C’è un bambino che suona l’organo nella chiesa del piccolo paese di Roncocesi, in Emilia-Romagna. Si chiama Adelmo Fornaciari e abita proprio lì di fronte, in una di quelle case che si svegliano presto tutti i giorni, non solo la domenica per andare a messa.
Perché quella che si profila fin dall’inizio del docufilm Zucchero – Sugar Fornaciari (per la regia di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, presentato alla Festa di Roma e da oggi fino a mercoledì 25 ottobre nelle sale) è una terra dove si respirano la vita e i doveri della campagna. Dove le persone sentono ancora nell’animo le tribolazioni delle mondine che lavoravano il cotone nei campi; la fatica, le sofferenze che segnavano la voce che intonava una canzone popolare. Questo è un luogo dove si respira il blues, ma nessuno se ne rende conto davvero. Nessuno, tranne quel bambino che fa il chierichetto, quando non suona l’organo della chiesa.
Zucchero diventa Zucchero quando la terra di Roncocesi non viene più pestata dai suoi piedi di infante, ma chiusa in un barattolo di vetro che si trasferisce con lui in Toscana. È il 1966 e l’acqua di Forte dei Marmi è salata, troppo salata per chi ha sempre visto scorrere quella dolce del Po. Il vento che smuove minuscoli granelli di sabbia è diverso, troppo diverso da quello che fa frusciare le cime dei pioppi emiliani. Ma queste forse sono solo le sensazioni di un bambino sensibile, che la nuova maestra di scuola dice sia introverso, dolce. Dolce, sì: come lo zucchero.
Però c’è sempre la musica: una chitarra che è il regalo preferito sempre, a Natale come al compleanno. E c’è anche la voglia, in quel ragazzo non più bambino, di conoscere da dove vengano quelle tonalità che gli smuovono l’anima, come dicono sappia fare solo il diavolo. Ossia: il blues e il soul che si respirano – ne è lui ora testimone – in ogni angolo delle strade di New Orleans, dove il fiume Mississippi e quel paesaggio paludoso già dall’alto dell’aereo sembrano un po’ casa. E che tingono di nuove certezze il rientro in Italia di Zucchero-ora-anche-Sugar Fornaciari. Come quella di voler fare musica, certo; ma di voler fare quella a cui i produttori non credono – tanto che ai primi Sanremo gli viene chiesto di cantare con “la voce pulita”, dietro un’aria da bravo ragazzo (cit.).
Fino a che uno di loro lo fa: ci crede. Si chiama Corrado Rustici, e dal 1985 il suo nome è quello che a San Francisco accompagna Zucchero nell’incisione del primo vero album di successo – Zucchero & The Randy Jackson Band –, con il singolo Donne che fa capire come funzionano le cose in Italia: si arriva penultimi a Sanremo, ma si diventa hit grazie alle radio. Da quel momento, le 400mila copie vendute di Rispetto (1986) e i quasi 2 milioni dell’album Blue’s segnano un successo che ha il sostegno anche di grandi artisti internazionali, che apprezzano Zucchero per la sua firma, riconoscibilissima. Ossia: quella che vede la liricità tutta italiana della sua terra (Verdi e Pavarotti, per dire) fondersi con il blues e il rock e il soul del mondo. Tanto che arrivano Eric Clapton e la Royal Albert Hall a Londra; i giornalisti che iniziano a interessarsi a quel “Cappellaio Matto con il cuore di cuoio” che si chiama Zucchero. O Sugar, se vogliamo.
A partire dal 1989 c’è il dolce fiume del successo, insomma, dove l’acqua è musica (sempre apprezzata) e amici (sempre artisti). C’è (tra le altre) la Diamante scritta insieme a De Gregori, la Someone Else’s Tears con Bono, e Senza una donna cantata con Neil Young; c’è l’invito a suonare insieme da parte di grandi come Brian May e Miles Davis, e il Pavarotti International, che è una fucina di arte e bellezza musicale. Ma in quegli anni c’è anche il vasto mare della depressione, dove Zucchero si perde con gli occhi e col cuore, e dove l’acqua è così salata da farlo sentire “misero” e “perso nel vivere profondo”, eppure capace di scrivere in due minuti un pezzo come Miserere; così come di salire sul palco di Woodstock ’94 e vivere al massimo l’esperienza. Forse perché quella sensazione di avere qualcuno che cercava di tirarlo fuori dall’acqua (e per i capelli) in quel momento si traduceva nel messaggio delle figlie che sul cellulare tuonava: “Sali su quel palco e non rompere”.
Fino a che, nel 1995, Zucchero brinda (questa volta davvero) alla vita, accogliendo dalla sua tenuta Lunisiana Soul a Pontremoli il calore di “un altro” sole, che quando arriva sera torna a illuminare la terra, non più il mare. Ed è Così celeste questa rinascita da aprire una nuova stagione musicale, con la stretta collaborazione con il produttore Don Was, che (tra le altre cose) realizza con Zucchero un ritorno nostalgico all’infanzia e alle campane che aprono il concept album Chocabeck (2010), passando poi alla dimensione internazionale, con le sonorità caraibiche di una Sesíon Cubana (2012) che chiama a raccolta a L’Avana qualcosa come 80mila persone.
Perché ha ragione Bono quando dice che con Zucchero the glass is always full. Quando un musicista impara a farsi trasportare dalla musica come fa un uomo con l’acqua, nuotando nel mezzo di un fiume o tra le onde del mare, il bicchiere per lui non può che essere sempre così. Pieno.