Si ispirano alla ricca tavolozza di colori che caratterizza, a Milano, la zona attorno a via Padova. Quella che in molti chiamano NoLo, ma che per i giovani musicisti de Il Mago del Gelato altro non è che il quartier generale della loro band: un incrocio di strade dove è tutto un pullulare di ristoranti cinesi, kebabbari, bar sudamericani, macellerie halal, minimarket bengalesi, dove il multiculturalismo non è uno slogan, ma vita quotidiana, e dove può accadere che un gruppo di ragazzi appassionati di jazz e contaminazioni si ritrovi a suonare insieme per gioco, salvo poi prenderci gusto e decidere, dopo una serie di live e i primi riscontri (tra cui l’inserimento nella Classe 2023 di Rolling Stone), di pubblicare un EP e vedere che succede. È così che dopo numerosi concerti e concertini, inclusa una tappa all’ultimo MiAmi, venerdì 20 ottobre Giovanni Doneda, bassista, Pietro Gregori, batterista, Alessandro Paolone, tastierista, e Ferruccio Perrone, chitarrista, pubblicheranno Maledetta quella notte, esordio in sei tracce che i quattro presenteranno in anteprima dal vivo negli spazi di Arca, sempre a Milano, giovedì 19, seguiti dal dj set di Marquis, produttore di questo loro debutto.
«Tutto è cominciato circa due anni fa, anche come reazione alla pandemia», raccontano Pietro e Giovanni, già insieme nei Milano Shanghai. «È come se quel periodo difficile avesse instillato in noi la giusta voglia di fare, spingendoci a dedicarci alla musica senza un fine prestabilito, bensì solo per ritrovare l’energia, per condividere quella che per noi è una passione profonda e autentica». Mentre il Covid ci costringeva a stare in casa il più possibile, i componenti de Il Mago del Gelato si sfogavano, dunque, a colpi di jam nel loro studio La Sabbia, situato proprio di fronte al bar gelateria che non a caso dà il nome alla band. «La prima prova l’abbiamo fatta in un momento in cui la città era in zona gialla. Ci eravamo detti: facciamo una sessione e vediamo cosa ne esce. È finita che abbiamo smesso alle 6 del mattino. Da lì non ci siamo più fermati».
È durante quelle prime improvvisazioni che è affiorato un abbozzo di quell’identità sonora che nei mesi successivi ha pian piano preso forma sia in studio, sia suonando dal vivo nelle occasioni più disparate, e che ora emerge ben definita in Maledetta quella notte. «Veniamo quasi tutti dalla Civica di Milano, dove abbiamo studiato jazz. Ci siamo conosciuti a scuola, insomma. Ma a parte questo, ciascuno di noi ha alle spalle un percorso personale fatto di ascolti e gusti diversi», spiega Pietro. E Giovanni: «Senza prefigurarci uno stile troppo inscatolato e senza darci troppe linee guida, ci siamo messi spontaneamente a provare facendo incontrare e scontrare i differenti approcci all’interno della band, e combinando la formazione accademica con lo studio da autodidatti e le influenze ed esperienze di ognuno. Tutto questo ha dato vita a un’intersezione che, nel processo creativo alla base della nostra musica, è fondamentale. Non siamo un gruppo convenzionale, di quelli che nascono con l’idea di proporre un determinato genere sin dal principio. Nel nostro caso c’è stato prima l’incontro tra mondi lontani e soltanto in seguito quell’incontro ha portato alla genesi di ciò che adesso è diventato Maledetta quella notte».
Ossia un mix di jazz-funk, afrobeat, disco music e amore per le colonne sonore anni ’60/’70. «Siamo quattro personalità musicali distinte, abbiamo mescolato i sound che ci affascinano di più», dice Pietro. «Da un lato, pescando da una radice ritmica tipicamente afrobeat, quindi tenendo come riferimento Fela Kuti, Tony Allen e tutto quel filone nato negli anni ’70 in Paesi come Nigeria e Ghana. Poi facendo nostra un’italianità che rimanda alle colonne sonore di certo cinema d’autore, dunque Piero Umiliani, Piccioni… In più abbiamo aggiunto una componente fusion giapponese con echi di gruppi degli anni ’70 come i Cassiopea, per fare un nome. Al centro di tutto c’è la parola groove, c’è il ritmo, c’è il desiderio di far ballare chi ci ascolta».
Chi ha assistito a un live de Il Mago del Gelato sa che il cuore del progetto è proprio questo: forgiare musica che faccia muovere i piedi, trascinante, coinvolgente, e che trasmetta la voglia di lasciarsi andare a una danza liberatoria. «L’energia che si crea sotto al palco quando suoniamo dal vivo è ciò che più ci appaga e ci stimola. La gente si diverte, balla, c’è uno scambio di vibrazioni positive ed è questo l’elemento che ci sta spingendo a investire sulla band. Abbiamo altri lavori, tutti in campo musicale: c’è chi fa il tecnico, chi produce, chi organizza eventi. Il sogno, però, è di riuscire a mantenerci in primis con la nostra musica e questo mantenendo come fulcro dell’attività i concerti».
Ascoltando Maledetta quella notte è difficile non notare la vicinanza con il pianeta Nu Genea, ma, parlando più di approccio che di sound in senso stretto, si può collocare Il Mago del Gelato in una scena più ampia che, restando in Italia, va dai C’mon Tigre ai Calibro 35 agli Studio Murena: tutta gente immersa in una ricerca musicale in cui il jazz ricopre un ruolo di primo piano in quanto genere intrinsecamente aperto all’ibridazione.
«Ultimamente all’interno del panorama musicale italiano si è delineato un cambiamento, sempre più spesso capita di sentire musica strumentale e sempre più di frequente emerge un gusto per la musica strumentale ballabile», osserva Giovanni. «I Nu Genea sono centrali in questo discorso e sicuramente siamo vicini a quel filone. Allo stesso tempo crediamo di portare avanti una ricerca sonora che si sposta un po’ più verso la sperimentazione, con meno paletti di genere e sapori leggermente diversi».
Gli fa eco Pietro: «È bellissimo che in Italia ci siano tanti gruppi, collettivi e band che suonano musica con strumenti veri e che non puntano solo su drum machine e home production». E ancora, Giovanni: «Nessuno di noi è stato il tipico studente modello da conservatorio con un’impostazione accademica. Semmai ciascuno si è impegnato per costruirsi un background e un carattere musicale propri, distinti da ciò che ci veniva dispensato a scuola. Non si tratta di andare contro qualcosa, però, semplicemente ci muoviamo in una direzione altra».
«Dopodiché» dice Pietro «è indubbio che quello che sta accadendo da qualche tempo nel jazz abbia influito positivamente; a partire dal 2016-2017 c’è stata un’ondata nel Regno Unito che ha invaso i club di Londra, e il risultato è che il jazz, finalmente, non si ascolta più soltanto nelle sale teatrali e nei locali specializzati, ma anche nelle discoteche».
In contrasto con il trend odierno che vede molti approdare ai live solo dopo essersi fatti notare con singoli distribuiti sulle piattaforme di streaming, Il Mago del Gelato ha imboccato la strada opposta: prima si è fatto le ossa in sala prove e suonando in giro, in ogni circostanza possibile, anche nelle situazioni più underground e senza farsi abbagliare da logiche commerciali, e solo in una seconda fase ha deciso di registrare dei pezzi da pubblicare, tenendo comunque la dimensione live al centro dei propri interessi. La premessa è un atteggiamento giocoso che riconosce un grande valore all’improvvisazione, atteggiamento che ha condotto Il Mago del Gelato a un eclettico intreccio di suoni e atmosfere ben simboleggiato dalla copertina di Maledetta quella notte e dagli artwork di Zenzero, Elisir e Stracciatella, i singoli finora estratti dall’EP: protagoniste, le grafiche di Luca Salvatori, coloratissime come la musica del quartetto milanese, oltre che zeppe di dettagli: «Ogni volta che le guardi puoi scoprire qualcosa di nuovo, che è ciò che ci piace dei nostri brani».
Complice il contributo di amici musicisti (Martina Campi, Alessio Dal Checco, Elia Pozzi e Alessio Profeti), l’armamentario con cui le varie tracce sono realizzate è ricco: oltre a batteria, basso, chitarra e tastiere, comprende percussioni e altri strumenti, dal sassofono al mandolino, dal flauto traverso alla fisarmonica al trombone. «Ma a differenza di quanto scritto da alcune testate, non siamo un collettivo, siamo una band classica, ma aperta alla partecipazione e all’apporto di altri», precisano i ragazzi de Il Mago del Gelato, che in questo loro primo lavoro hanno inserito anche voci e cori effettati. «Da questo punto di vista abbiamo scelto il vocoder come strumento principale, strumento in cui la voce viene processata tramite una tastiera. Tutto nasce da una passione di Alessandro, il tastierista, che aveva già usato questa tecnica in altri progetti: quando ci ha proposto di inserirla nella musica de Il Mago del Gelato, abbiamo accolto l’idea a braccia aperte. Nelle produzioni abbiamo, inoltre, infilato qualche campione di voce ottenuto con un vecchio registratore a cassette».
Ovvio che per una band di questo tipo le parole siano secondarie; Giovanni e Pietro le definiscono «un flusso di coscienza ispirato alle emozioni che le strumentali trasmettono a ogni membro del gruppo» e messo a punto durante «incontri in cui ci confrontiamo sulle rispettive sensazioni provocate dall’ascolto dei brani». L’intento, affermano, «è quello di uno scambio che ci aiuti ad abbracciare una sorta di percezione comune dei pezzi, percezione comune che quando suoniamo live diventa essenziale». Per il resto, è il groove che conta. E in questi tempi bui ce n’è bisogno.