Vi ricordate della professoressa ferita ad Abbiategrasso lo scorso 29 maggio? In quell’occasione, il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara aveva ricordato come fosse sempre più necessario dotare tutte le scuole di uno sportello psicologico. Senza approfondire adeguatamente le criticità che oggi impediscono a questo servizio di funzionare bene per tutti, Valditara, il giorno successivo, prima di andare in ospedale a salutare l’insegnante, aveva partecipato all’evento “Pact for innovation”, a Milano, dove aveva citato anche il “docente tutor” come argine al dilagante smarrimento e malessere psicologico che affliggono gli studenti italiani.
Il ministro crede fortemente in questa nuova figura, che, insieme al “docente orientatore” rientra nell’insieme dei progetti finanziati con i fondi del PNRR, e di cui si è saputo qualcosa di più preciso solo dopo le linee guida pubblicate sempre lo scorso dicembre e che è pronta a partire già da quest’anno. L’obiettivo, in effetti, sembra assolutamente logico e condivisibile. Il docente tutor dovrebbe diventare un riferimento fisso per gli studenti a lui affidati, seguendoli nelle fasi principali della loro formazione fino a dopo l’esame di maturità e all’ingresso nel mondo del lavoro o dell’università. Un rapporto individuale tra studente e professore spesso manca e ciò contribuisce allo spaesamento e alla disaffezione che i nostri ragazzi provano verso la scuola.
Basta andare avanti nella lettura del decreto ministeriale dello scorso aprile per rendersi conto che queste buone intenzioni vengono vanificate quasi completamente. Si legge, ad esempio, che ogni scuola può individuare “un tutor per raggruppamenti costituiti da un minimo di 30 studenti fino ad un massimo di 50 studenti”. Non si capisce esattamente come un docente possa diventare un punto di riferimento e approfondire efficacemente la relazione con un numero di ragazzi superiore o addirittura doppio rispetto a quelli ospitati in una classe già affollata come sono quelle delle nostre scuole. In un mondo e in un’Italia dove da anni si cerca di ridurre il numero di studenti per classe, si vorrebbe invece che un punto di riferimento non solo didattico sia comune a un numero di studenti ancora maggiore: un controsenso. Poi bisognerebbe ancora chiarire come superare l’inevitabile accavallamento di ruoli che ne conseguirebbe, visto che al momento è il consiglio di classe, l’assemblea di tutti gli insegnanti di una sezione, il soggetto responsabile della formazione di ogni studente.
Questo problema si abbina ad un altro che riguarda invece il ruolo operativo di questa figura. Cosa infatti dovrà fare materialmente, secondo quanto scrive il ministero? Accanto ai colloqui individuali periodici con lo studente e la famiglia, il docente tutor avrà il compito di compilare insieme al ragazzo in cosiddetto “e-portfolio”, un documento digitale in cui riportare il percorso di studi svolto, le competenze acquisite anche al di fuori delle attività curricolari, una riflessione autovalutativa sulle proprie ambizioni e desideri aggiornata ogni anno e, citando il decreto, «la scelta di almeno un prodotto riconosciuto criticamente dallo studente in ciascun anno scolastico e formativo come il proprio “capolavoro”», qualsiasi cosa questa frase voglia dire.
Se si pensa che, oltre alla preparazione delle lezioni e ai colloqui con gli altri genitori, e oltre alla già folle burocrazia a cui un insegnante deve pensare ogni anno, si aggiungerà presto l’e-portfolio da compilare per almeno 30 studenti, viene da chiedersi dove e quando i docenti potranno trovare il tempo per parlare e creare una relazione solida con i ragazzi loro affidati. Il rischio che sembra palesarsi è ancora una volta quello di trasformare sempre più il docente in un timbracarte.
Eppure il ministro Valditara ha rivendicato l’elevato numero di adesioni che questa sperimentazione ha riscontrato in tutta Italia: quasi tutte le scuole hanno aderito (qualche resistenza c’è stata in Veneto e Piemonte, ma si tratta di pochi casi) e si sono contati 56 mila insegnanti che hanno svolto i corsi di formazione per diventare ufficialmente tutor, contro le previsioni del Ministero che si fermavano a 35 mila. Un buon risultato da questo punto di vista, ma che si porta dietro altre questioni problematiche.
Innazitutto, ancora una volta, ad essere penalizzati sono i docenti precari, che devono dare la precedenza ai candidati assunti a tempo indeterminato con almeno cinque anni di anzianità, e, ancora più problematico, è il tema dei fondi. I tutor saranno naturalmente pagati per questa attività aggiuntiva (non sempre è scontato nella scuola italiana) e sono già stati stanziati 150milioni dai fondi previsti per il PNRR.
Non è così semplice però: come anche scritto nel decreto Ministeriale che ripartisce le risorse finanziarie utilizzabili per progetti di orientamento e contrasto alla dispersione scolastica, questi soldi si trovano in un fondo e sono disponibili solo per l’anno scolastico 2023/2024. Certamente possono essere rifinanziati, sempre ammettendo che i fondi del PNRR arrivino tutti e che nei prossimi anni non ci saranno ripensamenti: di certo ci sono solo i soldi per quest’anno; peccato che ai docenti è richiesta la disponibilità per tre anni. Su questo anche i sindacati hanno espresso perplessità, «noi in questo momento stiamo costruendo una figura che non è soltanto funzionale ma anche metodologica – ha detto la sindacalista della Cgil Graziamaria Pistorino durante un question time organizzato da Orizzonte scuola su Youtube – per il momento valida solo per un anno. Al momento noi non abbiamo chiaro cosa succederà in futuro in merito a questa figura e quali sono gli orientamenti ulteriori».
E forse la cosa più tragica non sarebbe il mancato rinnovo dei fondi per finanziare questa figura nei prossimi anni, ma il fatto che, se succedesse, gli studenti potrebbero non sentire alcuna mancanza del docente tutor. In mezzo a tutte quelle carte da compilare e agli altri studenti da gestire, resterebbe un prof come tutti gli altri.