2 milioni e 500 mila lire a testa», ha ricordato Ferretti, qui si comprende che la dote artistica è invece difficilmente quantificabile.