Suoneranno o non suoneranno? Se lo chiedevano in molti da giorni, così come si è interrogata fino all’ultimo sulla questione la folla assiepata di fronte al Teatro Municipale Romolo Valli in attesa del Gran Galà Punkettone che i CCCP – oltre alla mostra che si svolge in concomitanza ai chiostri di San Pietro (molto più di una mostra) – hanno organizzato per festeggiare i 40 anni dall’uscita del primo EP Ortodossia.
Un indizio di cosa sarebbe potuto accadere c’era, visto che alla regia era previsto Fabio Cherstich con alle spalle esperienze a livello internazionale (tra le tante al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo). E infatti, dopo qualche minuto d’attesa, quando si spengono le luci, si riaccendono su Danilo Fatur che fa il suo ingresso illuminato da un occhio di bue, seguito da Massimo Zamboni che imbraccia la chitarra e, a seguito di un gioco di sguardi, parte la musica e la band che poteva nascere solo a Reggio Emilia – «la città più filo-sovietica dell’impero americano» – ci stupisce prendendoci alle spalle con Giovanni Lindo Ferretti e Annarella Giudici che, a braccetto come due sposi (lei con un lungo vestito bianco e lui in completo con tanto di farfallino) entrano dall’ingresso e passano in mezzo alla platea cantando «lasciami qui, lasciami stare, lasciami così/Non dire una parola che non sia d’amore…» e si avviano sul palco per riunirsi con gli altri due soci. È solo la premessa, poetica, di una serata di musica. Perché i CCCP hanno suonato e cantato, eccome se lo hanno fatto: con una band alle spalle, composta da Ezio Bonicelli al violino, Simone Filippi alla chitarra, Luca Rossi al basso e Simone Beneventi e Gabriele Genta alle percussioni che, a detta di Ferretti, ha reso possibile restituire certi brani con la «potenza che avrebbero dovuto avere». C’è stato di tutto all’interno di questo evento sui generis, ma forse l’aspetto principale, troppo spesso trascurato nel mondo dello spettacolo, è quello umano. Perché l’essersi ritrovati dopo tanto tempo (ma non la chiamano reunion) è apparsa prima di tutto come una estrema dimostrazione di quanto sia forte il sentimento dell’amicizia. E che, come in ogni gruppo, c’è sempre un leader a tenere insieme gli altri: non il frontman, come si potrebbe immaginare, ma Annarella che con poche parole ma sempre pesanti per il suo buon senso è molto più di un «amministratore delegato», com’è stata definita. Infatti è lei a tenere subito un breve comizio dove «cittadini e cittadine», esordisce, «questi sono i miei gioielli…». Ovazione e tra il pubblico anche qualche lacrimone.
«La cellula dormiente si è svegliata, ma cosa ci siamo svegliati a fare?», premette poi Ferretti nella prima fase della serata, un talk moderato da Daria Bignardi dove è stata ripercorsa la storia di quegli strani ragazzi che hanno rappresentato «l’ultima avanguardia del ‘900». E ha proseguito GLF, sottolineando che, in buona sostanza, il genere era solo un espediente: «Il punk era un’estetica e la mancanza di futuro ci piaceva. Poi ti trovi a 70 anni e non avrei mai pensato di arrivarci. Oggi, però, apro la finestra e con tutti questi problemi mi sembra che ancora non ci sia il futuro. Ma a noi quella mancanza ci ha permesso di costruircelo un futuro». È stata anche l’occasione per rispondere ai detrattori degli ultimi anni, quelli che non hanno mai capito la sua apparente conversione cattolica e su posizioni politiche conservatrici: «Lo ha detto Giorgio Canali che io sono sempre stato così, mi stupisco che gli altri non se ne siano mai accorti. Non siamo mai stati artisti maledetti. Io e Annarella siamo gente del crinale dell’Appennino, Zamboni e Fatur di Reggio Emilia. Questo siamo e rigettiamo nel mondo una parte di noi stessi. E ci chiamiamo così perché siamo di Reggio Emilia, la città più filo-sovietica, non avremmo potuto usare questo nome altrove». L’incontro tra Zamboni e Ferretti in una discoteca in Germania («senza quei tre minuti non saremmo qui») e il resto è storia. Ma perché nel ‘90 si sciolgono? La caduta del Muro di Berlino gli leva le motivazioni ideologiche, ma non c’è solo questo. Ci sono anche il festival di Melpignano, nel leccese, che nell’88 ha visto sbarcare per la prima volta le band rock-punk russe in Occidente e dove loro chiudono l’evento («e parevano più russi dei russi» dice Gino Castaldo in un intervento video) e poi quel tour del 1989, dove quattro band italiane si esibirono a Mosca e Leningrado. «Quel viaggio ha segnato la nostra fine». D’altronde, anche senza spiegare i dettagli dello scioglimento, avevano chiuso un cerchio e in seguito avrebbero rischiato soltanto di ripetersi.
Poi la distanza che fra alcuni è durata più di 30 anni: «Siamo stati molto presenti anche nell’assenza – ha spiegato Zamboni – e quello che è successo adesso doveva accadere prima o poi, era naturale». E lo dice guardando Ferretti che gli sorride sotto i folti baffoni, segno che tra i due si è ristabilita una sintonia che va al di là dell’aspetto artistico. Non a caso Zamboni ribadisce: «Non siano punk ma dei montanari che si vestono con quello che trovano in casa». Tra i tanti meriti di queste celebrazioni, c’è anche quella di aver fatto emergere le personalità di Annarella e Fatur, prima un po’ in ombra. La prima, vera matriarca di questo gruppo di “ragazzacci”, lungimirante al punto dall’aver conservato meticolosamente l’archivio e da ricordargli, a ogni loro titubanza, che «la vita è breve, ragazzi, non dimentichiamolo». Il secondo, l’istrionico performer dall’animo poetico – che ai tempi si faceva chiamare Josè Lopez Macho Frasquelo e vendeva in un locale cocktail micidiali a base di vodka russa a sole 700 Lire – e quando gli chiedono perché sul palco fosse sempre nudo, risponde: «Avevo un bel culo».
Dopo tanti ricordi e aneddoti, arriva così il momento più atteso: la musica. Introdotta dal video con Amanda Lear di Tomorrow, un vero must dove premettono: «Lei era il simbolo dell’ambiguità, ai tempi ci si divideva sul fatto se fosse uomo o donna. Ma alla fine neanche noi l’abbiamo capito…», le luci sul retropalco a un certo punto squarciano il buio in sala e appaiono loro, come ai vecchi tempi, con Ferretti nella penombra in devozione sacrale al microfono, Zamboni che imbraccia la chitarra dal suono “grattugiato”, Fatur in versione “artista del popolo” che cammina con delle catene ai piedi e un bancale in mano pieno di chiodi con il quale si autoflagella, e Annarella, la “benemerita soubrette” che entra ed esce sfoggiando i suoi soliti vestiti iconici e imbracciando fieramente i simboli dell’ex URSS e la bandiera rossa. Scorrono così in serie brani come Morire, con il suo profetico mantra “produci, consuma, crepa”, oppure Oh! Battagliero, la canzone partigiana reinterpretata in salsa punk-sovietica che introduce la parte più cupa e dirompente dell’esibizione musicale. Dalla elettrificata Stati di agitazione alla liturgica Libera me Domine (che dimostra l’anima spirituale di Ferretti già in tempi non sospetti), fino all’intermezzo di Andrea Scanzi che contestualizza l’epoca in cui videro la luce questi brani – altro che anni ‘80 di “plastica” – che ci porta verso il gran finale (punkettone) con l’inno di una generazione e probabilmente il controcanto acido alla edulcorata Romagna mia, e non può che essere Emilia Paranoica seguita da tutto il teatro in piedi. Non manca Radio Kabul, che viene attualizza con il frontman che ricorda «una storia che si riarma» e del ritorno di «guerra guerra guerra» dove gli afghani di allora lasciano il posto a «gli armeni del Nagorno-Karabakh» e ai «russi del Donbass» in relazione ai recenti conflitti.
La serata, che senza retorica può essere definita storica, si chiude con la enorme insegna dei CCCP a illuminare il Teatro Valli, l’abbraccio fraterno tra i quattro amici ritrovati e Ferretti che ci tiene a precisare: «Non è una reunion, saremmo imbarazzanti a noi stessi. Ma abbiamo deciso di suonare per il nostro piacere, speriamo anche per il vostro». È questa la fine? Contando quante volte i no sono diventati sì, nessuno sembra averci creduto. E viva anche l’incoerenza, se produce di questi effetti.